La Lega ed il PCI

23 Agosto 2018
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8 Aprile 2010
Francesco Cocco

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Non voglio ripercorrere il fenomeno di autodistruzione che vent’anni or sono portò al dissolvimento del PCI. M‘interessa semplicemente riflettere brevemente su come il modello organizzativo e di vita di quel partito oggi torna attuale e vincente, come hanno dimostrato le recenti elezioni regionali. A sottolineare una tale attualità sono paradossalmente i successi della Lega Padana, i cui dirigenti non hanno remore nel sottolineare gli aspetti positivi di quel modello.
Mi soffermo su tre caratteri (solo esemplificativi e non certo esaustivi di un’analisi più ampia ed articolata) che erano propri del PCI e che la Lega ha fatto propri: lo spirito di fratellanza, il radicamento territoriale, la presenza nelle istituzione come proiezione di un impegno di partito e non come acquisizione di un particolare status sociale.
Certo lo spirito che animava militanti e dirigenti del PCI apparteneva ad un’ altra dimensione del far politica e s’inquadrava, come vedremo, in un orizzonte culturale totalmente diverso da quello che anima la Lega. Ma mentre i distruttori del PCI, a cominciare dall’ ultimo segretario, si sono sgolati a predicare il “partito leggero” affidato ai mass-media, oggi la Lega esalta quel modello e lo fa soprattutto con dichiarazioni di giovani dirigenti.
Riprendo dal quotidiano Repubblica tre testimonianze di dirigenti leghisti riferite ai tre caratteri che sopra richiamavo. Vediamo cosa dice Massimo Romeo sullo spirito di fratellanza: “….ci si trovava la sera nelle sezioni, si faceva baracca a Pontida, si cresceva in uno spirito di fratellanza……..adesso che occupiamo posti nelle istituzioni non cambia niente: siamo sempre quelli, la gente ci vota perché sa che non ci metteremo mai su un piedistallo”. Sul legame col territorio ecco la testimonianza di Nicola Finco, responsabile dei giovani padani nel Veneto :”…. sì, siamo come il vecchio PCI, perché allora come oggi la gente vuole toccare il politico sul territorio”. E sull’ aspetto attinente al ruolo nelle istituzioni ecco quanto afferma il giovane dirigente Filippo Pozzi :” Del modello PCI noi abbiamo preso la parte buona: la spinta ideale e la consapevolezza che stare nelle istituzioni è una cosa importante non per te , ma per il bene della gente”.
Il riferimento al PCI è esplicito in due dichiarazioni, è implicito nella terza. Ma questo non significa che la Lega Padana possa essere considerata una qualche forma di prosecuzione di quella profonda trasformazione che il partito fondato da Gramsci seppe portare nella società italiana. Quel partito agiva in un orizzonte di liberazione umana universale, e questo valore era talmente introiettato nella sua ragion d’essere che ha saputo resistere ai processi di degenerazione propri dello stalinismo. Al contrario la Lega opera in una prospettiva xenofoba, di diseguaglianza. Quindi non di liberazione universale ma di sostanziale chiusura di una parte della società nei confronti degli “esclusi”.
Lo spirito fraterno che sino agli anni 70 animava il PCI nasceva in parte dalla condizione di partito di minoranza, oggetto di discriminazione nella società e nei posti di lavoro, Quindi dalla necessità di sostenersi con solidarietà reciproca come condizione per resistere all’ esclusione. Nasceva però anche e soprattutto dalla consapevolezza di partecipare ad una comune opera di affrancamento della parte più debole della società in una prospettiva d’ inclusione universale di tutti gli uomini per una maggiore uguaglianza e libertà umana.
L’eletto nelle istituzioni non era il titolare di un ruolo che lo collocava in una posizione di privilegio (un “piedistallo” dice il leghista Massimo Romeo) ma semplicemente era il designato ad una delle possibili funzioni che il partito doveva assolvere nella società. Ne conseguiva che il ruolo istituzionale non poteva mai essere strumento di “scalata sociale”, secondo modelli comportamentali che sono andati affermandosi a partire dallo scioglimento del PCI e dello snaturamento craxiano del PSI . Ma non è che prima di quegli eventi non esistessero forme di esibizione di “status-symbol del potere” . Erano però deviazioni che disattendevano codici di comportamento politico e sociale, che lentamente si sono affievoliti sino a scomparire..
Insomma nei militanti dei partiti che si richiamavano ai valori del movimento operaio era presente la consapevolezza di operare nella società italiana una vera rivoluzione antropologica. Aggiungo di “operarla nel presente”, cioè senza attendere la realizzazione di una mitica società socialista. Il “cafone” meridionale che dava del “tu” al professionista, suo dirigente di partito, o l’operaio del nord che dava pure del “tu” all’ingegnere suo rappresentante nelle istituzioni ponevano in essere un processo di liberazione dalle “caste” in cui era intrappolata la società italiana sino ai primi decenni del Novecento. Ed il “professionista” dirigente di Partito come “l’ingegnere” designato ad operare nelle istituzioni erano consapevoli del dovere di non allontanarsi anzi di doversi avvicinare ad una comune status sociale col cafone e con l’operaio, anche al fine di creare le basi essenziali di una comunità politica. Poi questa prassi sociale e morale è scomparsa con la debole argomentazione di taluni leader che l’hanno bollata con l’epiteto di “pauperista” e si sono poi affrettati a scimmiottare modelli di opulento consumo capitalistico .
Che la Lega abbia scoperto il senso di una tale rivoluzione antropologica non è certo in sé disdicevole. Spiace che essa la viva strumentalmente perché non l’ accomuna ad un orizzonte di liberazione ed uguaglianza umana. Al contrario è disdicevole che siano andati allontanandosene taluni rappresentanti di forze politiche che in un modo o nell’altro dicono di richiamarsi alla tradizione della sinistra.

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