Ripresa economica… ma il lavoro dov’è? (2)

26 Ottobre 2017
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Gianfranco Sabattini

Pubblichiamo la seconda parte della riflessione di Gianfranco Sabattini, economista del nostro Ateneo, che ci spiega l’apparente paradosso del calo del lavoro in una situazione di ripresa economica. La prima parte è stata pubblicata lunedì.


Il problema delle scarse opportunità di lavoro assume dimensioni ben più preoccupanti, se le considerazioni di Piana e Sironi vengono integrate da quelle di Giovannini; a parere dell’ex presidente dell’Istat, la contraddizione tra la debole ripresa e la permanenza dell’alto numero dei disoccupati, oltre che dalle tendenze evidenziate dei giornalisti dell’”Espresso”, dipende anche da altri fattori, quali la crescita della popolazione (per via dell’immigrazione), l’allungamento dell’età pensionabile (che ostacola le nuove leve della forza lavoro ad entrare nel mondo della produzione) e soprattutto l’abolizione “delle garanzie dell’articolo 18 che proteggevano dal licenziamento i dipendenti delle aziende con più di 15 addetti”.
Questa abolizione, sostiene Giovannini, ha cambiato la struttura produttiva dell’economia italiana, portando le imprese “a superare quella soglia dimensionale che un tempo era ritenuta invalicabile”, determinando così, con la loro crescita e la ricerca di maggiore efficienza per reggere alla concorrenza, una contrazione dei posti di lavoro. Considerando, perciò, tutti i cambiamenti che hanno caratterizzato la struttura dell’economia italiana e le regole del mercato del lavoro, Giovannini ritiene che le certezze di poter ridurre l’alto numero dei disoccupati sarebbero poche, anche perché una crescita dimensionale delle imprese, necessaria per contrastare la disoccupazione, è ostacolata dalla propensione, tipica dell’imprenditorialità italiana, a conservare il controllo familiare dell’azienda.
Per ridare slancio all’occupazione, Giovannini non ha che da proporre tre “ricette”, dal “fiato corto”, perché affidate all’iniziativa di una classe politica poco credibile: la prima dovrebbe consistere nell’accelerare il tasso di crescita dell’economia nazionale, perché gli imprenditori percepiscano che l’Italia si è “rimessa davvero in moto”; la seconda dovrebbe essere volta a rilanciare il settore delle costruzioni per la riqualificazione di “edifici e città”; un’attività, questa, che crea posti di lavoro a più alto valore aggiunto; la terza, infine, dovrebbe consistere nel rilanciare l’occupazione attraverso la promozione di nuove imprese, avendo cura che il sostegno assicurato loro non sia limitato al momento della costituzione, ma sia esteso anche alla fase della loro crescita e definitiva affermazione.
Dalle valutazioni di Piana, Sironi e Giovannini emerge una condizione non certo esaltante riguardo al possibile futuro dell’economia italiana. Tuttavia, come afferma Giuseppe Berta in “Che fine ha fatto il capitalismo italiano?”, se è inevitabile un ridimensionamento sul piano strettamente economico, ciò non deve essere recepito come una sorta di autoripiegamento rispetto allo spazio occupato dal Paese nel passato; ma, al contrario, esso deve essere considerato come la premessa per “riguadagnare” al Paese una prospettiva certa e stabile, in funzione della quale poter effettuare scelte responsabili. Con quali forze?
La risposta a questa domanda può essere formulata solo ipotizzando che venga risolto un altro radicale problema, che pesa sulle sorti future del Paese, consistente nel trovare il modo di ricuperare la sinistra socialista e riformista ai suoi valori originari, attualizzati in funzione di tutti i cambiamenti avvenuti nel funzionamento dei moderni sistemi sul piano economico e su quello sociale. Ma quali sono le condizioni perché i partiti socialdemocratici, modernizzandosi, possano contribuire a fare riguadagnare al Paese una prospettiva certa e stabile riguardo al proprio futuro? Si può rispondere a questa ulteriore domanda, seguendo i suggerimenti formulati da Emiliano Brancaccio, economista dell’Università del Sannio, in un articolo pubblicato sull’”Espresso” del 6 agosto di quest’anno, dal titolo di per sé eloquente: “Si chiama destra il morbo della sinistra, Entrata in crisi al guinzaglio dei liberisti rischia di scomparire in coda agli xenofobi”
Passata di moda l’”idea blairista dell’obsolescenza delle socialdemocrazia e dell’esigenza di una ‘terza via’”, ci si sta convincendo che il socialismo riformista sia entrato in crisi perché “una volta al governo ha attuato politiche di destra”. Di destra sono state le politiche del lavoro; in molti Paesi, fra i quali l’Italia, il calo della protezione del lavoro è avvenuto col sostegno di maggioranze parlamentari sostenute dai partiti socialdemocratici, nonostante che le ricerche in materia, condivise dalle istituzioni internazionali come il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), abbiano chiarito che le riforme adottate in difesa del lavoro non hanno contribuito a sostenere l’occupazione.
Altra causa del mancato sostegno dell’occupazione va rinvenuta nella privatizzazione, che in Italia ha portato alla distruzione dell’”economia pubblica”; anche in questo caso, col sostegno dei partiti socialisti riformisti sulla base di motivazioni che studi delle stessa OCSE sono valsi a smentire; tali studi, infatti, hanno messo in rilievo che la dismissione delle grandi imprese pubbliche in base all’assunto che esse fossero inefficienti non corrispondeva al vero, evidenziando che le grandi imprese pubbliche presenti in molti Paesi avevano sempre avuto indici di redditività significativamente superiori alle imprese private e un rapporto tra profitti e capitale investito pressoché uguale.
Infine, l’altra causa che ha contribuito ad abbassare le garanzie occupazionali della forza lavoro sono state le politiche di liberalizzazione finanziaria e di apertura ai movimenti internazionali di capitale; anche il sostegno alla realizzazione di tali politiche da parte dei partiti socialisti è stato pressoché totale, sebbene le organizzazioni internazionali, prima favorevoli alla liberalizzazione, abbiano poi espresso critiche ad una circolazione senza regole dei capitali, per gli effetti negativi sulla stabilità dei singoli sistemi economici.
In sostanza, conclude Brancaccio, “alla compulsiva ricerca di un’identità alla quale conformarsi, i partiti socialisti, [incluso quello italiano], hanno insomma applicato le ricette tipiche della destra liberista senza badare ai loro effetti reali, e con una determinazione talvolta persino superiore a quella delle istituzioni che le avevano originariamente propugnate”. Può ciò che resta del Partito socialista italiano riscattarsi prima di una sua possibile scomparsa definitiva? Si può rispondere di si, solo se esso sarà disposto ad aggiornare la propria visione del sistema-Italia, affrancandosi dalle posizioni di destra, sinora condivise, e da quelle di una finta sinistra riformista della quale è ora alleato.
Ciò può essere realizzato, innanzitutto con l’assunzione dell’obiettivo di modificare l’attuale welfare State, non più all’altezza di garantire un reddito alla generalità degli Italiani, spostando la riflessione dal problema dell’occupazione a quello della distribuzione equa del reddito; in secondo luogo, con l’ulteriore assunzione dell’obiettivo di attuare una politica di riacquisizione pubblica di buona parte del patrimonio produttivo privatizzato, per ricostituire quell’”economia pubblica”, che aveva consentito all’Italia di passare dalla periferia al centro del mondo fra i Paesi più industrializzati. Solo modernizzando la propria ideologia politica, conformandola agli obiettivi descritti, il socialismo riformista può riproporsi al Paese con una proposta credibile di progresso materiale e sociale.

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  • 1 Oggi giovedì 26 ottobre 2017 | Aladin Pensiero
    26 Ottobre 2017 - 23:15

    […] Ripresa economica… ma il lavoro dov’è? (2) 26 Ottobre 2017 Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi. Democraziaoggi pubblica la seconda parte della riflessione di Gianfranco Sabattini, economista del […]

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