Gianfranco Sabattini
Molti commentatori, ovviamente di parte, fra questi molti autorevoli personaggi che si considerano al di sopra delle querelle politiche, all’indomani del referendum del 4 dicembre scorso, col quale la maggioranza degli italiani ha risposto “No” alla riforma costituzionale pretesa da Renzi e dalla sua ministra Maria Elena Boschi, hanno interpretato il risultato finale in senso favorevole al “partito personale del capo del Governo”; questa interpretazione è stata fondata sulla considerazione del fatto che, avendo la riforma conseguito il “Si” del 40% degli aventi diritto dei partecipanti al voto, a conferma della politicizzazione e della personalizzazione della consultazione referendaria, il voto è stato considerato un “successo” personale di Renzi, senza minimamente considerare la natura composita del “blocco” del “Si”.
Per “smontare” questa tesi di parte, Terenzio Fava, docente di Scienza politica all’Università di Urbino, ha pubblicato su “Il Mulino” (2/2017) un articolo, dal titolo “Il voto al referendum costituzionale”, nel quale analizza, non solo la dimensione e la distribuzione territoriale del voto, ma anche le implicazioni politiche legate al referendum ed al suo esito. Negli ultimi quarant’anni – afferma Fava – “il tema della riforma costituzionale è sempre stato presente nel dibattito politico” e i tentativi di apportare modifiche alla Carta sono stati numerosi; in tre casi si è arrivati al referendum confermativo (2001, 2006 e 2016), solo in quello del 2001 la riforma ha trovato “legittimazione popolare”.
Nel 2001, il referendum riguardava una modifica costituzionale relativa al federalismo, voluta dal centro-sinistra, approvata in Parlamento alla fine della XIII legislatura, nella prospettiva di “catturare” il placet politico della Lega nelle imminenti elezioni politiche. Quando si è tenuta la consultazione referendaria, al governo vi era il centro-destra e la campagna si è svolta in un clima privo di eccessivi contrasti, forse perché il federalismo era un tema condiviso, e la riforma è stata approvata col sostegno prevalente degli elettori del centro-sinistra; infatti, la consultazione è stata caratterizzata da una diserzione in massa dalle urne da parte degli aventi diritto al voto.
Nel referendum del 2006, la riforma costituzionale aveva ad oggetto modifiche che rafforzavano i poteri dell’esecutivo e il riconoscimento di maggiori competenze alle regioni; la riforma era stata approvata dal Parlamento, con al potere le forze di centro-destra, mentre il referendum confermativo è stato celebrato con il ritorno del centro-sinistra al governo del Paese, con la vittoria del “No” deciso da un elettorato attivo di poco superiore alla metà degli aventi diritto.
Nel 2016, infine, il referendum è stato indetto per confermare una riforma costituzionale fortemente voluta dal presidente del Consiglio Matteo Renzi; la riforma, precedentemente approvata dal Parlamento, innovava molto significativamente la Costituzione repubblicana, con una revisione in senso centralistica delle regole disciplinanti i rapporti tra Stato e regioni. Nella fase di elaborazione, sino alla sua approvazione in Parlamento, la riforma ha “assunto – afferma Fava – “una valenza fortemente politica, con la trasformazione del referendum in un voto pro o contro il presidente del consiglio e il suo governo”. Al referendum si è giunti il 4 dicembre del 2016, dopo una lunga campagna “fortemente mediatizzata, polarizzata e dai toni contrastati e duri”; questi toni sono serviti a promuovere una mobilitazione elettorale non prevista ed il risultato è stato inaspettatamente radicale, “con una secca bocciatura delle riforma” Il “Si” si è fermato al 40% dei partecipanti al voto, cui hanno fatto seguito le dimissioni del presidente del Consiglio e del Governo. La mancata approvazione della riforma costituzionale è stata seguita da altre bocciature significative, tra le quali quella inferta dalla Corte costituzionale che, nel gennaio del 2017, ha dichiarato parzialmente incostituzionale la legge elettorale connessa alla riforma costituzionale bocciata dagli elettori.
Rispetto ai referendum del 2001 e 2006, quello del 2016 si è svolto all’interno di una realtà politica cambiata e, per la prima volta, è stato celebrato con un Governo e un Parlamento che sono stati gli stessi che hanno proposto e approvato la riforma; la diversità della realtà politica ha riguardato, a parere di Fava, “il clima politico, il sistema dei partiti e la logica di governo”.
Il clima era quello che si era instaurato dopo le elezioni politiche del 2013, i cui risultati hanno reso difficile la costituzione di una compagine governativa, con l’aggravante dell’”alone di illegittimità” gravante sulle istituzioni politiche per l’intervento della Corte costituzionale. Il sistema dei partiti era quello uscito dalle elezioni politiche del 2013, caratterizzato falla forte presenza dal Movimento 5 Stelle e dal multipolarismo, nel senso dim un’accentuata dispersione, delle forze politiche rispetto ai decenni precedenti.
Il governo era quello che, essendo nato dalla confluenza sulle posizioni del centro-sinistra, retto principalmente dal Partito democratico, di segmenti di forze politiche di destra, ha dovuto scontare critiche provenienti sia dalla sua destra, che dalla sua sinistra, diventando in tal modo il “punto di fuoco di tre opposizioni, lontane e poco conciliabili (la destra capitanata da Matteo Salvini e Giorgia Meloni, il M5S, e la sinistra ‘interna ed esterna al PD)”; la riforma costituzionale risulterà l’esito, in presenza di tutte queste opposizioni, della confluenza innaturale delle forze eterogenee che Renzi, in presenza delle difficoltà del sistema dei partiti ad esprimere possibili alleanze politicamente omogenee e durature, è riuscito a promuovere.
Ma l’opposizione che Renzi ha trovato in Parlamento ha avuto un ampio riscontro, sia nella grande partecipazione elettorale al referendum, sia nella dimensione e nella distribuzione elettorale del voto. Al referendum confermativo della riforma di Renzi vi è stata, infatti, una grande affluenza degli aventi diritto al voto, la cui consistenza ha reso la partecipazione referendaria simile a quella delle elezioni politiche del 2013. A parere di Fava, l’alta partecipazione è stata la conseguenza del fatto che il presidente del Governo ha politicizzato a tal punto la riforma, da renderla percepibile dall’elettorato come “passaggio” a un futuro non ben determinato e niente affatto liberato dalle conseguenze negative abbattutesi sul sistema sociale ed economico del Paese a seguito della Grande Recessione del 2007/2008; ciò ha incentivato la mobilitazione del fronte del “No”, espresse, sia da una parte dell’opinione pubblica, trasversale a tutte le forze politiche (che hanno percepito la riforma come un “attentato” alla natura democratica della Carta), sia in particolare dalle forze politiche rappresentate dal M5S e dalla Lega Nord (che sono riuscite a porsi come catalizzatrici del malcontento e della protesta sociali).
Nel referendum del 2016, gli elettori attivi sono stati quasi 32 milioni, pari al 68,5% degli aventi diritto al voto, con un’affluenza che si è assestata a meno di sette punti percentuali rispetto alle politiche del 2013, nelle quali l’affluenza era stata di poco superiore il 75% degli aventi titolo. A livello nazionale, il 40% degli elettori si è espresso per il “Si”, posizionandosi a meno di 20 punti percentuali dal “No”. Una vittoria, quella del “No”, senza “se” e senza “ma”; ma non per il Presidente del Consiglio sconfitto.
Infatti, poco dopo la sconfitta al referendum confermativo riguardo alla riforma costituzionale da lui fortemente “sponsorizzata”, Renzi – ricorda Fava - ha avuto modo di affermare davanti al suo partito che, in anni ravvicinati, “per due volte” è stato raggiunto il 40%: nel 2014, alle elezioni europee e, nel 2016, al referendum; nel primo caso, conseguendo una vittoria, nel secondo, una sconfitta. Un modo, questo – afferma Fava – “per rivendicare una forza che proprio alla luce del referendum […] 2016 dovrebbe essere ripesata”. Ciò perché, se il 40% dei voti espressi nel 2014 sono ascrivibili al PD, il 40% del “Si” referendario del 2016 è ascrivibile al “fronte” del “Si”, nel quale sono confluite anche altre forze di diverso orientamento rispetto al PD; è da ritenersi, perciò, del tutto improbabile che il 40% del “Si” referendario del 2016 possa rappresentare un possibile futuro elettorale del partito di Renzi.
In sostanza, il referendum del 4 dicembre del 2016 suggerisce alcune considerazioni pregnanti di significato, sia sul piano costituzionale, che su quello strettamente politico. Sul piano costituzionale, la bocciatura della riforma di Renzi rappresenta la vittoria di quanti hanno ritenuto prioritario l’impegno per salvaguardare l’integrità della Carta repubblicana e dei valori che la sottendono; sul piano strettamente politico, la stessa bocciatura rappresenta la sconfitta di un governo che non è stato in grado di allentare gli effetti della crisi nella quale si dibatte il Paese ormai da dieci anni, e che neanche è riuscito ad avviare un processo di riforma delle strutture interne del Paese che non fosse funzionale alla cura esclusiva degli interessi dei poteri forti nazionali ed europei.
A parte il risultato positivo realizzatosi con la grande mobilitazione politica che il referendum ha saputo suscitare, quello del “No” deve essere conclusivamente considerato la bocciatura di una riforma presentata come condizione essenziale per il “passaggio verso il futuro” del Paese, senza che di questo futuro fosse offerta un’immagine democraticamente condivisa dall’intera società civile italiana.
1 commento
1 Oggi lunedì 4 settembre 2017 | Aladin Pensiero
4 Settembre 2017 - 07:31
[…] Gianfranco Sabattini, su Democraziaoggi. ——————————— Oggi lunedì 4 settembre 2017 aladinews […]
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