Gianfranco Sabattini
Di recente, i dati provvisori dell’ISTAT hanno annunciato un “boom dell’occupazione”, che ha indotto l’ex capo del governo, Matteo Renzi, ad esultare e a dichiarare che ciò è il risultato della politica del “suo” governo, con la riforma del diritto del lavoro promossa ed attuata in Italia attraverso il varo, tra il 2014 e il 2015, di diversi provvedimenti legislativi (Jobs Act). L’entusiasmo di Renzi potrà pure avere una sua giustificazione prettamente elettorale; fuori dalla competizione politica, però, i dati dell’ISTAT non sono del tutto rassicuranti. Essi, infatti, presentano “più ombre di quanto non siano le luci”, come viene evidenziato da Francesco Saraceno (economista senior presso l’Osservatoire Français des Conjonctures Économiques/Science-Po di Parigi) in “Che cosa ci dicono i dati sul lavoro”, pubblicato su “Il Mulino” n. 5/2017.
Stando ai dati ISTAT, il numero degli occupati ha superato i 23 milioni di unità, livello pressoché identico a quello raggiunto in Italia nel 2008, prima dell’inizio della lunga crisi. I dati evidenziano che, in termini assoluti, gli occupati a luglio di quest’anno sono stati pari a 23,063 milioni, il livello massimo a partire dal 2008, quando era stato registrato il tetto di 23,081 milioni. Il facile entusiasmo suscitato dal raggiungimento di questo obiettivo è stato subito “raffreddato” dalla contemporanea rilevazione dell’aumento del tasso di disoccupazione, salito all’11,3%. L’apparente contraddizione di un andamento in crescita di entrambi i fenomeni (dell’occupazione, da un lato, e della disoccupazione, dall’altro) ha però, nel caso dell’Italia, una spiegazione non del tutto rassicurante. Per rendersi conto di ciò, seguendo l’analisi di Saraceno, occorre affiancare al tasso di disoccupazione quello di turnover delle forza lavoro, che misura il flusso in ingresso e in uscita dei lavoratori dal mercato del lavoro.
Diversi sono gli indicatori che possono essere utilizzati per stimare il ricambio della forza lavoro; il principale (calcolato su base annua) è il “tasso di turnover complessivo” (numero di lavoratori entrati ed usciti dal mercato del lavoro diviso la consistenza media della forza lavoro occupata, moltiplicata per 100). Esso è fisiologico quando misura il flusso naturale di persone che entrano ed escono dal mercato del lavoro per effetto di normali eventi, quali assunzioni, licenziamenti e pensionamenti, che non denuncino un anomalo funzionamento del mercato del lavoro e un’instabile continuità produttiva del sistema economico; esso è invece patologico, quando l’uscita dal mercato del lavoro avviene in seguito a instabilità produttiva e indipendentemente dalla volontà del lavoratore di abbandonare la stabilità occupazionale.
La crisi degli ultimi anni e l’aumentata competitività del mercato internazionale possono aver giustificato la propensione, da parte di molte attività produttive, ad avvalersi di un turnover fisiologico, nella gestione della propria forza lavoro occupata, aumentando il flusso in entrata, con assunzioni strategiche, e in uscita, con licenziamenti e altre forme di alleggerimento del costo del lavoro, ricorrendo, ad esempio, all’esterno per lo svolgimento di alcune fasi del proprio processo produttivo (outsourcing); ma in periodi di crisi, se la propensione a ricorrere al turnover da parte delle attività produttive è conservata o prolungata nel tempo può diventare causa di una grave crisi economica, con conseguente instabilità e perdita di solidità del sistema economico nazionale.
Chi esulta per l’aumentato livello dell’occupazione non ha motivo di farlo, perché - afferma Saraceno - se l’aumento dell’occupazione è valutato in “termini di unita di lavoro equivalenti a tempo pieno”, l’occupazione complessiva realmente registrata risulta più bassa di circa un milione di unità rispetto a quella del 2008; perciò, l’occupazione effettiva non è aumentata tanto quanto si vorrebbe dedurre dalla considerazione del numero dei lavoratori risultanti occupati al luglio del 2017. Ciò è confermato anche da un altro punto di vista; considerando che il PIL nazionale alla fine del 2016 era ancora inferiore del 7% rispetto ai livelli pre-crisi, è possibile affermare – secondo Saraceno – che “lo stesso numero di lavoratori produce oggi il 7% in meno di quanto produceva nel 2008”. Di conseguenza, si può dire che, nonostante sia stato “ritrovato il lavoro”, non è stato contemporaneamente ritrovato lo stesso livello di produzione. Questo fenomeno può essere spiegato considerando il fatto che, durante i quasi dieci anni di crisi, il turnover del mercato del lavoro è stato sostanzialmente di natura patologica, denunciando tanto una diminuzione (nelle attività produttive con più di dieci dipendenti) del numero delle ore lavorate per dipendente, quanto un profondo cambiamento della composizione settoriale dell’occupazione. Infatti, la dinamica del mercato del lavoro evidenzia che che, tra il primo trimestre del 2008 e il primo del 2017, la diminuzione del numero delle ore lavorate per dipendente è stata di circa il 6%.
In quali settori si è verificata la diminuzione? La risposta al quesito domani. - SEGUE
3 commenti
1 Oggi sabato 30 dicembre 2017 | Aladin Pensiero
30 Dicembre 2017 - 09:18
[…] Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi. ————————————- Sab 30 dic 2017 aladinews aladin […]
2 Oggi domenica 31 dicembre 2017 | Aladin Pensiero
31 Dicembre 2017 - 11:08
[…] Democraziaoggi. Ecco la seonda parte dell’interessante intervento del prof. Gianfranco Sabattini, pubblicato ieri su Democraziaoggi a commento del saggio di Francesco Saraceno (economista senior presso l’Osservatoire Français […]
3 Lavoro innanzitutto! Come? | Aladin Pensiero
31 Dicembre 2017 - 11:20
[…] Democraziaoggi. Ecco la seonda parte dell’interessante intervento del prof. Gianfranco Sabattini, pubblicato ieri su Democraziaoggi a commento del saggio di Francesco Saraceno (economista senior presso l’Osservatoire Français […]
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