I limiti del capitalismo contemporaneo

22 Agosto 2017
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Gianfranco Sabattini

 

 

Ripensare il capitalismo” è un volume collettivo, edito a cura Mariana Mazzucato e Michael Jacobs, i quali nel capitolo introduttivo spiegano le ragioni del perché l’attuale modo capitalistico di produrre andrebbe ripensato. A loro parere, tali ragioni sarebbero riconducibili, innanzitutto, al fatto che la Grande Recessione, scoppiata nel 2007/2008, avrebbe esposto il “capitalismo occidentale” al rischio di un crollo irreversibilmente e, in secondo luogo, al fatto, non meno importante del primo, che la maggioranza degli economisti non avrebbe capito che cosa in realtà sia successo; accuse,quelle della Mazzucato e di Jacobs, sostanzialmente condivisibili, sebbene meritino qualche precisazione sul piano della validità della teoria che sinora ha giustificato e spiegato il modo di funzionare delle economie capitalistiche.

Il libro, per esplicita affermazione della Mazzucato e di Jacobs, illustra le cause contingenti della crisi nella quale il capitalismo sarebbe incorso con l’inizio della Grande Recessione del 2007/2008; in connessione con questo evento, per i due economisti le “economie capitaliste del mondo sviluppato” si sono rivelate “profondamente disfunzionali”, e benché alcune di esse “siano riuscite a tornare a galla”, sia pure stentatamente e in modo instabile, le loro “prospettive di crescita” sono rimaste estremamente incerte. Tuttavia, i due curatori del libro tengono a precisare che la crisi non è scoppiata a “ciel sereno”, in quanto, già prima che essa si manifestasse in modo conclamato, il livello di benessere delle popolazioni dei Paesi industrializzati aveva preso a crescere stentatamente, le disuguaglianze distributive erano cresciute secondo ritmi che l’umanità riteneva d’essersi lasciati definitivamente alle spalle, mentre erano di molto peggiorare le pressioni ambientali, ponendo in pericolo il deterioramento della prosperità mondiale.

A seguito della perseveranza dei trend appena indicati, la capacità di comprendere il funzionamento dei sistemi economici moderni e di prevederne i possibili sbocchi futuri ha presentato, per i due curatori, notevoli deficit interpretativi di ciò che è poi accaduto alla fine del decennio scorso. La crisi, in particolare la sua componente finanziaria, – affermano i due curatori – “è stata uno shock così grande […], non solo perché pochissimi economisti sono riusciti a prevederla, ma anche perché, nel decennio precedente, tutti sembravano ormai convinti che il policymaking fosse riuscito, essenzialmente, a risolvere il problema di fondo del ciclo economico”, radicando nell’immaginario collettivo il convincimento che le “grandi depressioni” fossero entrate a fare parte dell’”archeologia” economica”. La “confusione” seguita al precipitare della crisi ha spinto gli economisti, soprattutto all’interno dell’Unione Europea, a ritenere la “ricetta ortodossa” del rigore di bilancio (taglio della spesa pubblica, per ridurre il deficit di bilancio corrente e con esso abbassamento del livello del debito pubblico) fosse stata di per sé sufficiente a rimettere in equilibrio le economie capitalistiche destabilizzate.

L’esperienza seguita alla recessione del 2007/2008 ha mostrato che quella “ricetta ortodossa del rigore di bilancio” non era più idonea ad assicurare terapie adeguate per rimuovere le cause dell’instabilità di funzionamento delle economie. Ciò perché, secondo la tesi contenuta nel libro curato dalla Mazzucato e da Jacobs, i deficit della teoria economica, e quelli degli interventi normativi ad essa collegati, hanno cessato di offrire una conoscenza realistica circa il funzionamento delle istituzioni capitalistiche, nonché principi validi ai fini della formulazione di politiche d’intervento adeguate per la rimozione degli esiti indesiderati dell’instabilità economica. Per fare fronte ai deficit conoscitivi e normativi nel campo economico, si impone perciò la necessità di “una visione molto più chiara di come funziona il capitalismo moderno”, al fine di affrontare efficacemente e con maggiori probabilità di successo la soluzione dei problemi posti dal verificarsi delle crisi economiche moderne.

Per capire dove si annidano le cause dei deficit teorici e normativi della scienza economica, a parere della Mazzucato e di Jacobs, occorre analizzare le cause del “crack finanziario” del 2007/2008; ciò perché tali cause permettono di “mettere a nudo” le debolezze di fondo che si annidano nella struttura dei mercati, in particolare di quelli finanziari. La crisi finanziaria, a parere dei due curatori del libro, avrebbe “portato alla luce una verità scomoda”; ovvero, avrebbe portato in evidenza che quello ortodosso della teoria economica non è più “un modello adeguato per comprendere il funzionamento del capitalismo; esso idealizza le sue istituzioni, per cui queste mancano di rappresentare molti degli aspetti fondamentali della realtà economica, considerandoli per lo più “come delle ‘imperfezioni’”, ovvero come elementi di disturbo, invece che come loro caratteristiche strutturali e sistemiche.

Le economie capitalistiche – affermano Mazzucato e Jacobs – “non sono astrazioni teoriche, ma sistemi complessi e dinamici, saldamente radicati in società specifiche oltre che in contesti ambientali governati da leggi biofisiche”. Ciò significa che, per comprendere come funzionano i moderni sistemi economici, occorre disporre di un approccio alla realtà economica “molto più ricco” di quello ortodosso; occorre, in altri termini, ripensare quest’ultimo modello, tenendo conto soprattutto di alcune “intuizioni fondamentali”.

Innanzitutto, bisogna acquisire una descrizione più realistica dei mercati e delle imprese; a tal fine, si impone una riconsiderazione del concetto di concorrenza, che tenga conto del fatto che alcuni mercati hanno una struttura oligopolistica, “caratterizzata da economie di scala ed ‘effetti a rete’ che portano alla concentrazione e favoriscono gli operatori gia presenti sul mercato”. In secondo luogo, bisogna tenere presente che la “forza trainante della crescita economica e dello sviluppo sono gli investimenti, sia pubblici che privati, nell’innovazione tecnologica e organizzativa”. Infine, occorre che sia definitivamente riconosciuto il ruolo positivo del settore pubblico, la cui funzione risulta insostituibile nel processo di “creazione di valore economico”, che va considerato un risultato collettivo.

Da quest’ultimo punto di vista, va soprattutto tenuto presente che le attività produttive non creano ricchezza senza fruire dei servizi sociali forniti dallo Stato, quali la formazione delle forza lavoro, i servizi sociali, la sicurezza, le infrastrutture, e tanto altro ancora. Tutto ciò concorre a chiarire quanto sia infondata l’affermazione, spesso ricorrente, secondo cui solo il settore privato creerebbe nuova ricchezza, mentre i servizi pubblici, finanziati dai contribuenti, ne causerebbero solo il consumo. Il Prodotto Interno Lordo (PIL) è infatti il risultato di una co-produzione derivante “dall’interazione di operatori pubblici e privati”, entrambi modellati – affermano Mazzucato e Jacobs – “da condizioni sociali e ambientali più ampie, che a loro volta contribuiscono a modellare”. Proprio perché la spesa dello Stato è fondamentale nel processo di co-produzione del PIL, le politiche di austerità che ne impongono il contenimento ed il “taglio” si sono rivelate fallimentari, nel tentativo di contenere gli esiti negativi della recente Grande Recessione; queste politiche, infatti, come dimostra il saggio “Il fallimento dell’austerità: ripensare le politiche di bilancio” di Stephanie Kelton (contenuto nel libro), non hanno sortito effetti positivi, in quanto sono risultate peggiori del male che avrebbero dovuto rimuovere; esse hanno concorso, ad esempio, come tutti hanno potuto constatare nel caso dell’Italia, a peggiorare, anziché a migliorare, il rapporto debito/PIL, considerato dai sostenitori della primazia degli operatori privati la causa prima della instabilità economica.

Riguardo al debito dello Stato, la Kelton ricorda che l’insegnamento ortodosso, ancora prevalente, della teoria economia assume il disavanzo pubblico come un “insieme composto di due fattori, S (la spesa pubblica) e T (gli introiti delle tasse), legati prevalentemente a scelte politiche discrezionali”. Inoltre, lo stesso insegnamento ortodosso, per via della natura discrezionale sia della spesa pubblica che delle tasse, induce a pensare che un eventuale indebitamento pubblico, causato da un disavanzo del bilancio dello Stato, valga a sottrarre risorse finanziarie ai privati; ciò in quanto il risparmio verrebbe così, com’è d’uso dire nella letteratura economica, “spiazzato” verso forme d’investimento meno redditizie di quelle che sarebbero scelte direttamente dai risparmiatori privati. In realtà, come viene sottolineato dalla Kelton, questa interpretazione va completamente capovolta, perché i disavanzi pubblici costituiscono un flusso di fondi che incrementa le attività finanziarie nette a disposizione degli operatori privati; i disavanzi pubblici, perciò, non sono altro che la “registrazione contabile” delle eccedenze finanziarie registrate nel settore privato. Pertanto, i disavanzi pubblici, approvvigionando di disponibilità finanziarie gli operatori privati, consentono agli stessi operatori di poter affrontare meglio le eventuali situazioni di crisi.

Ciò è quanto è accaduto, dopo lo scoppio della Grande Recessione, all’interno di quei Paesi il cui settore pubblico, rifornendo il settore privato in crisi delle risorse finanziare di cui necessitava, gli ha consentito di tornare alla sua consueta condizione di equilibrio finanziario, “arrestando lo smottamento delle produzione e dell’occupazione”. Il contrario è accaduto all’interno di quei Paesi che, come l’Italia, hanno scelto la via dell’austerità, giustificandola con la tesi infondata secondo la quale i disavanzi pubblici gravano psicologicamente sugli operatori del settore privato sino ad indurli a reagire contro la prodigalità dello Stato risparmiando di più, cioè investendo meno, “in previsione di un inevitabile aumento futuro dell’onere fiscale”.

Tra l’altro, i disavanzi pubblici maturati a seguito dell’attuazione di politiche monetarie d’ispirazione keynesiana affievoliscono i difetti più evidenti del capitalismo, consentendo il conseguimento di livelli occupativi e di condizioni distributive della ricchezza e del reddito che rendono possibile il suo stabile funzionamento. Le politiche economiche d’ispirazione keynesiana hanno permesso, quando sono state attuate, di migliorare la condizione umana, in quanto i loro contenuti venivano determinati “in relazione agli esiti sociali ed economici” desiderati e non sulla base di “miopi considerazioni contabili”, così come il severo ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble ha solitamente sempre preteso facessero durante gli anni più difficili della Grande Depressione i Paesi membri dell’Unione Europea.

Per correggere le disfunzioni del capitalismo, i responsabili della formulazione delle politiche economiche,non dovrebbero, perciò, “mai puntare – afferma la Kelton – a un risultato contabile specifico, perché il bilancio non è un fine in sé”; esso deve essere usato come uno strumento “per realizzare obiettivi generali mirati ad innalzare il tenore di vita e favorire una distribuzione più equa del reddito”; in altre parole, ciò cui le politiche pubbliche dovrebbero essere sempre orientate non è il perseguimento dell’equilibrio del bilancio pubblico, ma l’equilibrio delle economie dei singoli sistemi sociali.

Tornando alla tesi che occorre ripensare il capitalismo sulla base delle considerazioni richiamate, Mazzucato e Jacobs sostengono che la teoria economica dovrebbe essere integrata in modo da poterla utilizzare, non per giustificare le politiche economiche finalizzate a correggere i cosiddetti fallimenti di mercato, ma per giustificare soprattutto la natura collettiva del processo di produzione del PIL, nonché l’equa distribuzione del suo valore economico.

Il capitalismo occidentale, concludono i due curatori del libro, negli ultimi decenni non sta funzionando bene, perché le politiche economiche, ispirate ad un pensiero economico ortodosso carente sul piano esplicativo, si sono rivelate inidonee a conservarlo in condizioni di funzionamento stabile; per arrivare alla stabilità, sarà necessario “modificare alla radice” la spiegazione del come “funziona il capitalismo”, per derivare dal nuovo pensiero economico politiche pubbliche in grado di “contribuire a creare e modellare un futuro economico diverso”.

Sul piano dei deficit esplicativi della teoria economica, va tenuto presente che alla insufficiente comprensione del modo di funzionare del capitalismo non è estranea l’assiomatizzazione della teoria economica tradizionale; questa è stata realizzata per spiegare e valutare i fatti economici dal punto di vista esclusivamente privatistico, sulla base dell’assunto che, quando la valutazione di un fatto economico fosse stata “positiva” per un singolo componente del sistema sociale, lo fosse anche per tutti gli altri; mentre il settore pubblico è sempre stato considerato una presenza incomoda, per cui si è radicato nel tempo il convincimento che lo Stato avrebbe governato bene, solo quando avesse governato poco.

A quanto precede, va anche aggiunto che, nel suo sviluppo, la teoria economica tradizionale ha privilegiato il momento del rigore analitico, al prezzo della scomparsa della sua dipendenza dalla storia e della sua estraniazione da tutti quegli elementi storici che il suo progredire logico-formale ha trasformato progressivamente in “dati”.

In tal modo, il sempre più frequente uso acritico dei paradigmi della teoria economica tradizionale ha portato i microeconomisti ad essere esposti al pericolo, indicato da Karl Raimund Popper, di perdere ogni credibilità professionale, in quanto vittime della peggiore ideologia che porta a ritenere che una valutazione astratta delle cose sia anche concreta. La professione non disinteressata di questa ideologia è forse la causa prima delle disfunzioni del capitalismo moderno.

 

 

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