Tonino Dessì
Più o meno in questo periodo, nel 1999, all’Assessorato regionale della programmazione, bilancio, credito e assetto del territorio, stavamo attendendo, durante l’ultimo anno di mandato della Giunta Palomba, di centrosinistra, alla predisposizione del primo POR (Programma operativo regionale 2000-2006) dei Fondi strutturali europei.
Eravamo classificati fra le aree europee dell’Obiettivo 1, regioni in ritardo nello sviluppo, in quanto gli indicatori del PIL e del reddito pro-capite erano inferiori al 75 per cento della media europea.
Siamo usciti dall’Obiettivo 1 nel 2006, anche in conseguenza dell’allargamento dell’Unione e dei nuovi parametri di computo dei livelli medi europei derivanti dall’ingresso di Paesi meno sviluppati dell’Italia.
Per dodici anni siamo stati quindi collocati nell’Obiettivo “Competitività”, cioè nelle aree in transizione verso il livello di maggior sviluppo medio europeo.
Ora, nel 2018, siamo tornati di nuovo nell’Obiettivo 1, ossia tra le regioni meno sviluppate.
Se è vero che queste classificazioni risentono di una certa rigidità e sono affidate a parametri statistici nei quali anche un decimale di punto percentuale è decisivo, resta ugualmente vero che, essendosi tutti, nell’Unione, mossi in una o nell’altra direzione (fermo non è rimasto nessuno), a distanza di vent’anni (ma si può retrodatare ancora al 1994, perché i primi cofinanziamenti comunitari risalgono al ciclo 1994-1999), non possiamo non constatare che la strategia non ha funzionato.
I Fondi strutturali europei hanno nella sostanza finito per sostituire quelli aggiuntivi e straordinari dei due Piani di Rinascita che, messi in opera ai sensi dell’articolo 13 dello Statuto (e dell’originario articolo 119 della Costituzione), dispiegarono i loro effetti in un ciclo ultratrentennale, iniziato nel 1962 e conclusosi con l’ultimo rifinanziamento, disposto dalla legge n. 402 del 1994.
L’obiettivo dell’articolo 13 dello Statuto, così come quello della programmazione strutturale europea, era (è) quello di far uscire definitivamente l’Isola dai meccanismi che hanno generato e da quelli che hanno riprodotto il suo ritardo nello sviluppo.
Già nella seconda metà degli anni ‘70, tuttavia, i dubbi sulle strategie della Rinascita diventarono elemento comune del dibattito politico e culturale.
“La rinascita fallita” è il titolo di un importante saggio del socioeconomista Marcello Lelli, edito nel 1975.
Ancora oggi ci si divide sul giudizio relativo alle politiche economiche e sociali dei due cicli della Rinascita, quello del primo Piano (legge n. 588/1962) e quello del secondo Piano (legge n. 268/1974).
Queste divisioni spesso sono ancora caratterizzate da una certa strumentalità polemica riferita all’attualità contingente.
Così come già si avverte una strumentalità politica contingente nelle polemiche che si sono lette in occasione del nuovo mutamento di collocazione della Sardegna nella programmazione europea.
Mutamento che comunque dovrebbe avere come conseguenza un incremento delle risorse disponibili per il nuovo sessennio di programmazione.
Sulla scorta di questi ragionamenti vorrei azzardare una provocazione.
Vent’anni di ciclo programmatorio-finanziario consentono di parlare di una “Terza Rinascita” e il risultato potrebbe legittimamente indurre a esprimere una valutazione di “fallimento” del ciclo.
Sarebbe bene un esame aggiornato e attualizzato di questo terzo ciclo, per evitare che le nuove risorse aggiuntive vadano ancora in direzioni dispersive e controproducenti.
Il nostro livello di dipendenza infatti non è diminuito e i nostri deficit strutturali (collegamenti esterni e trasporti interni in primis) non sono stati superati.
Resta ancora in piedi (è una disposizione costituzionale permanente), l’articolo 13 dello Statuto, che, se non in termini di grandi masse finanziarie statali ulteriormente aggiuntive a quelle comunitarie, potrebbe invece essere interpretato ai fini della concessione di nuovi regimi delle misure occorrenti per assicurare ai soggetti economici sardi pari opportunità rispetto ai soggetti operanti nel Continente, correggendo o derogando parzialmente a tal fine le norme sulla concorrenza, il tanto che basti per superare i gap derivanti dalla condizione insulare.
Un nuovo Governo si è insediato, un nuovo Ministro sardo siederà al Ministero per gli affari europei, una nuova pattuglia di deputati e di senatori sardi è arrivata in Parlamento.
Una legislatura regionale volge al termine e magari vorrà lasciare, nei non molti mesi che mancano alla scadenza elettorale sarda, almeno un contributo all’avvio del confronto più utile possibile per impostare una fase più consapevole e virtuosa delle politiche riguardanti la Sardegna.
A me pare che le questioni centrali del confronto possano essere queste cui ho accennato fin qui.
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