Palermo: nel labirinto della trattativa

27 Aprile 2018
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Carlo Dore jr.

 

 

Questa storia ha inizio in un pomeriggio del luglio del 1992, tra le lamiere deformate dal tritolo e il fumo sprigionato dal cratere di Via D’Amelio, che ha accolto i resti di Paolo Borsellino e degli uomini della sua scorta. E’ la storia di uno Stato in ginocchio dinanzi alla furia dei Corleonesi, di un magistrato che non ne voleva sapere di arrendersi, di boss assetati di sangue e politici mascariati, di una Repubblica che muore sepolta dal fango dalle tangenti e di un’altra che sorge dal sangue delle stragi. E’ una storia di bombe, tradimenti, bugie e verità, destinata a svilupparsi lungo i meandri oscuri di un labirinto: il labirinto della Trattativa.
Nel momento in cui la Cassazione accoglie il “teorema-Buscetta”, attribuendo all’impianto accusatorio del maxi – processo la forza della cosa giudicata, per i boss arriva, inatteso e irreparabile, il tanto temuto quanto inconcepibile “fine pena: mai”. Saltano i legami instaurati da Cosa Nostra dopo il golpe del 1981, Riina decide di procedere alla corlenoese: Salvo Lima cade sulla via di Mondello, il martirio di Falcone si copie nel massacro di Capaci. E’ allora che Vito Ciancimino viene agganciato da Mori e De Donno: agiscono quali emissari di un Pezzo di Stato, interessato a conoscere il prezzo richiesto dalla Mafia per non mettere il Paese a ferro e fuoco; no, vogliono solo arrivare, attraverso metodi investigativi poco ortodossi, alla cattura di qualche latitante. Riina esulta, e, con la formulazione del papello, apre idealmente la porta del labirinto: revisione del maxi-processo; chiusura delle carceri speciali; disapplicazione del regime del carcerario speciale previsto dall’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario. La Trattativa è cominciata.

Cade Borsellino, eroe isolato e probabilmente tradito; Riina viene consegnato ai carabinieri del ROS, mentre la mancata perquisizione del suo ultimo covo rimane un enigma destinato a non trovare soluzione. Provenzano diventa il nuovo Capo dei capi, la trattativa va avanti, ma le stragi non si fermano: da Via dei Georgofili al PAC di Milano, da San Giovanni in Laterano a San Giorgio al Velabro. Un black out che isola le comunicazioni di Palazzo Chigi fa temere golpe imminente, il Paese rimane col fiato sospeso fino al progetto più terribile: un’autobomba carica di tritolo e bulloni di ferro sul Viale Dei Gladiatori che conduce allo Stadio Olimpico, una mattanza di civili e carabinieri nel giorno di una partita di cartello.

Ma l’innesco preparato da Spatuzza non scatta, l’autobomba non esplode, i sicari vengono richiamati a Palermo. E’ l’alba del 1994, le bombe finiscono in quel momento, la Mafia scompare dietro un muro di silenzio, squarciato solo dall’eco di una domanda: perché? Cosa ha spinto, dopo tanto sangue, Cosa Nostra ad abbandonare la strategia incendiaria per assecondare quella dell’oblio? Forse, i boss hanno capito che lo Stato non era disposto a cedere; forse, con Riina confinato nelle segrete de L’Asinara, Provenzano ha compreso l’inutilità della linea stragista; forse c’è davvero stata una guerra, ma semplicemente la Mafia non ha vinto: e la Trattativa si è rivelata un fatto storicamente indimostrato e penalmente irrilevante.

Accogliendo quasi integralmente la prospettazione dei Pubblici ministeri, la Corte d’Assise di Palermo sembra ribaltare questa conclusione: la Trattativa è davvero il filo d’Arianna che lega la sentenza del maxi-processo alle stragi del 1993; Mori e De Donno non hanno semplicemente eseguito metodi investigativi spregiudicati, ma condotto con Ciancimino un negoziato funzionale a un disegno pacificatore di più ampio respiro. E dal profondo del labirinto emerge, ancora una volta, la figura di Marcello Dell’Utri, passato in pochi anni dall’aurata dimensione di king maker del partito azienda icona del “nuovo che avanza” a quella (assegnatagli dal sostituto procuratore Nino Di Matteo) di “cinghia di trasmissione che mette in correlazione Cosa Nostra prima con il Silvio Berlusconi imprenditore, ora con il Berlusconi politico”.

Ancora Dell’Utri. Le immagini della cronaca recente scorrono come schegge impazzite: l’eroe Mangano trapiantato ad Arcore, le parole del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano (“avevamo il Paese in mano!”), le relazioni pericolose intrattenute tra Milano e Palermo fin dagli albori della Milano da bere. Ancora Dell’Utri. Dell’Utri alimenta il sospetto che, forse, è troppo presto per dire che la Mafia non ha vinto; Dell’Utri lascia ipotizzare una risposta diversa al “perché?” attorno a cui si sviluppa questa storia, dando rilievo all’ipotesi, inquietante ma dannatamente concreta, che al termine della stagione delle bombe, Cosa Nostra abbia trovato un altro referente capace di rinsaldare gli equilibri venuti meno dopo il “fine pena: mai” sancito dalla Cassazione nel 1992; di assicurare (una volta venuti meno i patti instaurati con la vecchia DC di Lima e Ciancimino, ai quali fanno riferimento le varie pronunce di legittimità e di merito relative al processo -Andreotti) un nuovo ordine con cui benedire l’epifania della Seconda Repubblica.

Domande, misteri, sospetti e ipotesi, sulle quali le motivazioni della sentenza della Corte palermitana potranno gettare un primo fascio di luce, offrendo un contributo forse decisivo alla ricerca della verità che anima questa storia. Una verità nascosta nel profondo del labirinto della Trattativa.

 

(articolo pubblicato anche su www.articolo1mdp.it )

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