8 marzo: meno mimose più autodeterminazione

9 Marzo 2009
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Gianna Lai

“Non vorrei aver commesso un’imprudenza a nascere donna”, dice il personaggio femminile di Altan. Commenta le attenuanti concesse agli stupratori nei processi di violenza contro le donne, responsabili di stare in giro la notte fino a tardi, sole, non adeguatamente protette da abiti che inibiscano gli istinti animaleschi degli uomini. Di sicuro, poveretti, fortemente condizionati dall’esposizione televisiva e pubblicitaria del corpo femminile.
Speriamo che, almeno in occasione dell’ 8 marzo, stampa e televisione smettano di considerare la violenza contro le donne una mera questione di cronaca nera, che fa notizia in quanto sollecita la morbosità delle persone nei particolari macabri e raccappriccianti dell’ordinaria follia, descritti da giornalisti, e giornaliste, alla ricerca di scoop. Da qualche anno l’ 8 marzo pone al centro una questione cruciale nel processo di autodeterminazione delle donne, cioè quanto questo volersi prendere la libertà di scegliere, cozzi terribilmente con ideologie, stereotipi, opportunismi, impossibili da scalfire. A meno che da parte degli uomini non ci sia una seria volontà di rimettere in discussione ruoli e comportamenti sulla base di valori più saldi. E da parte dello Stato nuove assunzioni di responsabilità per un’emergenza sociale da affrontare politicamente, e non indulgendo a vergognosi provvedimenti contro gli immigrati, o a continui e duri interventi del Vaticano nelle decisioni del Parlamento.
Le donne hanno acquistato consapevolezza e dignità, riconoscimento di sè in quanto persone nella rivendicazione di diritti e di libertà, andando oltre le regole di una generica emancipazione. Non altrettanto è avvenuto per gli uomini, per molti uomini, ancora rigidamente legati nella relazione a forme patriarcali, che non hanno alcun riscontro con i modi e i tempi del vivere. Così la violenza familiare, quella che domina il nostro panorama, sarebbe determinata da gelosia, cioè da troppo amore, non da forme prevaricatorie di possesso, dall’incapacità di basare la relazione sul riconoscimento dell’altra. In realtà, gli uomini non hanno il coraggio di sviluppare rapporti che si fondino sull’uguaglianza e, insieme, sul riconoscimento della differenza, secondo un processo culturale, oltrechè sentimentale. Non sono protesi all’assunzione di nuove responsabilità nella ridefinizione di se stessi. Sarebbe come dire, cioè, che le donne hanno rielaborato l’eredità materna, assumendo nuove consapevolezze, mentre altrettanto non hanno fatto gli uomini rispetto al modello paterno. Aiuta, in questo tragico scenario di incapacità a ridefinire il rapporti uomo-donna, uno Stato sempre alla ricerca del capro espiatorio, extracomunitario, clandestino, di colore, straniero? Unici soggetti a cui addebitare anche tutta la responsabilità della violenza sulle donne, per farla rientrare nel calderone razzista della sicurezza e delle ronde? E uno Stato che lascia fare se le aziende discriminano, nè interviene a livello sociale con politiche di tutela dei diritti? E una Chiesa ancorata a una visione misogina del mondo? Una gerarchia che impedisce alle donne ogni forma di accesso, così giustificando nei più deboli atteggiamenti di superiorità e di discriminazione? Una Chiesa che interferisce sugli organi legislativi se ci sono da prendere decisioni su contraccezione aborto e procreazione assistita, al punto da compromettere, sul corpo della donna, ormai da anni, la laicità del nostro Stato? E nonostante tutto, non sembra venuta meno l’opposizione delle donne alle politiche discriminatorie, neppure in questo momento di grave crisi, e la loro capacità di affrontare anche le situazioni più difficili per dire basta alla violenza maschile. Le manifestazioni dell’ 8 marzo lo dimostrano.

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