Stalingrado. I nomi delle rose

3 Febbraio 2018
Nessun commento


Luigi Pintor

Nel 75° della vittoria di Stalingrado, è bene ricordare questo fatto decisvo nella storia del “secolo breve”. Lo facciamo pubblicando, dopo quello di ieri, un altro articolo di Luigi Pintor del 1991. In quell’anno, dopo la “caduta del Muro” e la nascita in Italia del Pds, ci fu un fuggi fuggi generale da ogni cosa che potesse richiamare il comunismo. Fuga anche dalla storia. E così in una cittadina dell’Emilia rossa,  un solerte sindaco, già comunista, divenuto pidiessino, fece eliminare una lapide che ricordava la battaglia di Stalingrado e il ruolo determinante dell’Urss nella sconfitta del nazifascismo. Il commento di Luigi Pintor sul “manifesto” fu magistrale. Lo scritto evoca ancora oggi l’ansia per le sorti di quella battaglia nei giovani e nei democratici di allora. Eccolo.


Meglio non essere famosi, così nessuno ti innalzerà un monumento né equestre né pedestre e neppure un busto, né un consiglio comunale imporrà il tuo nome a un’arteria urbana o a un vicoletto. I piccioni non si poseranno sulla tua testa marmorea, i cani non abuseranno del tuo piedistallo, non verrai trascinato nella polvere con lo stesso impeto con cui fosti innalzato al cielo. Né la tua lapide o targa verrà affissa o picconata secondo i corsi e ricorsi della storia e della toponomastica.
Immagino sia un ex comunista convinto, quel netturbino ideologico che vuol cancellare da un angolo di strada una parola infamante come Stalingrado, già peraltro scomparsa dagli atlanti e dalla memoria comune. Così come fu certo un comunista (o antifascista) convinto chi giudicò invece (con qualche ragione in più) degno e memorabile quel nome. Questa circolarità iconografica e iconoclasta meriterebbe anch’essa un monumento, alla volubilità dell’animo umano. In fondo, questi militi ignoti che innalzano e abbattono idoli fanno su piccola scala con qualche ingenuità quel che le alte gerarchie fanno su grande scala per conservare se stesse.
Ma perché Stalingrado? Anch’io sono un idolatra, l’uomo senza miti (titolo di un vecchio libro) non è ancora nato. Ma Stalingrado non è un idolo o mito o leggenda e neppure una città, è semplicemente una grande battaglia (non dirò gloriosa perché la gloria è gemella bugiarda della tragedia). Durò quella battaglia dall’estate del 1942 all’inverno del 1943, se non sbaglio, giusto a metà della guerra quando ne era ancora incerta la sorte. Mezzo milione di tedeschi fuori combattimento, non so quanti russi (anzi sovietici), un urto di armate corazzate ma anche un corpo a corpo di soldati casamatta per casamatta, una bella carneficina, croci uncinate da una parte e bandiere rosse con falce e martello dall’altra. Ma non era solo questo, era uno scontro definitivo, concentrato e cruciale, tra una parte del mondo e un’altra: l’umanità ne spiava le alterne vicende nei bollettini dei giornali e delle radio con animo tremebondo, perché lì si decideva il suo destino. Poi gli storici diranno (oggi avranno combiato parere, ci mancherebbe) che l’umiliazione del maresciallo Von Paulus segnò, in quel febbraio del 1943, l’esito dell’intero conflitto.
Se avessi più fantasia, mi proverei a cancellare non già la targa di Stalingrado da una cittadina ma la battaglia di Stalingrado dalla storia europea e mondiale (come anche la falce e martello dalla storia del movimento operaio, se a questo compito già non provvedessero egregiamente i dirigenti del Pds). Vedo allora Mosca in fiamme, niente impero del male, Leningrado avrebbe ripreso con molto anticipo il nome di San Petroburgo. L’aeroporto di Parigi, parimenti, non porterebbe il nomignolo del generale De Gaulle ma quello del maresciallo Pètain, preveggente nell’affidare l’onore di Francia alla madonna di Lourdes. L’Inghilterra non so, forse avrebbe stipulato una dignitosa pace separata con Rudolf Hess. L’Italia opportunamente non avrebbe cambiato fronte, e questo può a molti apparire un vantaggio: non esisterebbe la Democrazia cristiana e i comunisti sarebbero morti tutti nelle galere, anziché per decreto come oggi. Non so cosa avrebbero fatto gli americani, ma non li vedo sbarcare in Normandia: forse avrebbero tenuto una conferenza (non un processo) a Norimberga anziché a Yalta, o forse Truman avrebbe gettato venti atomiche su altrettante città europee invece che due soltanto su città asiatiche.
Ma non ho una fantasia adeguata, anche se ogni tanto rileggo per esercizio il memoriale autobiografico dell’Obersturm-bannfuhrer Hoss, comandante ad Auschwitz. Se fosse adeguata, dovrei immaginare che ad arrivare primo nella corsa sarebbe  stato il Reichsfihrer Himmler (non dico Hitler, ch’era in fondo un idealista). Se le sue truppe speciali non si fossero attardate troppo nell’ansa del Don, avrebbe unificato l’Europa molto prima del 1992, con la più ramificata catena di forni crematori computerizzati mai concepita (nel 1943 era ancora sperimentale) e con una scienza eugenetica che il capitalismo moderno comincia solo ora a praticare. Non so se anche nel Medio oriente regnerebbe quest’ordine, ma dubito che in quelle contrade o in altre trovereste uno stato di Israele.
Dev’esserci in qualche archivio un bel film documentario sulla battaglia di Stalingrado, anche se ora sappiamo che non c’è stata o è stata improvvida come tante altre cose. Non lo ricordo come un documentario apologetico, faceva una certa impressione. Sarebbe spiritoso trasmetterlo in Tv, magari in orario notturno, vietato ai minori, senza piscine. Così per curiosità, come le comiche di Buster Keaton, non per ricordare ma per sorridere di un tempo così remoto e sciocco, il tempo della nostra credula giovinezza.

0 commenti

  • Non ci sono ancora commenti. Lascia il tuo commento riempendo il form sottostante.

Lascia un commento