La Cina, potenza protesa al dominio del mondo?

25 Gennaio 2018
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Gianfranco Sabattini

In un articolo precedente, pubblicato su questo giornale, si è sostenuto che la Cina è protesa ad assumere un ruolo primario a livello globale su basi pacifiche, rinvenendo semmai in altri attori atteggiamenti mirati ad approfittare delle situazioni di conflitto locale; ciò in quanto questi attori non avrebbero lo stesso interesse della Cina a conservare condizioni di stabilità dell’ordine mondiale esistente, che essa invece considera il presupposto per continuare l’espansione del proprio sistema economico, al fine di rimediare agli squilibri territoriali e sociali causati dall’impetuoso sviluppo degli ultimi decenne.
Di parere opposto è Giulio Sapelli, docente di storia economica presso l’Università di Milano. In “Le fonti del neoimperialismo cinese” (Aspenia, n.70/2017), egli sostiene che con l’ultima affermazione della leadership di Xi Jinping al XIX Congresso del Partito Comunista Cinese (PCC) celebrato nell’autunno del 2017, la Cina sarebbe tornata ad “essere ciò che era: una grande potenza protesa al dominio del mondo”. A dimostrarlo, secondo Sapelli, sarebbe il fatto che la vittoria al Congresso avrebbe consentito a Xi una completa legittimazione del suo programma, che egli intende realizzare attraverso la “fedeltà” della burocrazia statale e il completo controllo dei “quadri del partito”, quali precondizioni per la continuazione di una ordinata crescita interna, “accompagnata dallo sviluppo, verso l’esterno, di un potere veramente globale”. A parere di Sapelli, il XIX Congresso del PCC costituisce “un evento che segnerà, più di ogni altra assise, la sorte dei rapporti di forza a livello internazionale” della Cina; ciò perché, con Xi Xinping, la Cina ritornerebbe ad “essere ciò che era alle sue origini imperiali: una grande potenza protesa al dominio del mondo”.
Secondo Sapelli, la strategia politica del Segretario del partito troverebbe conferma nel paradigma di Karl August Wittfogel, economista tedesco e studioso del modo di produzione asiatico che, nei suoi studi, ha spiegato come il successo del modello economico-sociale cinese sia riconducibile alla stretta connessione realizzata in Cina tra lo sfruttamento delle risorse naturali e il controllo interno delle fonti del potere.
Il controllo interno è sempre stata la preoccupazione di Xi, sin dal momento in cui nel 2012 egli è giunto al potere, intensificando la soppressione della corruzione, usata come “strumento per la lotta interna tra le élite del potere, in forme – afferma Sapelli - più o meno cruente in base al grado di legittimazione democratica vigente”. Inoltre, per neutralizzare ogni altro possibile avversario esterno al partito, Xi ha operato un’apertura verso tutte le religioni, inclusa quella cattolica; a conferma dell’interesse della Cina nei confronti di quest’ultima, in particolare, Sapelli ricorda che da tempo la potenza asiatica ha in corso con il Vaticano un “dialogo”, finalizzato a stringere un accordo destinato ad avere ripercussioni anche a livello internazionale.
L’interesse di Pechino a normalizzare i propri rapporti con la Chiesa cattolica non è una novità; all’origine dei difficili rapporti è stata la questione della pretesa politica di Pechino di permettere al suo interno solo Chiese e comunità religiose “indipendenti” da qualsiasi autorità esterna. Con l’attuale papa, però, il dialogo ha subito un nuovo impulso, perché per il nuovo pontefice la Cina è divenuta un protagonista mondiale, senza il quale è difficile ogni discorso sulla pace nel mondo; ragione, questa, che ha giustificato l’intensificazione del dialogo, non più solo sotto l’aspetto religioso, ma anche, e soprattutto, dal punto di vista del ruolo geopolitico acquisito dalla Cina. E’ in questa prospettiva di dialogo che si profila oggi un possibile accordo fra la Cina e il Vaticano, secondo le linee tracciate a suo tempo da Henry Kissinger, in occasione di un seminario a porte chiuse svoltosi presso l’Accademia pontificia delle Scienze; in quell’occasione, l’ex Segretario degli Stati Uniti aveva evidenziato che non era più possibile negare alla Cina, a seguito del “grande balzo in avanti” operato dopo l’era di Mao, la possibilità di operare sul piano internazionale alla pari con gli altri attori globali.
L’accordo con il Vaticano consentirà a Xi Xinping di condurre l’attuazione della propria politica nel segno della continuità con quella dei suoi più immediati predecessori: Jiang Zemin e Hu Jintao. Il primo, ricoprendo che ha ricoprendo la carica di Segretario generale del Partito Comunista della Cina dal 1989 al 2002, ha portato avanti le riforme per la liberalizzazione dell’attività economica di Deng Xiaoping, mantenendo comunque il PCC alla guida del Paese; egli ha elaborato la teoria delle “Tre Rappresentanze”, per sottrarsi alla critica dei maoisti di fare correre alla Cina il rischio di un ritorno al capitalismo. Questa teoria ha consentito a Jiang Zemin di affermare che la forza del PCC era fondata sul fatto che essa fosse il risultato della contemporanea soddisfazione delle esigenze delle forze produttive del Paese, di quelle dei più avanzati orientamenti culturali e di quelle degli interessi dei più ampi strati della popolazione.
All’affermazione della teoria delle “Tre rappresentanze” ha fatto seguito la “Teoria dello Sviluppo Scientifico e Armonioso” di Hu Jintao, con la quale, sempre nella tradizionale forma con cui in Cina vengono prese le grandi decisioni, veniva ribadito che la crescita e lo sviluppo del Paese sarebbero avvenuti in una prospettiva scientifica, armonizzata e onnicomprensiva, a differenza della crescita e dello sviluppo “selvaggi” che avevano caratterizzato il corso del processo di riforme inaugurato da Deng Xiaoping, con conseguenti disparità sociali e squilibri di ogni sorta. Per la prima volta è stata quindi affermata la necessità che la crescita e lo sviluppo interni fossero ponderati e bilanciati da un sistema di garanzie sociali, che non causasse l’approfondimento degli squilibri esistenti tra regioni arretrate e avanzate, tra città e campagna, tra uomo e ambiente naturale.
Le due teorie, quella delle “Tre Rappresentanze” e quella dello “Sviluppo Scientifico e Armonioso”, sono servire a tracciare la linea lungo la quale sviluppare l’inserimento della Cina nell’economia internazionale, in continuità con le idee proposte da Deng Xiaoping, che avevano segnato il distacco dalle pratiche del maoismo; queste idee sono state riprese da Jang Zemin e Hu Jintao, per formulare il modo in cui sarebbe stato conciliato il perseguimento degli obiettivi interni con quello degli obiettivi esteri, salvaguardando la pace mondiale, strumentale alla continuità dello sviluppo nazionale.
Ciò significava che la continuità del processo di modernizzazione potesse essere assicurato solo in un ambiente internazionale pacifico, per cui la Cina non doveva dare luogo a minacce per l’ordine costituito, dato che il Paese non poteva permettersi di distrarre risorse dall’obiettivo della crescita e dello sviluppo interni, senza che questo significasse rinuncia a sostenere le proprie posizioni, specialmente quando si fosse trattato di temi riguardanti la sovranità nazionale. In tal modo, i fondamentali della politica estera cinese sono stati basati sul paradigma “pace e sviluppo”, messo al centro del dibattito sul ruolo della Repubblica Popolare della Cina nel mondo.
Con Xi Jinping, tale paradigma, proiettato a livello internazionale, ha preso il nome di “collana delle perle”, per indicare le modalità con cui la Cina conduce la propria politica, soprattutto nell’area del Pacifico, con la creazione di un sistema di punti di influenza o importanti capisaldi strategici dal punto di vista economico-commerciale. Per la realizzazione di questa politica di accreditamento internazionale, la Cina, secondo Sapelli, si sarebbe ispirata alle idee del nordamericano Alfred Thayer Mahan, formulatore della teoria del “sea power”, secondo la quale la forza marittima di un Paese deve essere impiegata per la creazione all’estero di basi navali che rappresentino punti d’appoggio sicuri. Così, la teoria di Mahan, dopo aver ispirato gran parte della politica geostrategica degli Stati Uniti dalla fine della Seconda guerra mondiale, ispirerebbe oggi quella cinese.
La “collana” comprende oggi 15 “perle”, coinvolgendo un’area che si estende da Hong Kong a Port Sudan, toccando anche Vietnam, Thailandia, Myanmar, Bangladesh, Sri Lanka, Maldive, Pakistan, Iraq e Kenia. Gli investimenti sinora effettuati dalla Cina in questi Paesi sono mirati ad ottenere snodi e punti chiave per il crescente potenziamento del suo inserimento nell’economia mondiale.
Per rendersi conto della proiezione esterna pacifica della rinata potenza economica cinese, occorre considerare l’ascesa di Pechino negli ultimi decenni, soprattutto a partire dal 1992, quando il fenomeno ha preso corpo in termini di evoluzione delle relazioni multilaterali della Repubblica Popolare della Cina e di cambiamento dello scenario geopolitico complessivo, specialmente nell’area strategica dell’Asia-Pacifico. L’idea che si è affermata in Cina, con le leadership di Jiang Zemin e Hu Jintao, è stata, come si è detto, la necessità di assicurare una sostanziale continuità al paradigma “pace e sviluppo” di Deng Xiaoping; paradigma che ha continuato ad essere sostenuto da Pechino nelle comunicazioni dirette alla comunità internazionale, associata sempre alla necessità che lo sviluppo delle relazioni internazionali avvenisse in modo da risultare armonioso per tutti. Questa visione, fatta propria dalla nuova leadership di Xi Xinping, inserita tra l’altro, come è accaduto per il “Pensiero di Mao Zedong”, di Deng Xiaoping” (sulla liberalizzazione dell’attività economica), di Jang Zemin (sulle “Tre Rappresentanze”” e di Hu Jintao (sullo “Sviluppo Scientifico e Armonioso”), nello Statuto del Partito Comunista Cinese, al termine dell’diciannovesimo congresso, che ha segnato la definitiva affermazione della “linea” di Xi.
Per Xi Jinping, rinnovato nella carica di Segretario, dopo essersi assicurata una posizione di sicuro controllo sui suoi avversari interni ed esterni al partito, le ulteriori affermazioni all’estero sono diventate il motivo che gli hanno permesso di rafforzarsi ulteriormente all’interno e viceversa; il risultato sarà inevitabilmente, a parere di Sapelli, un aumento dei conflitti territoriali con i Paesi che ricadono innanzitutto nelle più immediate vicinanze delle Cina: ne sarebbe prova il fatto che tutte le dichiarazioni del socialismo cinese non farebbero altro “che porre le basi di uno Stato forte”, al quale riservare “l’ultima parola in economia per garantire l’espansione all’estero”. Tutto, oggi, sempre secondo Sapelli, sarebbe “destinato ad essere sostituito da una sorta di neomaoismo efficacemente conseguito all’interno, attraverso l’eliminazione continua e massiccia degli oppositori e il ritorno della potenza economica in Cina: meno investimenti all’estero, come predica Xi Jinping, se non nella misura in cui questi servono per il cammino di dominazione del mondo”.
Circa gli intenti della politica cinese, Sapelli non avrebbe potuto illustrare una situazione più apocalittica; se essa avesse un qualche fondamento, occorrerebbe pensare che la Cina, nelle sue comunicazioni dirette alla comunità internazionale, si comporterebbe come chi, predicando bene, finisce col razzolare male. Ma quel che più conta è il fatto che, se la tesi di Sapelli corrispondesse alle effettive ragioni che spiegano l’attuale politica cinese, si dovrebbe pensare che tutto ciò che la Cina ha realizzato dalla fine della Seconda guerra mondiale è stato fatto col preciso intento di sanare, con la conquista del dominio sul mondo, le frustrazioni subite dalla politica colonialista delle antiche potenze: si tratta di una propensione di dubbia credibilità, pur in presenza a Pechino, nel momento attuale, di un “uomo solo al comando”, propenso a reprimere ogni possibilità di critica.
Ciò non significa, tuttavia, che la Cina sia propensa ad agire sulla scena internazionale ispirandosi ad ogni costo, ad una “politica dei cento fiori” di maoista memoria; se al pari di altri competitori globali, essa pensa anche a dotarsi di un apparato difensivo dei propri interessi, non va dimenticato che alcuni osservatori critici dei precari equilibri mondiali esistenti non mancano di rilevare che l’atteggiamento aggressivo potrebbe semmai essere proprio di quei competitori della Cina che potrebbero essere vittime della “Trappola di Tucidide”, ovvero del convincimento, nutrito da chi oggi occupa una posizione globale prevalente, dell’inevitabilità di uno scontro con un’economia emergente che ne insidi la superiorità.

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