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Per chi va per mare a P. Pino o a Teulada e dintorni certo non possono passare inosservate le parole di Gian Piero Scanu, a margine della relazione della Commissione Uranio. Scanu pone “il Poligono di Capo Teulada, la cosiddetta ‘penisola interdetta” “tra le zone dei poligoni di tiro che presentano le maggiori criticità”. “Non escludo, per quello che noi abbiamo potuto vedere, che la cosiddetta ‘penisola interdetta’ possa essere tra poco definita come la sede in cui è stato perpetrato un vero e proprio disastro ambientale”. Parole di verità, pesanti, terribili.
“Questa penisola - aggiunge Scanu - da più di 50 anni viene regolarmente bombardata e, stando ai tempi attualmente impiegati, ci vorrebbero 500 anni per bonificarla. La cosa atroce è che, a fronte del riconoscimento di questa situazione vergognosa, si continua a sparare” con il rischio che si arrivi al punto in cui “l’intera orografia venga modificata”. Cose vergognose che non dovrebbero accadere ed è per questo che è stata voluta la Commissione d’inchiesta ed è per questo sono state presentate due proposte di legge. Il problema - conclude Scanu - è che una di queste due proposte giace da un anno. E’ evidente che non c’è la volontà di mandarla avanti”.
Le proposte prevedono controlli, bonifiche e prevenzione. Un piano di monitoraggio del territorio del poligono e della fascia esterna interessata dalle esercitazioni; l’obbligo, per ciascun comando, di predisporre un documento di monitoraggio ambientale; l’approvazione del piano, da parte della Regione e dei comuni interessati, previo parere dell’Arpa; l’istituzione, nelle regioni in cui sono presenti i poligoni, di un Osservatorio Ambientale Regionale. E’ quanto prevede la proposta di legge sull’ambiente elaborata dalla Commissione Uranio, illustrata nei giorni scorsi alla Camera in occasione della presentazione della relazione della Commissione, insieme con la proposta di legge 3925 che è invece in discussione ma ferma da oltre un anno in Parlamento.
Ad essere affrontato, nelle due proposte, è il delicato tema dell’esposizione, negli ambienti di lavoro delle forze armate, a fattori chimici, tossici e radiologici con particolare attenzione agli effetti dell’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito, e della dispersione nell’ambiente di nanoparticelle di minerali pesanti prodotte dalle esplosioni.
E purtroppo, spiega Gian Piero Scanu, “fanno spicco svariati poligoni di tiro presenti sul territorio nazionale nei quali la mancata o tardiva bonifica dei residui munizionamenti ha prodotto rischi ambientali”. Esempi “memorabili”? “Il poligono di Capo Teulada, il poligono di Monte Romano e quello di Cellina Meduna. Rischi che sono connessi a fumi, polveri, nanopolveri, contenenti tra l’altro metalli pesanti, che si associano a radiazioni ionizzanti e non, per i quali la normativa attuale risulta essere inadeguata, come emerso dalla relazione odierna. Da qui la necessità di una proposta di legge “che mira a considerare i poligoni, le aree, le dotazioni e le riserve militari alla stessa stregua del resto del territorio nazionale” in un’ottica di previsione dell’impatto ambientale e di bonifica. Non si può ferire ad libitum un territorio - aggiunge Scanu - e far poi passare 50 anni senza curarsi di raccogliere i bossoli ed eliminare evidenti tracce di inquinamento, laddove vanno magari anche le persone a trascorrere le serate quando non si spara”. La colpa però, sottolinea Scanu, “non è del sistema militare ma della politica che, per miopia, ha voluto rinunciare a svolgere il proprio ruolo e funzione”.
In questo contesto non aiuta neanche la Corte costituzionale che, con una sentenza del 1° giugno 2016, n. 126, su ordinanza del Tribunale penale di Lanusei, che sta giudicando i responabili militari del disastro di Quirra, nega la legittimazione a costituirsi parte civile alla Regione sarda. E - si badi - la Regione non può intervenire in giudizio neanche nel caso in cui lo Stato non lo faccia perché gli imputato sono “servitori” dello Stato medesimo, difesi dall’Avvocatura dello Stato.
La Corte ricorre a una serie di artifizi dialettici, apparentemente logici e corretti, per giungere alla conclusione abnorme che in quei processi nessun ente territoriale può costituirsi parte civile.
La Consulta parte dalla “scelta di attribuire all’amministrazione statale le funzioni amministrative in materia ambientale allo Stato” per “l’esigenza di assicurare che l’esercizio dei compiti di prevenzione e riparazione del danno ambientale risponda a criteri di uniformità e unitarietà, atteso che il livello di tutela ambientale non può variare da zona a zona e considerato anche il carattere diffusivo e transfrontaliero dei problemi ecologici, in ragione del quale gli effetti del danno ambientale sono difficilmente circoscrivibili entro un preciso e limitato ambito territoriale».
In effetti, - prosegue la Corte - una volta messo al centro del sistema il ripristino ambientale, emerge con forza l’esigenza di una gestione unitaria: un intervento di risanamento frazionato e diversificato, su base “micro territoriale”, oltre ad essere incompatibile sul piano teorico con la natura stessa della qualificazione della situazione soggettiva in termini di potere (funzionale), contrasterebbe con l’esigenza di una tutela sistemica del bene; tutela che, al contrario, richiede sempre più una visione e strategie sovranazionali, come posto in evidenza, oltre che dalla disciplina comunitaria, dall’ultima Conferenza internazionale sul clima tenutasi a Parigi nel 2015, secondo quanto previsto dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.
È in questo contesto normativo e giurisprudenziale - prosegue la Corte - che si inserisce la nuova disciplina del potere di agire in via risarcitoria (d.lgs. n. 152 del 2006), che ha riservato allo Stato, ed in particolare al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, il potere di agire, anche esercitando l’azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale (art. 311), e ha mantenuto solo «il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi» (art. 313, comma 7, secondo periodo).
E se lo Stato è, nella persona dei suoi militari, sul banco degli imputati? Come può l’Avvocatura difendere gli imputati e al tempo stesso costituirsi parte civile contro di essi? Sembrerebbe, logico in questo caso ammettere che la Regione o i Comuni interessati possano costituirsi parte civile.
Qui la Corte individua come criterio risolutore l’attribuzione del ripristino, che spetta allo Stato. Sarebbe “la responsabilità del risanamento, la disponibilità delle risorse necessarie, risorse che hanno appunto questa specifica ed esclusiva destinazione”, a determinare l’esclusione della Regione anche dal processo.
Ad occhio sembrerebbe più logico il contrario. Ma la Corte svincola, dicendo che, ai sensi dell’art. 311 del d.lgs. n. 152 del 2006, sussiste il potere di agire di altri soggetti, comprese le istituzioni rappresentative di comunità locali, per i danni specifici da essi subiti. Insomma, questi possono agire a parte se hanno subito danni specifici, ad esempio al proprio patrimonio, ma non mettano becco sul danno ambientale prodotto dallo Stato tramite i propri militari o funzionari! Con buona pace della tutela delle comunità regionali e della garanzia giurisdizionale, costituzionalmente estesa a tutti.
Corte costituzionale Sentenza 1° giugno 2016, n. 126
[…] nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 311, comma 1, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), promosso dal Tribunale ordinario di Lanusei nel procedimento penale a carico di M.F. ed altri con ordinanza del 13 febbraio 2015, iscritta al n. 107 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visti gli atti di costituzione di M.F., di R.P. ed altri, del Comune di Ballao, del Comune di Escalaplano e della Regione autonoma Sardegna, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 19 aprile 2016 il Giudice relatore Giancarlo Coraggio;
uditi gli avvocati Leonardo Filippi e Alfredo Gaito per M.F., Riccardo Caboni per il Comune di Ballao e per il Comune di Escalaplano, Alessandra Camba per la Regione autonoma Sardegna e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per R.P. ed altri (ex art. 44 del regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611) e per il Presidente del Consiglio dei ministri.
RITENUTO IN FATTO
1.- Il Tribunale ordinario di Lanusei nel procedimento penale promosso a carico di M.F. ed altri, per il reato di cui all’art. 437, commi 1 e 2, del codice penale, con ordinanza del 13 febbraio 2015, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 311, comma 1, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), nella parte in cui attribuisce al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, e per esso allo Stato, la legittimazione all’esercizio dell’azione per il risarcimento del danno ambientale, escludendo la legittimazione concorrente o sostitutiva della Regione e degli enti locali sul cui territorio si è verificato il danno, in riferimento agli artt. 2, 3, 9, 24 e 32 della Costituzione, nonché al principio di ragionevolezza.
2.- Premette il rimettente che con decreto 11 luglio 2014 il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Lanusei aveva rinviato a giudizio i comandanti militari del Poligono Interforze Salto di Quirra e del suo distaccamento a mare di Capo S. Lorenzo, succedutisi nei rispettivi comandi dal marzo 2001 al 2012, imputando loro il reato di cui all’art. 437, commi 1 e 2, cod. pen.
3.- Agli imputati era stato contestato di aver omesso l’adozione di precauzioni e cautele nell’esercizio delle attività militari, tra cui anche la collocazione di segnali di pericolo di esposizione di uomini ed animali a sostanze tossiche e radioattive presenti nelle aree ad alta intensità militare, cagionando così un persistente e grave disastro ambientale con enorme pericolo chimico e radioattivo per la salute del personale civile e militare del Poligono, dei cittadini dei centri abitati circostanti, dei pastori insediati in quel territorio e dei loro animali da allevamento.
Tra le persone offese indicate nel decreto di rinvio a giudizio figuravano lo Stato, la Regione autonoma Sardegna, le Province di Cagliari e d’Ogliastra, nonché i Comuni il cui territorio era stato esposto alle sostanze contaminanti.
4.- Nel corso dell’udienza preliminare e nella prima udienza dibattimentale, si costituivano o avevano fatto richiesta di costituzione di parte civile per il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale la Regione autonoma Sardegna, la Provincia di Cagliari ed alcuni Comuni, nonché numerose persone, tra cittadini, personale militare, allevatori e loro familiari, che avevano lamentato danni patrimoniali alla salute, da esposizione a sostanze nocive e da perdita parentale.
Tutti questi soggetti avevano chiesto anche la chiamata in causa, quale responsabile civile dei danni asseritamente patiti, lo Stato italiano, il quale si costituiva in persona del Presidente del Consiglio dei ministri.
Con istanza depositata all’udienza del 29 ottobre 2014, la Regione autonoma Sardegna, quale ente sul cui territorio si era prodotto il danno descritto nel capo di imputazione, aveva chiesto, altresì, di costituirsi parte civile per il risarcimento del danno ambientale, previa dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 311, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006.
Il Ministero dell’ambiente non si è costituito parte civile per chiedere il risarcimento del danno ambientale.
5.- Il rimettente ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata dalla Regione autonoma Sardegna.
Premette che non determina irrilevanza della questione la circostanza che la Regione si sia già costituita parte civile per il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale iure proprio, che costituisce domanda diversa rispetto a quella di risarcimento del danno ambientale.
Rileva, quindi, che la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità ha interpretato il citato art. 311, comma 1, del codice dell’ambiente, nel senso che lo stesso attribuisce la legittimazione a costituirsi parte civile per il risarcimento del danno ambientale solo allo Stato; tuttavia, una diversa interpretazione sarebbe possibile in ragione di quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 235 del 2009, secondo la quale l’art. 311, comma 1, del d.lgs. n. 156 del 2006, pur non riconoscendo espressamente la legittimazione ad agire delle Regioni, «neppure la esclude in modo esplicito».
Al contrario, in base a quanto previsto dall’art. 313, comma 7, del codice dell’ambiente, la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali spetta non solo al Ministero ma anche all’ente pubblico territoriale e ai soggetti privati che per effetto della condotta illecita abbiano subito un danno risarcibile ai sensi dell’art. 2043 del codice civile, diverso da quello ambientale.
La giurisprudenza di legittimità ha affermato che non sussiste alcuna antinomia reale fra la norma generale di cui all’art. 2043 cod. civ. (che attribuisce a tutti il diritto di ottenere il risarcimento del danno per la lesione di un diritto) e la norma speciale di cui all’art. 311, comma l, del d.lgs. n. 152 del 2006 (che riserva esclusivamente allo Stato la legittimazione ad agire per il risarcimento del danno da lesione all’ambiente, inteso come diritto pubblico generale a fondamento costituzionale). E difatti, come sempre accade nei rapporti tra norma generale e norma speciale, l’entrata in vigore di quest’ultima ha determinato che la precedente norma generale deve essere ora interpretata nel senso che l’estensione della norma generale stessa si è ristretta, perché il proprio ambito di applicazione non comprende più la fattispecie ora disciplinata dalla norma speciale.
Il ricorrente richiama, quindi, la sentenza della Corte costituzionale n. 641 del 1987, secondo la quale: l’ambiente «non è certamente possibile oggetto di una situazione soggettiva di tipo appropriativo: ma, appartenendo alla categoria dei c.d. beni liberi, è fruibile dalla collettività e dai singoli», ed è valore primario ed assoluto, che in quanto tale (sentenza n. 85 del 2013) non può essere sacrificato ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati.
6.- Tanto premesso, il Tribunale deduce il contrasto della disposizione impugnata, in particolare, con gli artt. 3, 9, 24 e 32 Cost.
Il codice dell’ambiente procede su un doppio binario. Da un lato, in un ambito amministrativo, gli artt. 304, 305 e 306 del d.lgs. n. 152 del 2006 prevedono l’azione di prevenzione e ripristino ambientale e il potere di adottare l’ordinanza di cui agli artt. 312 e 313 del medesimo d.lgs., mentre su un secondo binario, giurisdizionale, opera la legittimazione ad agire per il risarcimento del danno. Detta alternatività trova conferma nell’art. 315 del medesimo codice, che stabilisce l’improseguibilità dell’azione giudiziaria in caso di adozione dell’ordinanza ministeriale di cui al citato art. 313.
L’accentramento delle funzioni amministrative in capo allo Stato è stata ritenuta conforme a Costituzione con la sentenza n. 235 del 2009. Tuttavia, ad avviso del rimettente, ciò non rileverebbe in relazione all’accentramento della legittimazione ad agire per il risarcimento del danno ambientale a proposito del quale tale sentenza ha affermato che «la legittimazione ad agire in sede giurisdizionale, da un lato, non costituisce una funzione amministrativa e, dall’altro lato, non risponde alla logica del riparto, dal momento che il riconoscimento della legittimazione dello Stato non esclude quella delle Regioni, e viceversa».
Né possono trovare applicazione i principi che regolano il riparto della potestà legislativa tra Stato e Regioni.
La disciplina della legittimazione ad agire per il risarcimento del danno ambientale non può essere giustificata dall’esigenza di unitarietà ed omogeneità messa in luce per assolvere l’accentramento statale della funzione amministrativa, oppure dall’esigenza di evitare l’aggressione processuale dell’imputato o il difficile governo del processo per il numero di parti costituite, poiché si impedisce al titolare di agire per la tutela di un proprio diritto che è primario ed assoluto.
La norma impugnata ha, quindi, determinato il passaggio da un sistema di tutela diffuso ad un sistema di tutela esclusivo, senza possibilità intermedie.
Peraltro, nella vigenza dell’art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349 (Istituzione del Ministero dell’ambiente e norme in materia di danno ambientale) la legittimazione degli enti minori non era fondata sulla lesione di un loro bene economico, ma sulla loro funzione a tutela della collettività e delle comunità del proprio ambito territoriale e degli interessi all’equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio che ad essi fanno capo.
La legittimazione ad agire in capo ad un solo soggetto non è in grado di garantire un sufficiente livello di tutela della collettività e delle comunità, determinando l’irragionevole sacrificio di un aspetto ineludibile nel sistema di tutela.
6.1.- Con specifico riguardo alla violazione dell’art. 3 Cost., il rimettente afferma che la disciplina in questione non tiene conto che la Regione e gli enti territoriali sono soggetti esponenziali della collettività che opera nel territorio leso, e che il territorio è parte costitutiva della soggettività degli stessi. Dunque, la privazione della possibilità di agire in giudizio dà luogo a disparità di trattamento tra soggetti portatori di una identica posizione giuridica.
6.2.- Sussisterebbe anche la lesione dell’art. 2 Cost., in quanto la deroga alla disciplina generale della responsabilità civile determina un trattamento deteriore del diritto ad un ambiente salubre, diritto primario ed assoluto rientrante tra i diritti inviolabili dell’uomo, rispetto ai restanti diritti costituzionali di pari valore, i quali, con riguardo alla sfera di tutela della responsabilità civile, non subiscono alcuna limitazione nella titolarità della legittimazione ad agire.
Il diritto all’ambiente, in un suo aspetto fondamentale che ne indica il grado di protezione che l’ordinamento gli appresta, ovvero la tutela giurisdizionale, viene discriminato rispetto agli altri diritti primari e assoluti, in assenza di apprezzabile ragione giustificatrice.
6.3.- Anche l’art. 24 Cost. è violato atteso che si impedisce ad un soggetto, portatore di un interesse concretamente leso dall’azione illecita, di reagire per la sua tutela in via giurisdizionale.
6.4.- Sussisterebbe, altresì, la lesione degli artt. 2, 9 e 32 Cost., parametri che tutelano il diritto alla salute e al paesaggio, quali espressione diretta del bene ambiente salubre, diritto primario ed assoluto, e per questo inviolabile.
La disciplina introdotta dall’art. 311, comma 1, del codice dell’ambiente, nel limitare la legittimazione ad agire rispetto a quella che discenderebbe dall’applicazione dei principi generali in materia di illecito, finirebbe per ledere lo stesso diritto all’ambiente, alla salubrità e all’integrità del paesaggio.
La violazione apparirebbero ancora più evidente in ragione della irragionevolezza della norma, laddove si consideri che i soggetti, che quest’ultima esclude dalla legittimazione ad agire, sono quelli più vicini agli interessi concretamente lesi dal danno.
La limitazione della legittimazione ad agire costituisce un arretramento della tutela giurisdizionale del diritto all’ambiente salubre, in quanto depotenzia il ruolo degli enti territoriali e delle comunità locali.
6.5.- Infine rileva il rimettente che la decisione dello Stato di chiedere o meno la condanna al risarcimento del danno, essendo lo stesso attore e convenuto, potrebbe essere frutto di valutazioni di mera opportunità e non di un apprezzabile e sincero bilanciamento dei valori primari in gioco.
7.- Si è costituito M.F., imputato nel processo penale in cui è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale, con atto depositato nella cancelleria di questa Corte il 26 giugno 2015, deducendo l’inammissibilità ed infondatezza della stessa.
Assume la parte privata che non sussiste il contrasto con i parametri costituzionali invocati dal rimettente, atteso che la direttiva comunitaria 21 aprile 2004, n. 2004/35/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale) ha distinto il danno ambientale dagli altri tipi di danno. Lo stesso attiene ad un bene immateriale unitario e la titolarità dell’azione risarcitoria va inserita nella materia ambientale riservata alla competenza esclusiva dello Stato.
7.1.- Si è costituito il Comune di Ballao, già parte civile iure proprio nel procedimento penale, con atto depositato il 26 giugno 2015, prospettando l’illegittimità costituzionale della norma impugnata, in riferimento ai medesimi parametri dell’ordinanza di rimessione.
Il Comune formula argomentazioni analoghe a quelle del rimettente e ricorda che una particolare tutela costituzionale agli enti locali si rinviene negli artt. 43 e 44 dello statuto della Regione autonoma Sardegna, che evidenzia come Regione ed enti locali siano logici titolari della difesa dei relativi elementi costitutivi, fra i quali rientra evidentemente l’ambiente, se inciso nella sua integrità e salubrità.
Infine, rileva che il principio “chi inquina paga” (art. 3 del d.lgs. n. 152 del 2006), implica che l’autore del danno ambientale sia sempre perseguibile per il risarcimento.
7.2.- Anche il Comune di Escalaplano, anch’esso parte civile iure proprio nel procedimento penale, si è costituito con atto depositato il 26 giugno 2015, prospettando argomentazioni analoghe a quelle formulate del Comune di Ballao.
7.3.- Si è costituita, con atto depositato il 30 giugno 2015, giusta delibera della Giunta regionale del 23 giugno 2015, la Regione autonoma Sardegna chiedendo che la questione di legittimità costituzionale venga accolta, prospettando argomentazioni analoghe a quelle esposte nell’ordinanza di rimessione.
Deduce, altresì, come accennato anche dal rimettente, che nel caso concreto verificatosi nel processo penale a quo, lo Stato è l’unico soggetto legittimato ad agire in via giurisdizionale per il risarcimento del danno ambientale e, al contempo, responsabile civile, e quindi si troverebbe ad assumere la veste di responsabile civile e di destinatario del risarcimento.
7.4.- Si sono costituiti R.P. ed altri, imputati nel procedimento penale a quo, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, ex art. 44 del regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611 (Approvazione del T.U. delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato), chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
Espongono, in particolare, che la norma in questione non pregiudica il diritto all’esercizio dell’azione risarcitoria iure proprio da parte dell’ente territoriale interessato, in ragione di quanto previsto dall’art. 313, comma 7, del d.lgs. n. 152 del 2006.
7.5.- È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il 30 giugno 2015.
La difesa dello Stato ha svolto argomentazioni difensive e conclusioni analoghe a quelle prospettate da R.P. ed altri.
8.- Il Comune di Ballao e il Comune di Escalaplano hanno depositato memorie, di analogo contenuto, in data 22 marzo 2016, con le quali hanno ribadito le difese e le conclusioni svolte.
9.- Anche M.F. ha depositato memoria il 24 marzo 2016, con la quale ha ricordato la possibilità per gli enti locali di agire iure proprio per il risarcimento del danno.
Osserva che la norma in questione tiene conto dell’esigenza di proteggere l’ambiente come realtà a sé stante, unitariamente, e a prescindere dal valore patrimoniale delle singole componenti.
10.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, nonché R.P. ed altri, hanno depositato memorie, di analogo contenuto, il 29 marzo 2016.
In particolare deducono che la scelta dello Stato di non esercitare l’azione civile nel processo a quo è suscettibile di essere superata laddove, all’esito del procedimento penale, emergesse la responsabilità penale degli imputati, nel qual caso non sarebbe preclusa allo Stato la possibilità di attivare in sede giurisdizionale o amministrativa la tutela risarcitoria ambientale ricollegabile alla condotta degli imputati.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.- In via preliminare, va osservato che R.P. ed altri e M.F., nonché i Comuni di Ballao ed Escalaplano e la Regione autonoma Sardegna, che sono intervenuti nel presente giudizio incidentale, sono parti, in quanto, i primi, imputati e gli enti locali, parti civili (iure proprio), nel giudizio a quo. Pertanto gli interventi sono ammissibili.
2.- La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal Tribunale ordinario di Lanusei nel procedimento penale promosso a carico di M.F. ed altri, per il reato di cui all’art. 437, commi 1 e 2, del codice penale, con ordinanza del 13 febbraio 2015.
Il rimettente sospetta di illegittimità costituzionale l’art. 311, comma 1, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), nella parte in cui attribuisce al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, e per esso allo Stato, la legittimazione all’esercizio dell’azione per il risarcimento del danno ambientale, escludendo la legittimazione concorrente o sostitutiva della Regione e degli enti locali sul cui territorio si è verificato il danno.
3.- Premette il rimettente che con decreto 11 luglio 2014 il giudice per l’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Lanusei aveva rinviato a giudizio i comandanti militari del Poligono Interforze Salto di Quirra e del suo distaccamento a mare di Capo S. Lorenzo, succedutisi nei rispettivi comandi dal marzo 2001 al 2012, imputando loro il reato di cui all’art. 437, commi 1 e 2, cod. pen.
Agli imputati era stato contestato di aver omesso l’adozione di precauzioni e cautele nell’esercizio delle attività militari, tra cui anche la collocazione di segnali di pericolo di esposizione di uomini ed animali a sostanze tossiche e radioattive presenti nelle aree ad alta intensità militare, cagionando così un persistente e grave disastro ambientale con enorme pericolo chimico e radioattivo per la salute del personale civile e militare del Poligono, dei cittadini dei centri abitati circostanti, dei pastori insediati in quel territorio e dei loro animali da allevamento.
Ad avviso del rimettente, quindi, sussiste la rilevanza della questione, dovendosi fare applicazione della norma impugnata, con riguardo alla richiesta della Regione autonoma Sardegna di potersi costituire parte civile nel processo penale per il risarcimento del danno ambientale.
4.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo prospetta (in riferimento agli artt. 3, 9, 24 e 32 della Costituzione) che l’accentramento della legittimazione ad agire in capo ad un solo soggetto non garantirebbe un sufficiente livello di tutela della collettività e della comunità, nonché degli interessi all’equilibrio economico, biologico e sociologico del territorio, comportando l’irragionevole sacrificio di un aspetto ineludibile nel sistema di tutela. Inoltre (art. 3 Cost., principio di ragionevolezza) l’esclusione della possibilità di agire in giudizio per la Regione e per egli enti territoriali, soggetti esponenziali della collettività che opera nel territorio leso che è parte costitutiva della soggettività degli stessi, rispetto allo Stato, darebbe luogo a disparità di trattamento tra soggetti portatori di identica posizione giuridica. Infine il giudice a quo deduce (art. 2 Cost.) che la deroga alla disciplina generale della responsabilità civile determina un trattamento deteriore del diritto ad un ambiente salubre - diritto primario ed assoluto, rientrante tra i diritti inviolabili dell’uomo di cui al citato parametro costituzionale - rispetto ai restanti diritti costituzionali di pari valore, i quali, con riguardo alla sfera di tutela della responsabilità civile, non subiscono alcuna limitazione nella titolarità della legittimazione ad agire.
5.- Le questioni sollevate vanno inquadrate nel contesto della disciplina del danno ambientale.
5.1.- È noto che, sebbene il testo originario della Costituzione non contenesse l’espressione ambiente, né disposizioni finalizzate a proteggere l’ecosistema, questa Corte con numerose sentenze aveva riconosciuto (sentenza n. 247 del 1974) la «preminente rilevanza accordata nella Costituzione alla salvaguardia della salute dell’uomo (art. 32) e alla protezione dell’ambiente in cui questi vive (art. 9, secondo comma)», quali valori costituzionali primari (sentenza n. 210 del 1987). E la giurisprudenza successiva aveva poi superato la ricostruzione in termini solo finalistici, affermando (sentenza n. 641 del 1987) che l’ambiente costituiva «un bene immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutela; ma tutte, nell’insieme, sono riconducibili ad unità. Il fatto che l’ambiente possa essere fruibile in varie forme e differenti modi, così come possa essere oggetto di varie norme che assicurano la tutela dei vari profili in cui si estrinseca, non fa venir meno e non intacca la sua natura e la sua sostanza di bene unitario che l’ordinamento prende in considerazione».
Il riconoscimento dell’esistenza di un «bene immateriale unitario» non è fine a se stesso, ma funzionale all’affermazione della esigenza sempre più avvertita della uniformità della tutela, uniformità che solo lo Stato può garantire, senza peraltro escludere che anche altre istituzioni potessero e dovessero farsi carico degli indubbi interessi delle comunità che direttamente fruiscono del bene.
5.2.- L’espressa individuazione, a seguito della riforma del Titolo V, e della materia «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema», all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., quale competenza esclusiva dello Stato, fotografa, dunque, una realtà già riconosciuta dalla giurisprudenza come desumibile dal complesso dei valori e dei principi costituzionali.
Essa si accompagna al riconoscimento, nel successivo terzo comma dell’art. 117 Cost., della rilevanza dei numerosi e diversificati interessi che fanno capo alle Regioni e quindi ai relativi enti territoriali.
Ne risulta così confermato il punto fermo del sistema elaborato dalla giurisprudenza circa la pluralità dei profili soggettivi del bene ambientale (sentenza n. 378 del 2007).
6.- La prima disciplina organica della materia (la legge 8 luglio 1986, n. 349 “Istituzione del Ministero dell’ambiente e norme in materia di danno ambientale”) rispecchiava tale pluralità, prevedendo (art. 18, comma 3) che l’azione di risarcimento del danno ambientale potesse essere promossa «dallo Stato, nonché dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo».
Ciò era coerente con una visione al cui centro era l’introduzione di una peculiare responsabilità di tipo extracontrattuale connessa a fatti, dolosi o colposi, cagionanti un danno ingiusto all’ambiente: in questa prospettiva civilistica non era illogico collegare l’azione ad ogni interesse giuridicamente rilevante.
7.- Il quadro normativo è tuttavia profondamente mutato con la direttiva 21 aprile 2004, n. 2004/35/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale) che, nel recare la disciplina del danno ambientale in termini generali e di principio, afferma che la prevenzione e la riparazione di tale danno nella misura del possibile «[contribuiscono] a realizzare gli obiettivi ed i principi della politica ambientale comunitaria, stabiliti nel trattato»; tenendo fermo, peraltro, il principio «chi inquina paga», pure stabilito nel Trattato istitutivo della Comunità europea (n. 1 e n. 2 del “considerando”).
In particolare, nell’Allegato II della direttiva, che attiene alla «Riparazione del danno ambientale», si pone in luce come tale riparazione è conseguita riportando l’ambiente danneggiato alle condizioni originarie tramite misure di riparazione primaria, che sono costituite da «qualsiasi misura di riparazione che riporta le risorse e/o i servizi naturali danneggiati alle o verso le condizioni originarie». Solo qualora la riparazione primaria non dia luogo a un ritorno dell’ambiente alle condizioni originarie, si intraprenderà la riparazione complementare e quella compensativa.
7.1.- Il cambiamento di prospettiva, con la conseguente collocazione del profilo risarcitorio in una posizione accessoria rispetto alla riparazione, è stato fatto proprio dal legislatore, che in sede di attuazione della direttiva, con il d.lgs. n. 152 del 2006, ha statuito la priorità delle misure di “riparazione” rispetto al risarcimento per equivalente pecuniario, quale conseguenza dell’assoluta peculiarità del danno al bene o risorsa “ambiente”.
Poi, con l’art. 5-bis del decreto-legge n. 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 20 novembre 2009, n. 166, - per rispondere a una procedura di infrazione della UE - si è precisato che il danno all’ambiente deve essere risarcito con le misure di riparazione «primaria», «complementare» e «compensativa» contenute nella direttiva n. 2004/35/CE; prevedendo un eventuale risarcimento per equivalente pecuniario esclusivamente se le misure di riparazione del danno all’ambiente fossero state in tutto o in parte omesse, o fossero state attuate in modo incompleto o difforme rispetto a quelle prescritte ovvero risultassero impossibili o eccessivamente onerose;
Infine, con l’art. 25 della legge 6 agosto 2013, n. 97 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea - Legge europea 2013), per rispondere all’ulteriore contestazione della Commissione europea, si è ulteriormente riordinata la materia, eliminando i riferimenti al risarcimento “per equivalente patrimoniale” e imponendo per il danno all’ambiente “misure di riparazione” (specificate dall’Allegato 3 alla Parte sesta del d.lgs. n. 152 del 2006).
7.2.- Di particolare rilievo è l’individuazione dei soggetti che sono tenuti al ripristino. L’adozione delle misure necessarie è in prima battuta a carico del responsabile del danno, ai sensi dell’art. 311 del d.lgs. n. 152 del 2006, ma lo stesso articolo, al comma 2, prevede che, quando le misure risultino in tutto o in parte omesse, o comunque realizzate in modo incompleto o difforme dai termini e modalità prescritti, il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare procede direttamente agli interventi necessari, determinando i costi delle attività occorrenti per conseguire la completa e corretta attuazione e agendo nei confronti del soggetto obbligato per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti.
8.- Le conseguenze del processo evolutivo indotto dalla normativa comunitaria sono chiaramente percepite da questa Corte quando afferma (sentenza n. 641 del 1987), in ordine all’art. 18 citato, che la legittimazione attiva dello Stato (e allora degli enti territoriali) trovava il suo fondamento «nella loro funzione a tutela della collettività […] e degli interessi all’equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio».
La qualificazione in termine di “funzione” manifesta il carattere pubblicistico del ruolo di chi è preposto alla tutela del bene ambientale, carattere, del resto, confermato dalla modalità del suo esercizio. L’art. 311, più volte citato, riconosce al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare la possibilità di scegliere tra la via giudiziaria e quella amministrativa. Nel secondo caso (artt. 313 e 314 del codice dell’ambiente), con ordinanza immediatamente esecutiva, il Ministero ingiunge a coloro che siano risultati responsabili del fatto il ripristino ambientale a titolo di risarcimento in forma specifica entro un termine fissato.
Qualora questi non provvedano in tutto o in parte al ripristino nel termine ingiunto, o all’adozione delle misure di riparazione nei termini e modalità prescritti, il Ministro determina i costi delle attività necessarie a conseguire la completa attuazione delle misure anzidette secondo i criteri definiti con il decreto di cui al comma 3 dell’art. 311 e, al fine di procedere alla realizzazione delle stesse, con ordinanza ingiunge il pagamento, entro il termine di sessanta giorni dalla notifica, delle somme corrispondenti.
8.1.- Questa Corte ha ritenuto in proposito (sentenza n. 235 del 2009), che «la scelta di attribuire all’amministrazione statale le funzioni amministrative trova una non implausibile giustificazione nell’esigenza di assicurare che l’esercizio dei compiti di prevenzione e riparazione del danno ambientale risponda a criteri di uniformità e unitarietà, atteso che il livello di tutela ambientale non può variare da zona a zona e considerato anche il carattere diffusivo e transfrontaliero dei problemi ecologici, in ragione del quale gli effetti del danno ambientale sono difficilmente circoscrivibili entro un preciso e limitato ambito territoriale».
In effetti, una volta messo al centro del sistema il ripristino ambientale, emerge con forza l’esigenza di una gestione unitaria: un intervento di risanamento frazionato e diversificato, su base “micro territoriale”, oltre ad essere incompatibile sul piano teorico con la natura stessa della qualificazione della situazione soggettiva in termini di potere (funzionale), contrasterebbe con l’esigenza di una tutela sistemica del bene; tutela che, al contrario, richiede sempre più una visione e strategie sovranazionali, come posto in evidenza, oltre che dalla disciplina comunitaria, dall’ultima Conferenza internazionale sul clima tenutasi a Parigi nel 2015, secondo quanto previsto dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.
9.- È in questo contesto normativo e giurisprudenziale che si inserisce la nuova disciplina del potere di agire in via risarcitoria (d.lgs. n. 152 del 2006), che - contraddittoriamente, secondo il giudice rimettente - ha riservato allo Stato, ed in particolare al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, il potere di agire, anche esercitando l’azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale (art. 311), e ha mantenuto solo «il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi» (art. 313, comma 7, secondo periodo).
9.1.- La modifica rispetto alla disciplina precedente è in realtà la conseguenza logica del cambiamento di prospettiva intervenuto nella materia.
All’esigenza di unitarietà della gestione del bene “ambiente” non può infatti sottrarsi la fase risarcitoria. Essa, pur non essendo certo qualificabile come amministrativa, ne costituisce il naturale completamento, essendo volta a garantire alla istituzione su cui incombe la responsabilità del risanamento, la disponibilità delle risorse necessarie, risorse che hanno appunto questa specifica ed esclusiva destinazione.
9.2.- Tutto ciò risulta con particolare evidenza nella vicenda in esame, in cui la natura dell’ambiente interessato - Poligono Interforze Salto di Quirra e del suo distaccamento a mare di Capo S. Lorenzo - e il tipo di interventi di cui si assume la necessità escludono la possibilità che istituzioni diverse dallo Stato siano abilitate ad effettuare l’opera di ripristino, cosicché sarebbe manifesta la irragionevolezza di un sistema in cui queste altre istituzioni, non onerate di tale compito, potessero avanzare pretese di risarcimento.
10.- Ciò non esclude - come si è visto - che ai sensi dell’art. 311 del d.lgs. n. 152 del 2006 sussista il potere di agire di altri soggetti, comprese le istituzioni rappresentative di comunità locali, per i danni specifici da essi subiti.
La Corte di cassazione ha più volte affermato in proposito che la normativa speciale sul danno ambientale si affianca (non sussistendo alcuna antinomia reale) alla disciplina generale del danno posta dal codice civile, non potendosi pertanto dubitare della legittimazione degli enti territoriali a costituirsi parte civile iure proprio, nel processo per reati che abbiano cagionato pregiudizi all’ambiente, per il risarcimento non del danno all’ambiente come interesse pubblico, bensì (al pari di ogni persona singola od associata) dei danni direttamente subiti: danni diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello, generico, di natura pubblica, della lesione dell’ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale.
11.- Quanto allo specifico profilo di censura connesso al fatto che la disciplina espone al rischio di una inazione statuale, specie nel caso di sovrapposizione tra danneggiato e danneggiante, rischio evidenziato - a detta del ricorrente - dalla mancata costituzione di parte civile, anch’esso è infondato.
A prescindere dalla considerazione che la proposizione della domanda nel processo penale è solo una delle opzioni previste dal legislatore, potendo lo Stato agire direttamente in sede civile, o in via amministrativa, quel che conta è che l’interesse giuridicamente rilevante di cui sono portatori gli altri soggetti istituzionali non può che attenere alla tempestività ed effettività degli interventi di risanamento.
Ebbene, tale interesse è preso in considerazione dall’art. 309 del codice dell’ambiente secondo cui le Regioni, le Province autonome e gli enti locali, anche associati, oltre agli altri soggetti ivi previsti, «possono presentare al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, […] denunce e osservazioni, corredate da documenti ed informazioni, concernenti qualsiasi caso di danno ambientale o di minaccia imminente di danno ambientale e chiedere l’intervento statale a tutela dell’ambiente».
Di tale interesse - suscettibile di tutela giurisdizionale già secondo principi generali - è espressamente prevista l’azionabilità dinanzi al giudice amministrativo con le relative azioni dal successivo art. 310.
Il sistema, dunque, è idoneo a scongiurare il rischio paventato.
12.- Alla stregua delle considerazioni fin qui svolte, il dubbio di costituzionalità sollevato dal Tribunale ordinario di Lanusei che si sostanzia, in sintesi, nell’asserita inadeguatezza della disciplina impugnata a salvaguardare la tutela dell’ambiente, anche in relazione al ruolo delle autonomie locali, non è fondato.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 311, comma 1, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 9, 24 e 32 della Costituzione, nonché al principio di ragionevolezza, dal Tribunale ordinario di Lanusei con l’ordinanza in epigrafe.
1 commento
1 Oggi venerdì 21 luglio 2017 | Aladin Pensiero
21 Luglio 2017 - 08:18
[…] Capo Teulada ‘penisola interdetta’, 500 anni per bonificarla 21 Luglio 2017 Red su Democraziaoggi. ven 21 lug 2017 […]
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