Le “promesse politiche” senza copertura? Bufale!

18 Aprile 2018
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Gianfranco Sabattini

Falso!

 

Roberto Perotti, autorevole economista, già consulente del Presidente del Consiglio sconfitto nelle ultime elezioni, nonché severo analista su Repubblica dei programmi elettorali dei partiti, nel febbraio del 2018 ha pubblicato anche il libro “Falso! Quanto costano davvero le promesse dei politici”. Perotti si propone di analizzare quanto le promesse dei partiti politici “siano realistiche; che conseguenze abbiano per la vita di tutti i giorni; quali siano gli effetti prevedibili sulle casse dello Stato e sul debito pubblico, sull’economia, i consumi e l’occupazione; e chi perde e chi guadagna da ogni proposta”. Poiché non sono indicate con precisione le modalità di copertura dei costi implicati dalle “promesse”, a parere di Perotti, se queste dovessero essere mantenute, il risultato non potrebbe che essere un maggiore disavanzo corrente della pubblica amministrazione e un maggiore debito pubblico consolidato.
Però, nel corso della campagna elettorale, tutti i partiti hanno affermato che, alla fine, le loro promesse, se prontamente attuate, troverebbero da sole le risorse necessarie, poiché aumenteranno le opportunità di lavoro e il reddito di chi già lavora, per cui le tasse su tutti gli extrtaredditi procureranno un gettito erariale sufficiente a finanziare le promesse elettorali; ciò concorrerà a rendere possibile la riduzione del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo.
Quanto le promesse e le previsioni dei partiti siano utopistiche, secondo Perotti, si può ricavare dal fatto che le premesse sulle quali esse si fondano sono tra loro contraddittorie, poiché basate su proposte la cui attuazione costerà “decine di milioni”, senza “indicazioni realistiche di come reperire i fondi per pagarle” e, per di più, senza considerare l’alto debito pubblico. L’assunzione contemporanea di tali premesse è, per Perotti, logicamente insostenibile, per cui almeno ad una di esse occorrerebbe rinunciare. Inoltre, come se non bastasse, le proposte omettono di illustrare come si integrerebbero nella realtà attuale; riforme come l’introduzione della flat Tax, o del reddito di cittadinanza, o l’abolizione della legge Foriero, interagiranno “con centinaia di altre misure fiscali e con decine di programmi di spesa sociale”. Tutte le proposte, quindi, avrebbero dovuto essere analizzate per evidenziare gli esiti delle loro interazioni con il già esistente e, soprattutto, per stabilire “chi ci guadagna e chi ci perde”.
L’omissione di quest’analisi rende probabile che l’attuazione delle promesse contenute nei programmi elettorali “possa portare a risultati paradossali e completamente non voluti, e in alcuni casi a danneggiare proprio le fasce più deboli della popolazione che, a parole, si dice di voler proteggere”. Tra le considerazioni critiche svolte da Perotti, riguardo alle proposte contenute nei programmi politici dei partiti in competizione alla vigilia delle ultime elezioni politiche, quelle riguardanti l’introduzione in Italia del reddito di cittadinanza rivestono una particolare importanza, non solo perché, come Perotti riconosce, si tratta di un’”idea di fondo semplice e attraente”, ma anche – si deve aggiungere - per le implicazioni, non del tutto positive, delle quali l’idea è portatrice, se la sua introduzione sarà attuata assumendo che la “situazione istituzionale distributiva esistente” resti invariata.
Secondo Perotti, l’idea che ogni cittadino, per il solo fatto d’essere nato, abbia “diritto a un minimo di risorse che assicurino un’esistenza dignitosa” e che nelle società avanzate ci siano abbastanza risorse per metterla in pratica, può essere condivisa; essa, secondo l’economista della Bocconi, avrebbe in astratto un “grosso vantaggio”, ma presenterebbe i limiti, se attuata secondo le modalità previste da chi la propone in Italia, innanzitutto di poter diventare una ”trappola della povertà” e, in secondo luogo, d’essere irrealizzabile per l’insufficienza di risorse.
Il vantaggio consisterebbe nell’evitare ai cittadini il pericolo di cadere nella “trappola”; pericolo che potrebbe essere evitato solo se il reddito di cittadinanza fosse erogato in modo universale ed incondizionato. Per contro, un primo limite di ciò che il Movimento 5 Stelle (il partito che è portatore delle proposta formulata nel modo più compiuto) chiama reddito di cittadinanza (trascurando la proposta di Forza Italia, in quanto – secondo Perotti - poco più di una boutade) è che in realtà si tratta di un reddito minimo garantito, avente implicazioni radicalmente diverse rispetto a quelle del reddito di cittadinanza correttamente inteso.
In quanto reddito minimo garantito, la proposta del “M5S”, prevedendo che ogni soggetto in stato di bisogno riceva una integrazione del proprio reddito, sufficiente a portarlo – afferma Perotti - al livello dello stato di povertà relativa, evoca solo il rischio che chi riceve l’integrazione cada nella “trappola della povertà”, che lo conserverà nello stato in cui si trova. Ciò perché una tale concezione del reddito di cittadinanza soffrirebbe di un insieme di “vizi” che ne altererebbero natura e funzione, il principale dei quali è espresso dal fatto che la sua attribuzione sia vincolata alla disponibilità dell’assegnatario a ricercare un reinserimento lavorativo.
A parte i costi connessi all’assolvimento di tale vincolo, resi inevitabili dall’espletamento di “un complesso sistema di adempimenti”, dal consolidamento di “un dirigismo anacronistico” e dalla formazione di “una nuova, complicatissima, burocrazia”, il reinserimento lavorativo previsto dalla proposta del “M5S” comporta che il beneficiario accetti di essere avviato a corsi di formazione e di riqualificazione professionale, nonché di svolgere con continuità un’azione di ricerca attiva del lavoro. Tutte misure, ritiene Perotti, “teoricamente sensate”, ma di dubbia utilità ed efficacia, per via del fatto che, in un’economia in continua evoluzione, non solo cambiano in fretta le abilità lavorative che dovrebbero consentire il reinserimento nel mercato del lavoro del beneficiario del reddito di cittadinanza, ma anche perché, si può aggiungere, la dinamica del processo economico tende a ridurre piuttosto che ad aumentare i posti di lavoro.
Inoltre, data la natura di reddito minimo garantito, il reddito di cittadinanza (o di dignità) proposto dal “M5S” potrebbe ridurre la disponibilità del beneficiario a cercare un lavoro, per via dell’”effetto ricchezza sull’offerta di lavoro”. Ciò perché è empiricamente ragionevole, secondo Perotti, pensare alla possibilità della sopravvenienza del rischio della conservazione di una diffusa povertà relativa, con l’aggravante che maggiore è il reddito di cittadinanza [ridotto a reddito minimo garantito], maggiore è la sopravvenienza di quel rischio.
Questa conseguenza, a parere di Perotti, sarebbe connessa al fatto che, supponendo che un soggetto in stato di povertà relativa con un reddito di 300 euro al mese, riceva un sussidio di 700 euro (divenendo titolare di un reddito complessivo di 1.000 euro, pari al tetto minimo per un’esistenza dignitosa), qualora trovasse un lavoro che gli assicuri un reddito aggiuntivo di 600 euro, riceverebbe un sussidio di soli 100 euro. Conseguentemente, il soggetto “assistito” vedrebbe il proprio reddito aumentare di 600 euro e il sussidio ridursi di altrettanto. In casi simili, l’”effetto ricchezza sul reddito” potrebbe motivare il beneficiario del reddito di cittadinanza (ridotto a reddito minimo garantito) a conservarsi in stato di povertà relativa e rinunciare (o rendere minimo l’impegno) a cercare di reinserirsi nel mercato del lavoro.
Inoltre, a parte il rischio sopra descritto, l’attuazione della proposta del “M5S”, concernente l’introduzione di un reddito di cittadinanza vincolato, presenta un costo esorbitante, destinato ad andare ben al di là delle capacità di copertura da parte dello Stato. La copertura prevista dalla proposta del “M5S” ammonta a 20 miliardi di euro, divisa “quasi a metà - sottolinea Perotti - tra maggiori entrate e minori spese”. Lo sforzo di dimostrare la proposta attuabile è, conclude Perotti, “apprezzabile”, ma allo stesso tempo mostra come trovare 20 miliardi sia, nelle condizioni in cui versa il Paese, un “esercizio molto ma molto più complicato di quanto si possa pensare”. Il rischio concreto è che il reperimento delle risorse dia luogo a “manovre politico-finanziarie”, destinate a riproporre per l’Italia la “propria enorme burocrazia che perpetua se stessa”, nutrendosi di sempre maggiori estensioni di quelle manovre.
Complessivamente, le riflessioni critiche di Perotti sono molto opportune, perché mostrano come l’iniziativa del “M5S”, volta a introdurre un reddito di cittadinanza condizionato e solo per una certa fascia di popolazione, non sia stata formulata nel rispetto del significato proprio di una forma di reddito (il reddito di cittadinanza), da tempo introdotto negli studi accademici e non ancora accolto in toto, salvo rare e limitate eccezioni, dagli ordinamenti economico-politici attuali. Bene ha fatto, quindi, Perotti ad evidenziare la confusione in cui spesso si incorre, quando si parla di reddito di cittadinanza; confusione che non facilita certo la comprensione del significato delle proposte politiche, se queste vengono espresse attraverso la libera interpretazione del significato degli algoritmi formulati all’interno di specifici percorsi di ricerca scientifica, quale è quello in base al quale sarebbe possibile pensare realmente alla effettuazione di una riforma dei meccanismi distributivi del prodotto sociale, attraverso l’istituzionalizzazione di un reddito di cittadinanza incondizionato e universale.
L’idea di introdurre nei moderni sistemi economici un reddito di cittadinanza incondizionato e universale può essere attuata e finanziata solo nella prospettiva di una riforma complessiva dell’attuale ordinamento dello Stato sociale, con cui evitare, sia il rischio della trappola della povertà, sia il problema del reperimento delle risorse necessarie, sia anche gli effetti della dinamica tecnologica dei sistemi produttivi capitalisticamente avanzati; effetti, questi ultimi, che i meccanismi istituzionali distributivi esistenti trasformano in disoccupazione strutturale e permanente, e quindi in diffusa povertà (coinvolgente quote crescenti della popolazione), che il welfare State non è più in grado di fronteggiare.
In conseguenza di ciò, per una reale attuazione dell’idea di un reddito di cittadinanza, erogato a tutti i cittadini attraverso una radicale riforma dell’attuale welfare State, che sia in grado di garantire una distribuzione del prodotto sociale più funzionale ad uno stabile funzionamento del sistema economico e ad una minore conflittualità sociale, sarebbe necessario che il Paese avviasse una approfondita riflessione, sul piano culturale, economico, politico e sindacale, per rimuovere tutti i motivi impropri di discussione e di perplessità su una riforma non più eludibile dei meccanismi distributivi del prodotto sociale; motivi che trovano la loro ragion d’essere solo nella permanenza di uno stato di crisi, che impedisce al Paese di riformare le proprie istituzioni politiche ed economiche, compromettendo in tal modo la possibile crescita qualitativa e quantitativa futura.

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