Il voto: la responsabilità del candidato e quella dell’elettore

11 Febbraio 2009
2 Commenti


Andrea Pubusa

Umberto Allegretti, con la sua abituale acutezza, ha richiamato ieri l’attenzione sulla responsabilità dell’elettore nel voto. Ma c’è solo questa? O esiste anche una responsabilità del candidato? E qual è il rapporto fra le due? Ecco alcune considerazioni sul tema.

Oggi c’è una spiccata tendenza a separare il potere dalla polis. Il potere vero, capace di stabilire le scelte, fluisce fuori delle istituzioni. Mancano organi pubblici territoriali (elettivi, rappresentativi ecc.) capaci di decidere, perché rimangono rigidamente locali, mentre le grandi opzioni sono globali. Qui c’è uno spazio vuoto e sono le corporation a farla da padroni e a dettare le regole attraverso i loro contratti e le loro convenzioni. Insomma, una sorta di moderno jus mercatorum, creato dal mercato e non dagli Stati.
All’interno dei singoli ordinamenti il potere viene esercitano dal capitale attraverso una pressione sulle autorità politiche, cui solitamente si chiede, attraverso un’intensa azione di lobbyng, di non regolare o di regolare al minimo le attività che interessano le imprese, onde lasciar spazio alla “mano invisibile” del mercato. Questo è quanto è accaduto finora negli USA con una manifesta estensione anche nella Comunità europea, dove più il mercato che i diritti dei cittadini sono alla base della legislazione fondamentale. In Italia, poi, c’è un ulteriore anomalia, costituita da Berlusconi. Il capitale non si limita a far pressione sul potere, ma occupa le istituzioni, il governo del Paese. E così oggi l’Italia è guidata da un leader che è parte diretta del capitale o, forse meglio, di una parte del capitalismo nostrano. Bene. Un fenomeno analogo, seppure su scala più limitata, si verifica in Sardegna, dove il più importante imprenditore ha conquistato le leve del potere regionale. E le scelte dal sistema politico, dei partiti, dei sindacati, dei movimenti, si è spostato in capo ad un uomo solo. Soru ha dato veste giuridica a questa privatizzazione del potere per mezzo della Legge statutaria, imperniata non a caso, sulla legittimazione del conflitto d’interessi (un imprenditore può stare al comando, senza cessare di curare i propri affari) e su un presidenzialismo senza bilanciamenti, che riproduce su scala istituzionale il potere monocratico dell’imprenditore in azienda.
In questo inedito contesto le alternative sono determinate dai soggetti economici che direttamente hanno occupato le istituzioni. L’agenda, e cioè le alternative possibili, sono fissate da loro e da costoro sono fissati anche i codici di scelta, ossia i criteri che i singoli devono seguire per esprimere una preferenza fra un’alternativa o un’altra. Insomma, per effettuare la scelta più appropriata. Le alternative vengono presentate come oggetti di consumo, al pari dei beni materiali, delle merci. Ecco allora che i leader si affidano ad esperti che ne curano l’immagine, onde renderla appetibile sul mercato politico. Ai programmi si sostituiscono gli slogan (“La Sardegna torna a sorridere”, “Meglio Soru”) o addirittura i modi di vestire (Soru con la divisa da sardo; Cappellacci con l’atteggio della brava persona comune, cordiale e disponibile). La realtà politica smarrisce il progetto collettivo e diviene così un contenitore di potenziali oggetti di consumo. Gli elettori divengono consumatori cosicché la pubblicità e i media prendono il posto un tempo occupato dai programmi, dalla mobilitazione diretta degli iscritti ai partiti o dai cittadini organizzati in movimenti o strutture di base. Di più, con la pubblicità si innescano la promessa di sensazioni piacevoli (la sardità, il mantenere la schiena dritta, l’essere governati con normalità e senza dispotismi, tutela dell’ambiente, aumento dell’occupazione e della sicurezza ecc.). Talché il desiderio dell’elettore è fin dall’inizio orientato dall’offerta dei candidati di sensazioni piacevoli in precedenza sollecitate. Gli elettori-consumatori sono stimolati ad essere egocentrici, egoisti, poco interessati alle proposte altrui e all’impegno comune. Naturalmente, le sensazioni piacevoli sono di breve durata, spariscono subito dopo le elezioni, ma prima generano fans, tifosi ultras, poco disponibili al confronto e al dialogo.
Tutto ciò che si ricava da quanto detto è che il passaggio alla condizione tardomoderna e postmoderna, nella quale siamo immersi, non ha portato una maggiore libertà individuale né collettiva. I cittadini e gli elettori hanno meno voce in capitolo nella definizione delle alternative e nella negoziazione delle scelte. Il cittadino politico, l’homo civicus è stato trasformato in mero consumatore. La maggiore libertà è solo un’illusione, anche se questa è ben protetta dalle possibilità di smascheramento, perché le alternative da ciascuno proposte sono presentate come “offerte cui non si può rinunciare”, salvo far vincere il competitor. Dunque quella che appare una scelta in realtà è un’imposizione. L’obbedienza alle alternative imposte dall’alto è mascherata da scelta spontanea. In questo contesto il voto diviene non-libertà perché alle alternative proposte non c’è la possibilità di opporne altre. Tuttavia, la non-libertà è confortante per chi si immedesima in una delle due alternative imposte, è oppressiva e ripugnate per coloro che non si riconoscono in alcuna di esse. La scelta entro le proposte date denota senz’altro uno stato di eteronomia in cui versa chi l’effettua, mentre l’autonomia non può che manifestarsi astenendosi da una scelta truccata o effettuando altre scelte, che in quel contesto appaiono inutili, bizzarre o, addirittura, dannose. Quindi irresponsabili alla luce delle false alternative poste dai leader.
Tuttavia, a ben vedere, il voto e la responsabilità nel suo esercizio in questo ambiente, prima che in capo all’elettore va vista con riferimento a chi predispone le offerte politiche. Sono anzitutto i candidati che devono confezionare una proposta che sia accattivante o accettabile non solo per coloro che acriticamente accedono alle loro promesse, ma anche per chi, avendo posto delle domande, pretende risposte. Bene. In Sardegna qualche domanda da sinistra l’abbiamo posta. E sono tutte modeste, nell’ordinaria tradizione democratica. Eccole in sintesi: se non un sistema parlamentare, si è chiesto un presidenzialismo temperato (all’americana, dove a un presidente forte corrisponde un parlamento forte), una disciplina che impedisca il conflitto d’interessi, un’accettabile moralità pubblica (possibilmente niente indagati in lista), un’amministrazione imparziale, senza intromissione diretta del potere politico, una politica ambientale fondata sulle leggi e non sugli umori e le propensioni del Presidente di turno. E poi la pretesa di partecipare alla confezione di una delle alternative, e cioè alla scelta del candidato-presidente e del programma, attraverso primarie ed altri momenti partecipativi. Nulla di tutto questo è stato consentito. Abbiamo un autocandidato, che, per esserlo, ha sciolto il Consiglio, con un programma fatto da lui in solitudine; il PD è stato di fatto soppresso; l’unico criterio di formazione delle liste è stata la prostrazione al capo. Soru, se vince, piazzerà un suo uomo alla Presidenza del Consiglio (se ne fa già il nome), al vertice delle Commissioni consiliari e del Gruppo PD, nonché alla guida del PD. Un’offerta, ovviamente, indorata con l’ambientalismo, ormai presente anche nella pubblicità della auto e delle compagnie petrolifere, e con la sardità, manifestata con il vestito di vellutino ed altri slogans o dichiarazioni di buoni propositi confezionati dai consulenti pubblicitari. Ma per chi non si lascia distogliere dagli slogans e considera questa prospettiva terrificante? Basta il richiamo alla responsabilità nel voto? E il principio di responsabilità deve guidare solo i comportamenti consapevoli dei cittadini elettori o anche quelli di chi i voti li chiede? Non dovrebbero costoro essere ancor più cittadini veri, visto che si propongono a governare? Non devono anzitutto costoro “considerare gli effetti prodotti dalle proprie azioni”? Non è il candidato che deve con le sue scelte, i suoi programmi e i suoi comportamenti rendere il voto in suo favore desiderabile? Non deve un leader creare momenti di dialogo e di unità nel suo elettorato di riferimento? E’ saggio e ragionevole sbattere la porta in faccia a una parte dell’elettorato e poi pretenderne il voto? Insomma, è più irresponsabile chi ha formulato una proposta a molti indigesta o coloro che, ritenendola tale, non l’accettano? Occorre quantomeno ammettere che la responsabilità di chi si propone a capo di una coalizione è maggiore. E bisogna anche ammettere che il principio responsabilità impone loro più che ai normali cittadini non un’astratta e improduttiva coerenza espressa in slogan, ma una “coerenza” vera tra promesse e comportamenti concreti. E se gli elettori non la riscontrano, perché rimproverarli se la sanzionano?

2 commenti

  • 1 Cristian Ribichesu
    11 Febbraio 2009 - 07:41

    Di seguito riporto un articolo consultabile nel sito degli emigrati sardi attraverso questo link http://www.emigratisardi.com/news/news-article/archive/2009/02/08/article/politica-e-comunicazione-158.html

    Politica e comunicazione.
    domenica, febbraio 08, 2009 Autore: Cristian Ribichesu
    Due giorni fa ho letto un testo di un discorso politico in cui appariva una comparazione con l’imperatore Caligola, e nello stesso testo ho notato l’iterazione, ripetizione, del pronome personale “lui” (il dizionario Sabatini Coletti ne indica l’uso anche per non nominare appositamente una persona).

    Questa mi ha colpito e l’ho percepita come una forzatura. Poi, il tono e l’enfasi del testo era tale che ho avuto anche una vaga impressione delle famose Catilinarie, i quattro discorsi di Cicerone contro Catilina, politico romano che voleva sovvertire la Repubblica.

    Subito ho pensato a due aspetti differenti ma contigui: l’uso della comunicazione nella Politica e lo studio della politica da parte della Comunicazione.
    La prima considerazione mi ha ricordato la precedente campagna elettorale con l’Onorevole Veltroni che ometteva il nome dell’Onorevole Berlusconi;
    la seconda riflessione, se così posso indicarle, dato che in realtà sono stati pensieri molto fugaci, mi ha riportato alla mente un intervento che avevo scritto per il sito Sardegna e Libertà, L’informazione e la spirale del silenzio.

    In quell’articolo osservavo come il “modello della spirale del silenzio” della studiosa Elisabeth Noelle Neumann, orientato sugli effetti della comunicazione, cioè in quale misura e in quale lasso di tempo vengono modificati i comportamenti e le opinioni del pubblico sottoposto a messaggi mediali, descriva e indichi come il controllo dei media limiti i pareri del pubblico fruitore dei servizi, che “non è più in grado di esercitare il suo potere di scelta, semplicemente perché non ci sono più alternative tra cui scegliere”, con il conseguente schiacciamento delle tendenze minoritarie.

    Come scrivevo, tale modello descrive bene anche la politica, dove da sempre la comunicazione ha rivestito un ruolo importante, basta pensare al vecchio politichese e al suo effetto sugli ascoltatori.
    Così, oggi i maggiori partiti politici, quelli che hanno a disposizione gli strumenti di comunicazione pubblica più importanti, televisioni, radio e giornali, influiscono sull’opinione delle persone, anche in modo dominante.

    Ovviamente, la gestione dei media nel contesto politico nazionale, con la divisione bipolare, potrebbe causare una limitazione delle libertà di scelta e di opinione, e sicuramente la diffusione di Internet e di spazi di comunicazione alternativi, un esempio è la sperimentazione di Pandora tv, permettono la diffusione di opinioni diverse delle minoranze attive.

    Pensando a forme di limitazione delle minoranze, sempre fugacemente, mi viene in mente la riforma della legge elettorale, già approvata alla Camera, per l’elezione dei membri italiani del Parlamento europeo, in vista delle elezioni del 6 e 7 giugno prossimo, con una soglia di sbarramento del 4% per le liste candidate, attraverso l’emendamento 1.1000 della Commissione Affari Costituzionali, e alla situazione della Sardegna che non avrà un suo rappresentante a Strasburgo.

    Certo, un’eccessiva frammentazione delle divisioni politiche, con conseguente ripartizione di poltrone, finanziamenti e rallentamento delle decisioni proprie dei vari organi politici e dello Stato, Regioni ed enti locali, non è auspicabile.

    La farraginosità dei sistemi impone le semplificazioni, ma queste devono avere organismi e strumenti efficaci ed efficienti a tutela delle posizioni di tutti, non certo creando l’appiattimento delle varie opposizioni, o impedendo la criticità di visioni interne ad uno stesso partito, con una conseguente sterilità del confronto, spesso ridotto a sole due voci, o, ricorrendo a un quasi ossimoro, imponendo agli elettori la scelta dall’alto.

    Perché, se alcuni non se ne accorgono, in questo presente, un presente ormai lungo nel tempo, vero e proprio status quo, le posizioni critiche di dissenso sembrano sparire per dar spazio al cameratismo più fedele, di ogni colore politico.

    È vero anche che delle coalizioni, all’interno della semplificazione, possono garantire le posizioni di alcune minoranze, ma bisogna presupporre delle forme vincolanti per il rispetto delle progettualità condivise fra i partiti, e fra questi e gli elettori.

    Probabilmente le battaglie attuali si giocano proprio sul piano della comunicazione, ma usata ad arte questa pone i cittadini comuni su una sorta di piano surreale, e allora le uniche forme di tutela, pure delle minoranze, e per me quelle sulle quali occorrerà lavorare sempre più, sono la maggiore partecipazione popolare, anche attraverso la creazione di movimenti di cittadini, e l’onesta trasparenza politico-amministrativa, attuabile nei modi e nelle forme opportune.

    Cordialmente
    C.R.

  • 2 Sergio Ravaioli
    11 Febbraio 2009 - 09:05

    Ma di quale conflitto di interessi andiamo parlando?
    Il nostro presidente campa con 4.221 Euro al mese. Tanto risulta dalla dichiarazione dei redditi pubblicata lo scorso 2 ottobre sul BURAS (insieme a quelle degli altri amministratori regionali) e disponibile in questa pagina Web:
    http://www.sardegnaeliberta.it/docs/Soru.pdf
    Dal reddito imponibile di 82.407 Euro, una volta tolte le imposte, gli rimangono 54.878 Euro che, diviso 13, fanno appunto 4.221 Euro al mese.
    Un direttore di banca di paese guadagna d più!
    Penso che il Nostro avrà difficoltà a pagare l’affitto del bilocale di cui dispone dalle parti d Bonaria e della casettina dalle parti di Villasimius!
    Professor Pubusa, perchè non organizza una colletta per sostenere il Nostro benefattore ?!

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