Movimento femminista: c’è involuzione?

6 Febbraio 2018
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Gianfranco Sabattini

MicroMega n. 8/2017 riporta alcuni testi di un dibattito, svoltosi un Germania, a seguito della pubblicazione di un libro collettaneo dal titolo, un po’ ermetico per i non addetti ai lavori, “Riflesso di morso. Critica dell’attivismo queer, delle nostalgie autoritarie, delle censure”, edito da Querverlag (il primo editore di libri lesbico-gay della Germania). Il libro, pubblicato all’inizio dell’anno scorso, ha avuto la capacità, informa il presentatore (c.s.) della sezione della rivista MicroMega dedicata all’argomento, “di uscire dalla scena queer-femminista cui era destinato, per finire sulla pagine culturali dei maggiori giornali tedeschi”.
Il curatore del libro, Patsy l’Amour laLove (pseudonimo di un ballerino professionista, ricercatore e attivista del movimento femminista di Berlino) “spiega – afferma il curatore di MicroMega - che il titolo nasce dal fatto che nella scena queer si sta diffondendo una sorta di ‘riflesso’ che induce ad attaccare, a ‘mordere’ appunto, in maniera automatica e incontrollata chiunque metta in discussione alcuni di quelli che sono diventati dei veri e propri dogmi”, in fatto del queer-pensiero; ciò avrebbe determinato, nell’ambito accademico dei “gender studies” (le cattedre istituite presso le Università di Berlino e Friburgo all’inizio degli anni Novanta, per lo studio degli effetti delle forme di rappresentazione di genere) e in quello dell’attivismo queer-femminista un atteggiamento di chiusura tale – secondo il curatore di MicroMega – “da impedire a coloro che vengono definiti ‘privilegiati’ (per antonomasia i maschi bianchi eterosessuali) di prendere la parola”. Il libro, quindi, curato da Patsy l’Amour laLove, ha messo “a rumore il bosco” del movimento femminista, provocando reazioni aggressive, “fino a vere e proprie minacce rivolte al curatore e ai vari autori, accusati di razzismo, omofobia e transfobia”.
A dimostrazione della “vivacità” e dell’interesse suscitato dal dibattito, MicroMega riporta tre testi apparsi in tre sedi diverse; nel primo, dello storico Vojin Saša Vukadinović, i “gender studies” vengono accusati di aver abbandonato la causa femminista e di essersi arroccati dietro posizioni indentitarie, ovvero d’esser passati da una rivendicazione di diritti dei neri, delle donne e, in generale, di tutti i “diversi” (dei queers appunto, che in lingua inglese significa diversi e che, nella terminologia queer-femminista, sono espressi dall’acronimo LGBT, per indicare Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender), a una rivendicazione di identità, per cui è il fatto stesso d’essere oggetto di una discriminazione, in quanto nero, donna o diverso, a fondare il diritto di rivendicare.
Lo slittamento dei “gender studies”, dalla rivendicazione dei diritti a quella del riconoscimento identitario, ha spinto, secondo Vukadinović, il movimento queer-femminista addirittura ad allungare l’acronimo tradizionale (LGBT), sostituendolo con quello ritenuto più inclusivo LGBTQI+ (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender, Queers ed altri ancora, ‘+’).
Le critiche di Vukadinović sono state rivolte, in particolare, a Judith Butler, la più importante esponente dei “gender studies”; ella, assieme alla collega Sabine Hark, ha risposto alle critiche con un articolo sul settimanale “Die Zeit” (riportato come secondo testo da MicroMega), il cui obiettivo però è stato quello di rivolgere una critica alla storica rivista femminista tedesca “Emma”. Il terzo testo, riportato da MicroMega sull’evoluzione del pensiero del movimento femminista, è la risposta di Alice Schwarzer, pubblicata sempre su “Die Zeit”, nella quale la fondatrice e direttrice di “Emma” accusa la Butler e i “gender stusies” di aver scambiato “i propri giochi mentali per la realtà”, sostenendo che ogni “esser umano può essere, qui e ora, quello che sente di essere”, per cui “non deve necessariamente scegliere fra due generi, poiché in ultima analisi esistono diverse varietà e sfaccettature dell’identità di genere: basta essere queer”.
In conclusione, secondo il curatore delle sezione di MicroMega, si è trattato di un dibattito che, per le implicazioni degli argomenti discussi, “dalla scena dei gender studies e dall’attivismo queer” si è allargato “fino a coinvolgere il pensiero progressista di sinistra in generale, imponendo un’inevitabile scelta fra diritti e identità”.
La deriva del movimento femminista, dal rivendicazionismo dei diritti all’identitarismo, è dovuta, secondo Vukadinović, al cambiamento di significato del paradigma del gender, che da espressione biologista del “segno corporeo” della donna è diventato una sua espressione non essenzialista, ovvero “non biologista”; una deriva che – afferma Vukadinović – ha avuto l’effetto di radicare l’assunto che “i generi - sia sociali che biologici – sarebbero ‘costruiti’”, nel senso che essi sarebbero “sempre determinati da presupposizioni e trasmessi esclusivamente attraverso la cultura”. In altre parole, dietro di essi non esisterebbe “nessuna natura, nessuna realtà”.
Al di là del dibattito, tutto interno al movimento femminista più radicale, è interessante chiedersi quali siano gli effetti sociali della deriva del movimento di liberazione della donna, passato dal rivendicazionismo dei diritti all’identitarismo. Una risposta possibile all’interrogativo potrebbe essere ricavata dall’articolo di Nancy Frazer “Come il femminismo divenne ancella del capitalismo”, uscito sul giornale inglese The Guardin nel 2013 e pubblicato in traduzione su MicroMega-on line dello stesso anno. L’autrice, filosofa e teorica femminista statunitense, sostiene che, con l’identitarismo, il movimento per la liberazione della donna si è “avviluppato in una relazione pericolosa con gli sforzi neoliberisti”, nella costruzione di una società fondata sulla logica del libero mercato; ciò, sarebbe avvenuto secondo la Frazer, a causa del fatto che l’identitarismo è stato strumentalizzato dall’ideologia neolibersita in senso individualista.
Originariamente, la prospettiva del movimento femminista, fondato sulla rivendicazione, dei diritti, mirava a valorizzare la cura e la solidarietà umana, non a ridurre la donna a mero soggetto, senza alcun riferimento alla sua natura biologica e indipendentemente dal ruolo da essa svolta nella realtà sociale nella quale vive. Ciò ha reso possibile che il capitalismo welfarista del secondo dopoguerra fosse sostituito da una forma innovativa di capitalismo, fondato sulla restrizione dei diritti sociali acquisiti. In tal modo – afferma la Frazer – il movimento femminista è diventato “ancella del capitalismo contemporaneo”; ovvero, con l’identitarismo, il movimento femminista è passato dal perseguimento dell’obiettivo dell’emancipazione di genere, attraverso la democrazia partecipativa e la solidarietà, al perseguimento dell’obiettivo, ritenuto proprio del maschio eterosessuale, dell’autonomia individuale, fondata sulla diversificazione delle possibilità di scelta, sull’aumento delle possibilità di carriera e sull’approfondimento meritocratico.
In conseguenza di ciò, il movimento femminista è approdato a una prospettiva di liberazione della donna compatibile con una trasformazione della società in senso neoliberista-individualista, non perché le donne siano state “vittime passive di seduzioni neoliberiste”, ma perché, con la tendenza all’identitarismo del loro movimento, “hanno direttamente contribuito a consolidare l’egemonia dell’ideologia neoliberista”, le cui conseguenze si sono direttamente collegate allo smarrimento del ruolo sociale del genere donna.
La lotta per la liberazione della donna, invece che concentrarsi sulla opposizione alle iniquità causate dal funzionamento del sistema sociale, così intensamente centrato sui valori del paternalismo tradizionale, sulle disuguaglianze “non economiche” (come per esempio quelle connesse alla violenza domestica o alla violenza sessuale) ha preferito concentrarsi sul tema dell’“identità di genere” e su quello della non essenzialità del suo “segno corporeo” e del suo ruolo sociale, a scapito delle questioni che riguardano la liberazione della società da ogni sorta di situazione anomala, quale l’ingiustizia distributiva, l’instabile funzionamento del sistema economico o lo squilibrio tra le varie classi di età della popolazione.
Le critiche e il rifiuto della cultura patriarcale sono certamente state delle giuste e fondate rivendicazioni del movimento femminista, ma la deriva in senso identitario ha affievolito le istanze di rinnovamento del modello tradizionale di divisione sociale del lavoro. Le istanze rivendicative del movimento femminista doveva avere lo scopo di correggere tale modello, mentre lo smarrimento del ruolo delle donne ha dato luogo al loro ingresso nel mercato del lavoro; l’effetto è stato quello di creare un nuovo “esercito industriale di riserva”, che ha abbassato il livello di rimunerazione del lavoro di tutti. In tal modo, le donne, che prima erano vessate all’interno delle mura familiari, ora lo sono anche all’interno del mercato del lavoro: prima erano oppresse dal mondo patriarcale domestico, ora dalla svalutazione del lavoro e dalla precarietà occupazionale.
Il femminismo-queer si è ridotto a rivendicare una indifferenziazione di genere che ha consentito un’intercambiabilità dei ruoli sociali, incentivando, oltre che il peggioramento salariale di tutti, anche la devalorizzazione dell’essere specifico del genere donna (quello di essere progenitrice) e trasformando la differenza del “segno corporeo” di genere-donna in una differenza biologica ritenuta di natura culturale  e “costruita” e perciò cambiabile.
Le conseguenze sono l’indisponibilità della donna alla procreazione, che ostacola il successo, la carriera e l’indipendenza economica, facendo diventare la gravidanza un privilegio esclusivo della classi sociali più agiate, a discapito di quelle meno abbienti, le cui coppie sono costrette a rimandare continuamente la maternità in attesa della stabilità economica. L’avere figli è diventato un privilegio e un lusso delle classi agiate, mentre le donne in menopausa, non più in grado di procreare, possono soddisfare il desiderio di un figlio ricorrendo alle cliniche specializzate; cosicché, come viene affermato, la maternità surrogata diviene l’obiettivo finale della liberazione della donna.
La crisi attuale offre la possibilità al movimento femminista di tornare a collegarsi con la visione di una società solidale; innanzitutto, lottando per realizzare una forma di vita che non metta al centro l’aspirazione all’autonomia economica, ma valorizzi le attività che producono “valore d’uso”, tra cui, ma non solo, il lavoro di cura e solidaristico; inoltre, rinunciando ad ogni pretesa identitaria, per rendere più efficace la lotta contro un ordine sociale fondato su valori culturali patriarcali.
Infine, il femminismo dovrebbe orientare il proprio impegno verso l’affermazione di una democrazia partecipativa, da intendersi come mezzo per rafforzare i poteri pubblici, perseguire finalità di giustizia e promuovere il concorso dei diversi generi verso la realizzazione di un equilibrato funzionamento del sistema sociale: ciò, poiché un’instabile e disfunzionale organizzazione del vivere insieme è causa di una frustrante esistenzialità per tutti.

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