Marx e la follia del capitale

16 Maggio 2018
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Gianfranco Sabattini

Poiché ricorre quest’anno la commemorazione del bicentenerio delle nascita di Karl Mrax, molti sono i revival del suo pensiero, tutti volti a dimostrare l’attualità della sua analisi critica delle “follia” della ragione economica, che ha ispirato, e continua ad ispirare e ad alimentare, il funzionamento del capitalismo. L’interesse per le critiche marxiane alle modalità di funzionamento del modo capitalistico di produzione è oggi rivitalizzato per via dell’esperienza recente della Grande Recessione, i cui postumi non sono ancora del tutto superati, soprattutto in Italia.
Gianfranco Sabattini, autorevole economista dell’Ateneo Cagliaritano, ci offre spunti di riflessione con questa sua recensione di un recente libro sul filosofo di Treviri.


E’ comparso di recente in libreria il volume “Marx e la follia del capitale”, di David Harvey, sociologo, antropologo e politologo inglese, appartenente alla corrente del “marxismo geografico” ed autore di opere, quali “Social Justice and the City” e di “Limits to Capital”, sui problemi della giustizia, del razzismo e del processo di emarginazione sociale operante nelle grandi città. Secondo Harvey, quel che Marx ha fatto in tutti i suoi studi è “stato uno sforzo prodigioso per capire come funzionasse il capitale”, cercando anche di capire “come quelle che chiamava ‘le leggi del moto del capitale’ influissero sulla vita quotidiana delle persone”, senza che si sia mai stancato di denunciare “le condizioni di disuguaglianza e di sfruttamento sepolte nelle paludi delle teorie autocongratulatorie proposte dalle classi dominanti”.
Questo intento, secondo Harvey, domina tutta l’opera massima di Marx, il “Capitale”, così come domina tutti i suoi altri scritti di economia politica, per arrivare alla formulazione di concetti che gli sono valsi la possibilità di formulare una teoria dei limiti connessi all’”infinita accumulazione del capitale”. Ciò perché, secondo Marx - afferma Harvey -  la vera scienza si ha quando diventa possibile mettere a disposizione della “vita quotidiana” le formulazioni teoriche, perché da esse le persone possano trarre elementi di valutazione sul come comportarsi nella “loro lotta per la sopravvivenza”.
E’noto come l’ultimo esponente delle teoria economica classica fosse interessato a capire perché il capitale risultasse “così incline alle crisi”. Le crisi, si chiedeva Marx, erano determinate da cause esogene al modo di funzionare del capitalismo, o erano originate da cause endogene che rendevano inevitabili ricorrenti collassi distruttivi del sistema economico? A parere di Harvey, questa domanda continua ancora oggi a costituire oggetto di studio della teoria economica. Considerati gli effetti economici e sociali negativi che sono seguiti al crollo dell’economia mondiale nel 2007/2008, il ricupero alla memoria di ciò che Marx ha evidenziato circa le modalità di funzionamento del capitale, cioè del motore dell’economia capitalistica, torna utile per trarre possibili elementi di conoscenza, al fine di risolvere molti dei problemi che restano ancora insoluti dopo la Grande Recessione.
Esistono, secondo Harvey, studi molto accreditati sul pensiero di Marx, in merito all’ambiente sociale, politico e, in genere, intellettuale del tempo in cui egli è vissuto; gli autori di tali studi, tendono a ridurre il pensiero di Marx a semplice oggetto di considerazione storica, trascurando il fatto che il suo apparato teorico era invece volto a studiare la dinamica intrinseca del capitale e non la vita sociale e politica del XIX secolo; per Marx – afferma Harvey – il “moto del capitale” era a fondamento dell’”economia moderna ed era basilare anche per la comprensione critica della società borghese”. I suoi commenti sulle leggi di quel “moto” e della sottostante irrazionalità, perciò, si rivelano “di gran lunga più incisivi e penetranti delle odierne teorie macroeconimiche monodimensionali, che si sono dimostrate molto lacunose di fronte al crollo del 2007-2008”.
Per questo motivo, Harvey ritiene che le idee di Marx meritino di essere riprese, soprattutto per renderci conto dei guasti e degli effetti negativi causati dalla dinamica del capitale; questi hanno finito per “frantumare, l’uniformità, l’omogeneità e la razionalità” del mercato mondiale in cosi tanti segmenti eterogenei di “sviluppo geografico disuguale, da originare condizioni di vita profondamente diverse nello spazio e nel tempo”, sino a determinare seri pericoli per la futura stabilità sociale, economica e politica del mondo.
La “follia della ragione economica” del capitale emerge in tutte le sue implicazioni negative, quando si consideri il modo di funzionare del mercato, in relazione alla circolazione delle merci prodotte; è attuale il discorso svolto al riguardo da Marx. Quando le merci vengono comprate per essere consumate, cessano di fare parte del processo economico; ma il denaro che è stato ceduto per acquistarle continua a rimanere in circolazione e, tramite esso, il valore delle merci consumate si conserva, assumendo però un carattere molto diverso da quello di consentire la soddisfazione dei bisogni sociali: la conservazione del valore delle merci nel capitale espresso dal denaro avviene - afferma Marx – “solo per il fatto di tendere costantemente a superare il suo limite quantitativo”, per cui l’accumulazione diventa solo fine a sé stessa.
Secondo la prospettiva critica di Marx del funzionamento del mercato capitalistico, ciò significa che la dinamica che contrassegna il capitale è solo quella di perseguire l’accrescimento di se stesso; pertanto, la funzione specifica del denaro che lo esprime consiste nel conservarsi come valore di scambio distinto dal valore d’uso delle merci che lo hanno prodotto, solo per moltiplicarsi di continuo. E’ questo, secondo Harvey, un primo aspetto delle follia della ragione economica del denaro.
Un altro aspetto di questa “follia” consiste nel fatto che il denaro, divenuto capitale, torni al suo ruolo di merce; si tratta però di una merce particolare afferma Harvey, “il cui valore d’uso è poter essere prestata in quantità infinite ad altri”, per produrre ulteriori incrementi del capitale. In questo caso, il valore di scambio del denaro capitalizzato è l’interesse; ma quando la circolazione del capitale produttivo di interesse diventa la forza prima che alimenta il funzionamento del sistema economico, la follia della ragione economica del denaro capitalizzato sta nel fatto che il capitale, anziché essere funzionale alla soddisfazione dei bisogni sociali, risulta invece orientato a produrre altro capitale in un processo senza limite.
Gli economisti, a parere di Marx, non sono mai riusciti a spiegare questa contraddizione, per cui la comprensione dello stato del mondo “è ostaggio della follia di una ragione economica borghese che non solo giustifica, ma addirittura promuove, l’accumulazione senza limiti”, considerando la crescita quantitativa continua come un processo virtuoso portatore di miglioramenti del benessere sociale.
Gli economisti, a parere di Harvey, non si sono mai confrontati con gli esiti negativi della follia della ragione economica del denaro descritta da Marx, mancando così di tener conto dei problemi connessi “con la ‘cattiva infinità’ delle crescita composta illimitata”, che può culminare solo con il susseguirsi di crisi di sovrapproduzione e di distruzione di ricchezza. Gli economisti, sottolinea Harvey, hanno invece preferito, come afferma Marx, lodare le virtù di una borghesia che “ha catturato il progresso storico ponendolo al servizio della ricchezza”, evitando così di porsi la domanda, se le ricorrenti crisi siano intrinseche, oppure meno, al modo di funzionare del capitalismo. Le crisi, secondo gli economisti che accettano i canoni della teoria economica standard, sono dovute per lo più a errori e a calcoli errati degli esseri umani; ciò in quanto, le leggi di tale teoria giustificano un funzionamento delle istituzioni economiche pressoché perfetto, per cui se il loro funzionamento fosse regolato secondo tali leggi non si avrebbero mai crisi.
Secondo Marx, la follia della ragione economica borghese è ulteriormente amplificata dal fatto che il denaro, una volta che si è liberato della sua base materiale (le merci, che esso rappresenta), con le sue rappresentazioni formali (euro, dollari, Yen, ecc.), espresse come forme di denaro di credito, diventa oggetto di manipolazioni da parte di chi vanta posizioni di potere sul sistema del credito; col credito, infatti, lo scarto tra la proliferazione delle espressioni formali del denaro e la loro base materiale si amplifica enormemente, influenzando il processo di espansione senza limiti del capitale, destinato a divenire la causa delle disuguaglianze spaziali e personali, per pesare negativamente sulle condizioni esistenziali dei popoli.
Questo processo serve a capire, a parere di Harvey, quanto sta accadendo oggi a livello globale, a causa del prevalere dei mercati finanziari su quelli reali. L’economia mondiale viene da tempo rivoluzionata, “non perché ciò sia una buona idea o perché sia un desiderio e un bisogno ardente in sé, ma perché è il modo migliore per tenere lontane depressione e svalutazione”. Lo scopo, secondo quanto Marx ha previsto, è solo quello di favorire l’assorbimento di capitale, in quanto, dopo una fase di accumulazione, la propensione incomprimibile dei capitalisti, considerato che il capitale inoperoso non produce altro capitale, è quella di trovargli una qualche forma di investimento che procuri un interesse. In questo processo, l’uomo è separato dal controllo sull’attività di produzione; un’alienazione che diventa una pre-condizione per l’affermazione della primazia della produttività del capitale.
In queste condizioni, la produttività del lavoro è determinata dall’impiego di tecnologie scelte da chi controlla il capitale, non solo per estraniare chi lavora dall’accesso ai mezzi di produzione, ma anche per affievolirne ogni capacità di protesta. La conseguenza è la formazione di una massa crescente di disoccupati permanenti e strutturali, per cui – afferma Harvey - le “narrazioni utopistiche contemporanee di come le nuove configurazioni tecnologiche basate sull’intelligenza artificiale ci stiano portando alla soglia di un nuovo mondo di consumismo emancipativo e di tempo libero per tutti ignorano completamente l’alienazione disumanizzante dei processi di lavoro residui e ‘a perdere’ che ne risultano”.
Accade così che il capitale, a tutela della sua propensione a crescere di continuo, sia spinto a cercare di stimolare la ricerca infinita di bisogni che non potranno mai essere soddisfatti, a causa della crescente disoccupazione e conseguentemente della diminuzione della capacità di consumo dei disoccupati. Se le nuove forme di consumo, stimolate dall’”infinita crescita composta della produzione”, non possono essere soddisfatte, emergono palesi le conseguenze negative della follia della ragione economica del capitale.
In un mondo ”inondato” di capitale finanziario, le componenti di quest’ultimo devono essere mobilitate “sulla base della sicurezza e certezza” di un buon ritorno, in termini di ulteriore espansione del capitale; ma come è possibile che ciò possa avvenire senza una riforma dei meccanismi distributivi del prodotto sociale, idonei a garantire il consumo della produzione, sia pure secondo le forme stabilite da chi controlla l’impiego del capitale, senza il pericolo del susseguirsi delle crisi destabilizzanti del sistema economico e di quello sociale?
E’a questo interrogativo che la follia della ragione economica del capitale non riesce a dare una risposta, mentre le conseguenze negative sul piano sociale della mancata risposta non possono che rappresentare un limite oltre il quale diventa probabile una crisi senza ritorno; è questa la “maledizione” imputabile al modo in cui il capitale tende ad espandersi infinitamente, senza preoccuparsi minimamente della crescente contraddizione esistente tra il processo di accumulazione e la ricaduta negativa dei suoi risultati sull’intero sistema sociale.

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