Francesco Cocco
Mentre scrivo queste righe, la consultazione per il rinnovo del consiglio regionale è in pieno svolgimento. Chiunque vinca, i problemi connessi alla salvaguardia della nostra democrazia autonomistica restano in piedi e per molti versi tenderanno ad acuirsi. Questo perché, al di là degli slogan propagandistici, il disegno autocratico, esercitato in forma diretta o per interposta persona, non ha trovato sufficienti accenti critici in entrambi gli schieramenti. Né gli osannanti alle nuove forme di culto della personalità possono far presagire nulla di positivo per una rapida inversione di tendenza.
Quel che appare preoccupante è che, anche in larghi strati della sinistra, non si colgono le conseguenze nefaste di una prassi non più ispirata ad una dignitosa militanza ma piuttosto alla accettazione di un ruolo di passiva obbedienza ad un capo, che non di rado sbocca in veri e propri processi d’ infeudamento politico.
Il movimento operaio (segnatamente i partiti che ad esso si richiamavano) ha conosciuto nella sua lunga storia la figura del “capo”. Quando tale ruolo non nasceva da gravi processi di degenerazione politica ed istituzionale (lo stalinismo nelle sue varie versioni) era il risultato di una selezione fondata su sperimentate capacità e su sicura fedeltà alle idealità. Esisteva il processo della “cooptazione” dei quadri, che presentava mille limiti, ma il cooptato doveva poi dare permanente dimostrazione di abnegazione e coerenza con gli interessi del movimento.
Con ciò non si vuole certo nascondere l’improponibilità oggi di una tale formula organizzativa. Sarebbe al di fuori dell’attuale contesto storico ed oltretutto significherebbe ignorare certi suoi aspetti degenerativi. Quella formula organizzativa ha funzionato finché nei partiti del movimento operaio hanno operato dirigenze formatesi nella fase epica della Resistenza. Poi, a partire dalla fine degli anni Settanta, è servita a creare l’auto-blindatura degli stessi gruppi dirigenti, che se ne sono spesso serviti per la propria conservazione.
La conseguenza è stata una progressiva scollatura a vari livelli tra base e relative dirigenze. In qualche modo la fase finale di questa formula organizzativa è rappresentata nel PCI dall’ occhettismo con la sua iniziale pretesa di operare lo scioglimento del partito senza neppure un congresso. Mentre nel PSI è rappresentata dal craxismo, con il sorgere di chiare logiche di dominio personale. Di qui la genesi del “partito azienda” e del “partito personale” proprio della destra, e che ormai tende ad affermarsi anche a sinistra. E proprio la Sardegna tende ad offrire un esempio di simile processo degenerativo.
Se la formula organizzativa della cooptazione viene qui richiamata è solo per evidenziare l’involuzione rappresentata dalle odierne formule dell’auto-proclamazione e dell’auto-candidatura all’esercizio di un ruolo partitico e/o istituzionale. Eppure di democrazia partecipata, nei movimenti e nei partiti sempre più asfittici, abbiamo estremo bisogno. La necessità non nasce soltanto dall’involuzione autoritaria nella gestione della nostra autonomia e dai modelli di cesarismo ai quali sempre più frequentemente sembra ispirarsi il berlusconismo e che ormai tende a far capolino anche in larghe frange della sinistra (o proclamatesi tali). Nasce nondimeno dalle difficoltà della situazione economica di cui stiamo cominciando ad avvertire le drammatiche conseguenze.
La crisi economica, iniziata alla fine dell’estate 2008 con le gravi turbolenze nella finanza internazionale, si è estesa all’economia reale. I tassi di disoccupazione in tutto l’Occidente capitalistico (e non solo), raggiungono ormai le due cifre. Le previsioni di uscita dalla grave depressione economica, nella quale stiamo appena entrando, vengono indicate in anni. Il governo italiano, e segnatamente il suo presidente ed il ministro del tesoro, che in questi mesi hanno fatto di tutto per minimizzare a parole la drammatica congiuntura, ora cominciano a confessare di non essere in grado di avanzare previsioni sull’entità delle conseguenze negative. Del resto quanto affermato dal Fondo Monetario Internazionale, in ordine all’impatto negativo provocato dalle irresponsabili speculazioni del capitalismo finanziario sull’intera economia mondiale, non consente più d’ìmbrogliare le carte né permette alcun ottimismo di facciata.
Una tale situazione economica può essere portatrice di grave involuzione democratica se la sinistra non sarà in grado di dare una prospettiva e di guidare il cammino d’uscita dalla crisi. Il pericolo della deriva populista è dietro l’angolo. Ecco perché occorre ritrovare al più presto una dimensione del far politica fondata su una reale partecipazione del mondo del lavoro e dei giovani. Quindi non più adesione passiva e non più affidamento ad un qualche “capo” più o meno improvvisato.
Bisogna riscoprire il piacere e la dignità della militanza. Essa implica la possibilità di partecipare alle scelte e non già la passiva accettazione di programmi e metodi imposti. Questa è la prima condizione per evitare il degrado della lotta politica. Il leaderismo ha come sua conseguenza l’impoverimento della vita politica, delle relative strutture organizzative e della capacità di opporsi ai complessivi processi di sfaldamento. La conseguenza sarebbe l’incapacità della stessa lotta politica di elevarsi al di sopra della jacquerie e del luddismo, proprie della fase infantile del movimento operaio.
Il cammino che ci attende non è percorribile con metodiche e programmi del passato. Bisogna cimentarsi nella sperimentazione di nuovi percorsi. Ciò però deve avvenire nella consapevolezza che vi è un patrimonio d’idealità e di valori ai quali ancorarsi, perché senza di essi si diventa facilmente preda dei più deleteri avventurismi. Vi è la necessità di resistere alla tentazione che vi siano strade agevoli e che la salvezza possa venire da un qualche “capo esterno” ad un sistema di valori nati dalla lotta di chi ci ha preceduti.
Di fronte ai processi di degrado occorre riscoprire la capacità di resistere alla rassegnazione ed alla resa di fronte alle difficoltà della generale crisi economica. Nondimeno occorre resistere a chi nella sinistra, in nome di facili svolte, vorrebbe procedere alla svendita di un grande patrimonio ideale e di principi. Ecco perché urge riprendere la ricerca e l’analisi collettiva per ripristinare la prassi di un’azione politica comune.
1 commento
1 antonella
18 Febbraio 2009 - 18:19
Ho riletto questo bellissimo intervento di Francesco Cocco ad elezioni avvenute, per non lasciarmi travolgere completamente dall’amarezza e dalla rabbia causate dalle scelte scellerate di Soru e del PD nazionale. Nel mio piccolo ho espresso più volte concetti come quelli qui rappresentati da Francesco Cocco perchè soprattutto i nostri giovani devono avere una speranza che si possa partecipare insieme alla costruzione di una società più giusta e democratica ed al ripristino di un prassi d’azione politica comune, proprio per non cedere alla rassegnazione, per noi meno giovani, ed alla tentazione di facili scorciatoie proposte da pseudo salvatori della patria camuffati da pifferai magici, per i più giovani.
Ma dove, quando e con chi discutere?
Ci hanno distrutto anche il luoghi (che tristezza vedere la sede di via Emilia completamente vuota!!).
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