Andrea Pubusa
Dopo il 4 marzo si è diffusa la convinzione in molti intellettuali progressisti e di matrice comunista della scomparsa della sinistra politica. C’è sempre più esplicita consapevolezza del fatto che il Pd non lo sia. Certo, la coscienza solitamente segue i fenomeni, ma nel PD la cesura è stata visibile fin da subito a partire dai simboli. Direte che le bandiere non sono sostanza, ma non è così. Il rosso ha sempre caratterizzato un radicamento nella storia del Movimento operaio, che certo ha avuto varie declinazioni, tutte però, almeno nell’Occidente, ispirate a valori di uguaglianza, di democrazia di pace. Triade questa – a ben vedere – che imprime ai partiti che vi si ispirano una tensione permanente, un moto perpetuo verso sempre maggiori conquiste sociali e di libertà. Il radicale mutamento del colore dei simboli ha voluto indicare anche visivamente il distacco da una tradizione storica e l’ingresso in un campo indefinito e aperto a qualunque proiezione. Ne è nato un partito di tenue ispirazione sociale, aperto alle iniezioni di robuste e velenose dosi di iperliberismo. Con Bersani si è mantenuto un equilibrio fragile fra queste anime del PD, volutamente messo in crisi da Napolitano e dalle forze che poi hanno issato in sella Renzi su un progetto esplicito di eversione costituzionale in chiave oligarchica. L’attacco alla rappresentanza con ripetute leggi elettorali anticostituzionali, l’eliminazione della elettività delle province e poi, nel progetto Renzi-Boschi, del Senato ne sono la declinazione più chiara. Ma vanno in questa direzione le varie leggi contro il lavoro e i diritti e la dignità dei lavoratori, contro la scuola come spazio aperto a tutti di libera formazione delle coscienze, il pareggio di bilancio che mira a anteporre il mercato ai diritti sociali. Ed oggi? La posizione rispetto alla formazione del governo, chiusa perfino al confronto, come osserva Pasquino, e’ fuori dalle regole e dalle prassi parlamentari. Con Renzi il PD non inizia, ma conclude un percorso di mutazione e, al di là del nome, perde anche il carattere di partito democratico, almeno nell’accezione di sinistra, che annette quel carattere al programma di impegno permanente in favore di livelli crescenti di uguaglianza. Da questo punto di vista il voto del 4 marzo e ancor prima del 4 dicembre 2016 espimono una presa di coscienza, nel vecchio popolo della sinistra, del cambio di campo del PD.
Che fare ora? Dove andare? Per chi viene dalla storia della sinistra si apre una fase di navigazione a vista su barche o navi con rote – se possibile - non molto diverse dalle nostre, ma con la consapevolezza che non siamo in casa nostra. Nell’immediato pensare a ricostruire un partito di sinistra d’ispirazione socialista è irrealitico, perché il materiale umano che se ne fa promotore è quello stesso che la sinistra ha concorso a distruggerla, noi compresi. Certo, la storia non finisce qui e l’esigenza di dare gambe in modo organico all’utopia egualitaria presto o tardi tornerà d’attualità. Nel frattempo il da fare non manca, come dimostrano questi ultimi anni e il futuro prossimo venturo. C’è da battagliare senza partito, ma in comitati e associazioni o in parti del mondo sindacale. In fondo, se ci pensate bene, era così anche agli albori del Movimento operaio. Così si crea o si mantiene aperta la prospettiva, senza piangerci addosso e senza perder tempo a formare sigle in chiave puramente elettorale.
1 commento
1 Aladin
3 Aprile 2018 - 07:39
Anche su Aladinews: http://www.aladinpensiero.it/?p=80581
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