Parlamentarie: fatto democratico o sceneggiata?

12 Gennaio 2018
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Andrea Pubusa

Non so voi, ma io non riesco a rispondere ad un quesito sui 5 Stelle, un interrogativo importante perché involge un aspetto centrale della generale questione democratica oggi. Le parlamentarie sono un fatto democratico? La carica dei 15 mila è un positivo evento partecipativo? O sono una sceneggiata senza senso?
Rispetto a queste domande non so sciogliere il nodo. Sono in riflessione da tempo, ma non riesco a formarmi un’opinione sicura. Sono come l’asino di Buridano, immobile fra la biada e l’acqua.
Se prendo a metro di paragone l’attuale vita interna dei partiti, la carica dei 15 mila mi sembra un impetuoso, anche se poco ordinato, passo avanti. I partiti sono ormai consorterie o raggruppamenti di consorterie. Gruppi intorno ad un notabile o a un capo che si contendono cariche pubbliche e prebende; si muovono sotto lo stimolo del gelido interesse in un eterno presente che non conosce finalità generali intorno a cui costruire un futuro sia per la società che per il partito stesso. Il caso emblematico viene da Renzi che si presenta come il capo di una composita consorteria, alla cui sopravvivenza sacrifica il futuro dello stesso PD, conducendolo, più che ad una sconfitta, ad una vera e propria distruzione. In questo raptus suicida ricorda Craxi che, sull’altare del suo ego, ha fatto fuori il più antico partito italiano, cui la democrazia del nostro paese doveva moltissimo.
Paradossalmente, l’atteggiarsi dei partiti come raggruppamenti di consorterie ci riporta all”800, prima che si formassero i grandi partiti di massa. E’ con essi che nasce una democrazia nei partiti, la formazione nei congressi dei gruppi dirigenti, la circolazione delle idee a mezzo di giornali e sezioni locali, l’attenzione alla vita futura del partito, che, per i suoi fini generali, travalicava la traiettoria politica e umana dei singoli leader.
Certo, anche la vita di quei partiti aveva dei limiti. Già Robert Michels, ai primi del ‘900, studiando il comportamento politico delle élite intellettuali, descrisse “la ferrea legge dell’oligarchia”. Nel suo libro Sociologia del partito politico, teorizza che tutti i partiti politici si evolvono da una struttura democratica aperta alla base, in una struttura dominata da una oligarchia, da un numero ristretto di dirigenti. Con il tempo, chi occupa cariche dirigenti, allontanandosi dalla base, diventa un’élite compatta dotata di spirito di corpo, una “casta”, come si dice oggi, ma come già diceva Gramsci.
Accanto alla critica delle degenerazioni burocratiche del parlamentarismo e del regime rappresentativo Gramsci punta la sua attenzione anche sulla progressiva burocratizzazione dell’attività politica come fattore epocale e irresistibile della nascente politica di massa. Se si vuole studiare la “forma partito”, scrive Gramsci, «occorre distinguere: il gruppo sociale; la massa del partito; la burocrazia o stato maggiore del partito. Quest’ultima è la forza consuetudinaria più pericolosa: se essa si organizza come corpo a sé, solidale e indipendente, il partito finisce con l’anacronizzarsi». La perdita della «base sociale storica» del partito e della sua capacità di “presa” sul reale porta alla «crisi dei partiti», che però mantengono comunque un ruolo centrale nella vita politica: essi ripetono una terminologia vieta, che permette ai dirigenti di mantenere la vecchia base pur facendo compromessi con forze affatto diverse e spesso contrarie e asservendosi alla plutocrazia». Sembra l’analisi del PD di Renzi e degli altri partiti!
Era una democrazia limitata, ma anni luce più intensa di quella delle attuali consorterie sia nei partiti senza correnti interne come il PCI, sia in quelli con intensa attività correntizia, come il PSI e la DC. Nel primo caso il c.d. centralismo democratico inevitabilmente creava una prevalenza della promanazione della “linea” dall’alto verso il basso, ma il fenomeno era mitigato dalla forte condivisione delle finalità generali del partito, dalla intensa militanza e dall’autorevolezza della dirigenza. Elementi questi presenti anche nella DC e nel PSI, che mantenevao poi radicati legami popolari: sindacato, associazionismo e simili.
Ora, questa realtà sembra irripetibile, per cui le parlamentarie, commisurate alle consorterie paiono senz’altro un passo in avanti sul piano democratico. Spezzano un modo chiuso di nomina dall’alto dei rappresentanti. Ma assicurano la qualità? Anche qui la perplessità è mitigata dalla considerazione che una rappresentanza peggiore di quella prodotta dalle consorterie è difficile da immaginare. Tuttavia, basta l’esame del curriculum ad assicurare buoni rappresentanti? Ho dei dubbi, la dirigenza politica richiede qualità che necessariamente devono essere misurate sul campo, aulla base di parametri necessariamente non astratti. Quanti compagni abbiamo conosciuto con ottimi curricula, ma privi di qualunque capacità dirigente? E quanti, a cui non avresti dato una lira di credibilità, che poi si sono rivelati seri, tenaci e capaci? Insomma, se è sicuro che le consorterie selezionano piccoli e grandi intriganti, non è detto che le parlamentarie diano buoni dirigenti. Ma forse il quesito potrà risolversi quando il M5S potrà sperimentare i propri uomini in attività di governo o amministrative. Del resto i Di Maio, i Fico, i Di Battista si sono fatti valere sul campo. Ma, attenzione!, quando i pentastellati avranno enucleato su base sperimentale i loro dirigenti, da Movimento si saranno trasformati in partito e, sullo sfondo, riappare il fantasma di Robert Michels a ricordarci la ferrea legge dell’oligarchia. Ma per ora, forse, meglio le parlamentarie, con qualche iniezione di saggezza del gruppo che opera la selezione.

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