Ecco la relazione tenuta da Claudio Natoli il 28 novembre 2016 a conclusione delle “Letture della Costituzione”, organizzate dall’ANPI di Cagliari per nove lunedì nel corso della campagna referendaria.
Cercherò di riflettere sul ruolo che spetta all’antifascismo e alla Resistenza nella storia d’Italia e sul legame inscindibile che li unisce alla Costituzione repubblicana. Questa riflessione appare oggi tanto più importante, perché, in spregio all’esito del referendum del 2006, è tornata di attualità la questione di una revisione della nostra Costituzione. Dirò subito che si tratta di un tema particolarmente delicato: e vorrei qui ricordare che da molti anni in Italia, l’asserita inderogabilità di radicali riforme costituzionali si è intrecciata, in sede politica e mediatica, con una martellante campagna volta a delegittimare l’intera Carta costituzionale e a costruire un nuovo “senso comune” fondato sull’azzeramento nella coscienza collettiva dell’eredità dell’antifascismo e della Resistenza. A me pare che l’antifascismo e la Resistenza siano oggi una memoria scomoda non solo per quello che hanno rappresentato nella storia passata del nostro paese, ma anche e soprattutto per quello che possono significare oggi in termini di valori, di quella consapevolezza storica collettiva che spetterebbe alle istituzioni, alla scuola e all’università, conservare e trasmettere alle nuove generazioni. Ed invece si ha oggi l’impressione di vivere in un presente permanente in cui la cancellazione del passato è utilizzata come un strumento “per essere moderni e per andare più spediti verso il nuovo”. Tutto questo, sottrae alla società civile la consapevolezza critica, la costringe in un vissuto quotidiano privo di memoria e di storia che la rende vulnerabile alle false narrazioni e agli slogan “usa e getta” di una spregiudicata comunicazione mediatica.
Non è inutile allora inquadrare storicamente la nascita della nostra Costituzione e richiamarne i principi fondamentali in rapporto all’eredità lasciata non solo dal crollo del fascismo e dalla catastrofe della seconda guerra mondiale, ma anche ai problemi e ai nodi lasciati irrisolti dall’Italia liberale. E’ bene precisare che la Costituzione italiana non nacque da un deteriore compromesso tra ristretti gruppi di potere partitici, come si è sentito affermare da troppi anni, bensì nacque dall’iniziativa dei partiti di massa e dai gruppi più rappresentativi delle principali correnti politiche, sociali e culturali del paese in un contesto di crisi, ma anche di grandi speranze e di rinascita democratica, quale era quello che emergeva in Europa dopo il 1945 e dopo la disfatta del nazi-fascismo. La Costituzione repubblicana nasceva in un paese che prima dell’avvento del fascismo aveva appena cominciato a sperimentare il passaggio da un parlamentarismo oligarchico di matrice ottocentesca, fortemente segnato dal notabilato e da rapporti clientelari, a una democrazia fondata sui partiti di massa. Per gran parte della storia dell’Italia liberale, le classi lavoratrici e le masse rurali più povere del Meridione e delle isole erano state, infatti, considerate come “classi pericolose” se non “nemiche” dello Stato e per larga parte escluse dall’esercizio effettivo dei diritti di cittadinanza. Ha scritto Stefano Rodotà che l’analisi dell’area dei diritti nell’Italia liberale fa emergere una condizione generale di disuguaglianza che restringe la nozione piena di titolarità di quei diritti a una figura ben determinata: “il borghese maschio, maggiorenne, alfabetizzato, proprietario”. Il codice civile e penale erano informati a questo principio, mentre sul piano istituzionale vigeva un suffragio elettorale estremamente ristretto. A ciò corrispondeva uno Stato centralistico fondato sui prefetti, il primato del potere esecutivo sul Parlamento, la limitata o inesistente indipendenza della magistratura, la precarietà del diritto di associazione e di sciopero (con il corredo di ricorrenti “eccidi proletari” in occasione delle proteste popolari). Certo, la politica giolittiana all’inizio del ‘900 e soprattutto la nascita di un moderno movimento operaio e socialista, e successivamente l’allargamento del suffragio elettorale maschile, la conquista di numerose amministrazioni comunali socialiste nel centro-nord, lo sviluppo dei partiti di massa e il grande ciclo di lotte sociali del “biennio rosso” avevano aperto spazi non trascurabili all’interno di questo sistema. Ma è significativo che proprio la fase di passaggio a una democrazia di massa avesse segnato nel 1919-22 la crisi e la dissoluzione dello Stato liberale: e questo prima ancora che la dittatura e il regime fascista si incaricassero di cancellare l’intero complesso dei diritti civili e politici e di distruggere con la violenza il movimento di emancipazione delle classi lavoratrici, con la restaurazione delle tradizionali gerarchie sociali e l’inquadramento forzato delle masse nell’ambito dello Stato totalitario.
Un posto centrale assumono in questo contesto l’esperienza storica dell’antifascismo e della Resistenza e il rinnovamento politico e culturale che queste esperienze comportarono. La storia dell’antifascismo tra le due guerre non è riducibile a una contrapposizione meramente negativa alla dittatura fascista, ma è anche e soprattutto la storia della formazione di gruppi dirigenti con un’esperienza e uno spessore politico-culturale quali il movimento operaio e democratico italiano non aveva in precedenza conosciuto, ed insieme è quella dell’enuclearsi di culture politiche profondamente nuove, quali poi si manifesteranno all’indomani della Liberazione. L’elemento fondante di questo processo sarà l’incontro tra movimento operaio e democrazia e l’elaborazione, nella seconda metà degli anni ’30, di una programma positivo per la rinascita del paese dopo la caduta del fascismo: questo programma era incentrato sulla costruzione di una democrazia nuova, e cioè, per usare le parole di Vittorio Foa, “una democrazia rinnovata, socialmente avanzata e fondata su una genuina partecipazione delle masse popolari”, un democrazia capace di superare i limiti oligarchici e l’estraneità delle classi popolari al vecchio Stato liberale e di recidere le radici economiche e sociali del fascismo. Questa acquisizione fu di inestimabile importanza, se solo si considera che sino all’avvento al potere di Hitler, l’antifascismo italiano era stato attraversato da insanabili divisioni tra le forze democratiche e socialiste e i comunisti proprio sui metodi e le finalità della lotta antifascista. Un ruolo insostituibile per la formazione di una nuova cultura politica nell’antifascismo italiano fu svolto tra gli anni ’20 e ’30 dall’apertura all’Europa, attraverso il confronto ravvicinato con le Internazionali operaie, con il comunismo sovietico e con la realtà dell’URSS, pur con tutti gli aspetti mitici tipici di quegli anni, e ancora con le correnti più vive del socialismo internazionale, da Weimar alla Vienna rossa, al laburismo inglese e al planismo belga, ma anche e soprattutto attraverso la partecipazione degli antifascisti italiani alla mobilitazione internazionale contro il fascismo e la guerra, ai grandi movimenti antifascisti nella Francia del Fronte popolare e poi all’azione di solidarietà con la Repubblica spagnola negli anni della guerra civile. Il complesso di queste esperienze costituirà un laboratorio politico e ideale per una piattaforma largamente condivisa che avrebbe portato al superamento di ogni ipotesi di restaurazione in Italia del vecchio Stato monarchico-costituzionale, e che avrebbe conferito un contenuto nuovo e più avanzato alla lotta per la conquista della democrazia, ma anche, ed è questo un altro fatto di decisiva importanza, un’ispirazione unitaria alle principali forze dell’antifascismo italiano, e cioè ai comunisti, ai socialisti e a Giustizia e Libertà. Infine,deve essere sottolineato il valore dell’azione illegale svolta direttamente in Italia, soprattutto dai comunisti e da GL, al fine di mantenere in vita un’opposizione attiva nel paese. Sebbene divenisse sempre più debole nel corso degli anni, questa azione, che costò il carcere e il confino a migliaia e migliaia di oppositori politici, costituì uno stimolo per l’opposizione politica e sociale e per la creazione di nuovi gruppi antifascisti nel paese e portò alla formazione di decine di migliaia di dirigenti e di quadri che sarebbero stati in seguito tra i principali organizzatori della Resistenza.
Emerge a questo punto un altro tema storico di centrale rilevanza: e cioè quello dell’incontro tra i dirigenti e i quadri delle carceri e del confino, dell’illegalità e dell’emigrazione, e la nuova generazione antifascista che si era andata formando nel corso degli anni ‘30 direttamente nel paese. Questa generazione avrebbe seguito un percorso che fino al 1942 si sarebbe svolto in gran parte non già nell’ambito un legame con le forze dell’antifascismo storico, bensì a contatto diretto con la disgregazione delle basi di massa del regime già al tramonto degli anni ’30, o ancor più con la disastrosa conduzione della guerra e sotto l’impatto della catastrofe nazionale dell’8 settembre 1943. L’antifascismo tra i giovani nella seconda metà degli anni ’30, costituì un fenomeno estremamente complesso, in cui confluì una molteplicità di esperienze e di percorsi individuali: la partecipazione critica ai Littoriali, il distacco dalla cultura ufficiale attraverso la scoperta delle avanguardie artistiche europee, il rifiuto esistenziale prima ancora che politico del fascismo (la rivolta contro l’irregimentazione dei giovani), il riemergere di forme di alterità o di antifascismo apolitico di estrazione operaia e popolare, l’incontro con il comunismo sotto l’impatto della guerra di Spagna, il diffondersi di nuove correnti politico-culturali, come il liberalsocialismo. E tuttavia ciò che più colpisce in questi anni è la sorprendente convergenza nelle problematiche e nelle progettazioni per il futuro tra le forze più vive dell’antifascismo all’estero impegnate nella guerra di Spagna (ricordiamo il celebre incitamento di Carlo Rosselli “Oggi in Spagna domani in Italia”) e il nuovo antifascismo che, sia pure in forme molecolari e senza un legame diretto con i partiti all’estero, stava crescendo nel paese: anche nei giovani la scelta antifascista avvenne all’insegna della costruzione di un fronte unitario e della prospettiva di una società profondamente rinnovata, capace di coniugare libertà politiche ed emancipazione sociale delle classi lavoratrici, sia che le fonti ispiratrici fossero la Spagna del Fronte popolare e il mito dell’URSS, sia che si proponesse una originale sintesi tra liberalismo e socialismo, come nel caso della rete di giovani raccolta attorno alle figure adulte di Calogero e Capitini. Senza l’incontro tra queste due diverse generazioni la Resistenza italiana non avrebbe potuto sviluppare i suoi tratti più originali, e cioè il suo carattere di movimento di massa, i suoi contenuti di partecipazione dal basso e di profondo rinnovamento politico e sociale che ne fecero uno dei fattori determinanti della rinascita democratica e civile del paese.
Il fattore determinante di questo incontro fu tuttavia costituito dalla seconda guerra mondiale. Le modalità dello scatenamento del conflitto e la conduzione bellica da parte della Germania nazista, dell’Italia fascista e dei loro alleati e satelliti, la sconvolgente realtà del “nuovo ordine” imposto al continente europeo, l’annientamento dei diritti e l’onnipotenza dello Stato discrezionale, la gerarchizzazione sociale e razziale, l’oppressione delle popolazioni invase giunta nell’Europa orientale sino alla pianificazione di politiche di schiavizzazione e di sterminio di milioni di persone, la deportazione e il genocidio degli ebrei non potevano non conferire alla seconda guerra mondiale il carattere inedito di uno “scontro di civiltà”. La “grande alleanza antifascista”, anche al di là delle stesse intenzioni e dei progetti geopolitici dei “tre grandi”, avrebbe assunto così, nella mobilitazione degli eserciti e nelle molteplici forme di resistenza dei popoli, un contenuto politico e ideale al cui interno la disfatta delle forze dell’Asse veniva percepita come la premessa per l’avvento di un mondo totalmente rinnovato.
E’ a questo clima che bisogna riferirsi se si vuole comprendere il processo di rinnovamento delle culture politiche che investì in quegli stessi anni le forze della sinistra (comuniste e socialiste), non meno che quelle liberali e cattoliche. Questo rinnovamento affondava, come ho già detto, le proprie radici nell’elaborazione più avanzata dell’antifascismo europeo degli anni ’30, ma comportava anche un profondo ripensamento sulla catastrofe del ’29, sulla crisi della politica e dell’economia liberale e, non ultimo, sulle corresponsabilità delle élites dirigenti liberal-conservatrici e delle Chiese nel dilagare dei movimenti e dei regimi fascisti. Ed è di qui che si andrà affermando una nuova cultura dei diritti che tenderà a ridefinire e a riqualificare il concetto di libertà e di dignità della persona, le forme e la sostanza della democrazia e il futuro sistema delle relazioni internazionali. Siamo qui alle origini del nuovo costituzionalismo democratico, che si affermerà in Europa dopo la liberazione e che troverà un importante riscontro nella nascita della civiltà del Welfare State. Le sue chiavi di volta saranno da una parte, l’integrazione della democrazia formale con la democrazia sostanziale, l’allargamento della sfera pubblica dei diritti attraverso la ridefinizione del concetto di uguaglianza e la costituzionalizzazione del lavoro come elemento fondativo dei nuovi patti costituzionali; dall’altra, l’affermazione sul piano universalistico del trinomio democrazia sostanziale-pace-diritti umani come punto di non ritorno della nuova comunità internazionale da costruire dopo la disfatta del nazi-fascismo, di cui l’espressione più alta sarà la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948.
Ma torniamo alla Resistenza italiana. Fu merito dei gruppi antifascisti, e in particolare dei dirigenti e dei quadri più sperimentati del Pci e del Partito d’azione, avere assunto subito dopo l’8 settembre 1943, l’iniziativa dell’organizzazione e della direzione politico-militare della lotta contro l’occupazione tedesca e contro il fascismo di Salò, di aver fatto dei Cln nell’Italia occupata il centro di formazione di una nuova classe dirigente profondamente diversa da quella prefascista e di avere costruito nel vivo della lotta una rete sempre più articolata di associazioni e di organismi di partecipazione dal basso che costituivano il primo nucleo di una nuova democrazia. La Resistenza italiana fu parte di un fenomeno internazionale diffuso in tutta l’Europa occupata, ma la sua caratteristica più originale fu “l’intreccio di lotta sociale e di lotta armata, di forme vecchie e nuove di direzione politica, di lotte per l’indipendenza nazionale e per il rinnovamento politico del paese”: in altre parole, la lotta armata fu solo un elemento di una attività che vide l’intreccio della lotta di classe nelle città e nelle campagne”, la compresenza “di scioperi e guerriglia, di azione militare e rivendicazioni sociali”. Su di un altro versante, il “microcosmo” della banda partigiana, come in precedenza il carcere e il confino fascista, costituiva una scuola di solidarietà e di moralità collettiva, un momento di rottura delle tradizionali barriere sociali, in particolare tra ceti intellettuali, operai e contadini, e una forma “alta” di educazione alla politica. Contemporaneamente, accanto alla Resistenza politica e alla lotta armata, nel vivo della società, si sviluppavano forme di “legittimità ribelle” all’ordine dell’occupante e dei suoi collaboratori. Esse investirono una gamma amplissima di azioni: dalla protesta sociale al rifiuto della coscrizione e del lavoro coatto, alle manifestazioni individuali e collettive di insubordinazione verso gli occupanti, alle molteplici forme di solidarietà nei confronti dei combattenti della Resistenza, dei prigionieri alleati, degli ebrei e degli altri perseguitati, che videro impegnate in prima fila le donne. Vi è infine il capitolo, a lungo trascurato, dei militari italiani che decisero di non deporre le armi e di battersi (come a Cefalonia e a porta San Paolo), e di quelli catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, che nella stragrande maggioranza si rifiutarono di combattere nella fila della Repubblica di Salò e che affrontarono la durissima realtà dei campi di concentramento nazisti. Ma nel frattempo il fronte resistenziale si era allargato ad altre forze di orientamento più moderato (i diversi gruppi liberali e il nuovo partito cattolico) rimasti sino al 1942-43 estranei all’antifascismo storico ma destinati ad esercitare un condizionamento determinante sugli esiti della Resistenza e sul nuovo assetto del paese nel dopoliberazione. La resistenza italiana si configurò pertanto come la convergenza tra forze politiche e sociali diverse, unite nell’obiettivo immediato della lotta contro il nazifascismo, ma all’’inizio divise riguardo ai caratteri che avrebbe dovuto assumere il nuovo Stato dopo la Liberazione. Nel confronto che allora l’antifascismo avrebbe costituito un terreno di confronto obbligato e di rinnovamento politico-culturale non solo per i partiti della sinistra, ma anche per quelle correnti liberali e cattoliche che nel vivo della Resistenza sarebbero tornate a confrontarsi con i temi della libertà e della democrazia, superando le precedenti compromissioni con il fascismo.
Altra cosa è riflettere sull’intreccio estremamente complesso tra continuità e rottura che caratterizzò la nascita e il primo quindicennio dell’Italia repubblicana. L’avvento della Repubblica segnò il definitivo tramonto degli anacronistici progetti di restaurazione monarchico-conservatrice e l’avvento di un ordinamento democratico parlamentare fondato sui partiti di massa e su una partecipazione politica diffusa che non avevano avuto riscontro nello Stato liberale postunitario. Un fatto di inestimabile valore anche simbolico fu costituito dall’estensione del diritto di voto e dal riconoscimento della parità giuridica alle donne, da cui erano rimaste private non solo durante il regime fascista, ma anche nell’Italia liberale. Una particolare attenzione fu inoltre dedicata dai costituenti al principio del bilanciamento e della separazione dei poteri nell’ambito del nuovo Stato. L’autonomia della magistratura dal potere politico trovava qui per la prima volta nella storia d’Italia una sanzione costituzionale. Inoltre il potere esecutivo veniva subordinato al Parlamento e comunque distribuito con lungimiranza ed equilibrio tra governo e presidente della Repubblica. Nello stesso tempo il carattere centralistico dello Stato, che era stato esasperato dal regime fascista ma che aveva radici profonde nella stessa Italia liberale, veniva intaccato con l’istituzione dell’ordinamento regionale e delle regioni a statuto speciale, nonché con l’allargamento delle autonomie comunali e provinciali. A vigilare sulla conformità delle leggi alla Costituzione veniva per la prima volta creato un organo anch’esso indipendente dagli altri poteri, la Corte costituzionale.
Il secondo aspetto determinante fu non solo l’allargamento, ma la nuova concezione dei diritti della persona sancita dalla Costituzione. Anzitutto, la Costituzione riconosceva che tutti i cittadini “hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3). Ma la novità forse più grande fu costituita dal fatto che mentre le Costituzioni liberali e gli ordinamenti giuridico-istituzionali ottocenteschi avevano garantito i diritti civili e politici dell’individuo ma soprattutto avevano collocato la proprietà al centro del diritto di cittadinanza, la Costituzione, non solo allargava modo determinante la sfera dei diritti civili (da quello di associazione a quello di sciopero) ma riconosceva come proprio fondamento il lavoro e stabiliva come compito della Repubblica quello di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione economica, politica e sociale del paese” (art.3). In questa luce la Costituzione ha riconosciuto i diritti sociali come parte integrante dei diritti di libertà, in quanto presupposto indispensabile per il “libero sviluppo della personalità” dei cittadini e per l’esercizio effettivo delle libertà politiche. Gli articoli 32, 33,34, 35,36,40 sanciscono il diritto all’istruzione, al lavoro, alla salute, alla previdenza, come anche un trattamento economico tale da garantire una “esistenza libera e dignitosa”, riconoscendoli come interesse generale della società e obbligano lo Stato a intervenire per realizzarli e quindi ad agire per correggere le disuguaglianze. La Costituzione sostiene inoltre la scuola pubblica e la libertà di informazione, promuove la ricerca scientifica e tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione. Per converso, la Costituzione dichiara che “l’iniziativa economica privata è libera”, ma non può esercitarsi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana (art. 41-42). In particolare prevede il controllo pubblico sul sistema creditizio e la possibilità del trasferimento allo Stato, a enti pubblici o a comunità di lavoratori e di utenti, di imprese o categorie di imprese afferenti a servizi pubblici essenziali, a fonti di energia o a situazioni di monopoli che abbiano preminente interesse generale, dispone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende. Infine la Costituzione pone al centro della nuova identità democratica dell’Italia repubblicana il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, con un implicito riferimento alla Carta delle Nazioni Unite: un principio che stava a significare una rottura con i regimi fascista e nazista che avevano fatto della guerra e dell’oppressione imperialista parte integrante del proprio codice genetico, ma anche con una tradizione colonialista profondamente radicata nell’Italia liberale. Siamo qui nel cuore di quel costituzionalismo democratico affermatosi in Europa dopo il 1945 e di quella “nuova democrazia” che costituisce il patrimonio più vitale dall’antifascismo e della Resistenza.
Certo l’attuazione di questi principi, come del resto anche l’intera transizione dal fascismo alla democrazia repubblicana, ha costituito un capitolo lungo e travagliato della storia d’Italia. C’è sempre stata una parte della società italiana che, in particolare negli anni del centrismo, ma a ben vedere anche in anni più recenti, si è rifiutata di fare i conti con il fascismo, ci sono state forti resistenze conservatrici nello Stato e nella società, che si sono intrecciate con i pesanti condizionamenti della “guerra fredda” e con i limiti della cultura di tutte le forze politiche. La Costituzione è rimasta congelata per almeno un decennio e la sua attuazione è approdata a risultati tutt’altro che compiuti, cosicché alcuni diritti devono oggi non solo essere difesi ma persino riconquistati: e tuttavia si può affermare con sicurezza che il progresso democratico e civile che il nostro paese ha conosciuto soprattutto negli anni ’60 e ‘70 ha trovato nella Costituzione repubblicana il suo più solido fondamento.
Tuttavia a partire dagli anni ’80 si è entrati in una fase di grave regressione politica, sociale e culturale. Tutto ciò ha molto a che vedere con la “crisi di civiltà” nella quale oggi siamo precipitati, con gli orientamenti politici e di governo improntati al neoliberismo che stanno cancellando le basi stesse del Welfare State e i tratti fondamentali della rinascita democratica e civile dell’Europa dopo il 1945. Più propriamente, la nostra Costituzione e il modello di democrazia partecipativa e socialmente avanzata che essa delinea, sono divenuti incompatibili con l’utopia distruttiva di un mercato autoregolato del tutto svincolato dalle regole della democrazia che si vorrebbe erigere a nuova base dello Stato, della società e dell’insieme dei rapporti umani. Vi è un documento di uno dei gruppi finanziari più potenti del mondo, la Banca Morgan, datato 28 maggio 2013 che appare da questo punto di vista illuminante: “…all’inizio della crisi si pensava che i problemi nazionali fossero di natura economica, ma si è poi capito che ci sono anche problemi di natura politica. Le Costituzioni e i sistemi politici dei Paesi della periferia meridionale, sorti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche non adatte al processo di integrazione economica… e sono ancora determinati dalla reazione alla caduta delle dittature. Queste Costituzioni mostrano una forte influenza socialista, riflesso delle forza politica che le sinistre conquistarono dopo la caduta del fascismo. Perciò questi sistemi politici periferici hanno, tipicamente, caratteristiche come: governi deboli rispetto ai parlamenti, stati centrali deboli rispetto alle regioni, tutela costituzionale del diritto del lavoro, consenso basato sul clientelismo politico, diritto di ,protestare contro ogni cambiamento. La crisi è la conseguenza di queste caratteristiche… Ma qualcosa sta cambiando: test essenziale sarà l’Italia, dove il nuovo governo può chiaramente impegnarsi in importanti riforme politiche”. Non intendo suggerire un’interpretazione meramente complottistica di quanto sta avvenendo da un quindicennio nel nostro paese, ma è difficile non individuare in questo documento e nell’ente che lo ha prodotto un inquietante sintomo dello “spirito dei tempi” che stiamo vivendo.
Per parte mia mi limiterò qui ad accennare a due ambiti. Il primo riguarda la legislazione ordinaria, che ha sistematicamente colpito fondamentali principi costituzionali nel campo dell’aumento esponenziale delle disuguaglianze e della deregolamentazione dei diritti dei lavoratori ( dalla contrattazione collettiva alla precarizzazione del mercato del lavoro, con tutti gli effetti devastanti sulla stessa possibilità dei giovani di costruire il proprio futuro), nonché nel campo delle scelte di politica finanziaria a livello di governo. In nome della “riduzione del debito” e del “pareggio di bilancio”, anno dopo anno, si è innescato un processo che ha avuto l’effetto di degradare a di “privatizzare” l’intera sfera pubblica, la gestione del territorio e dei beni comuni (la legge “Salva Italia è un vero concentrato di centralismo e di privatismo), l’esercizio dei diritti di cittadinanza in tema di lavoro, istruzione, cultura, sanità, previdenza e protezione sociale. Di qui è derivata una profonda ferita all’intera prima parte della Costituzione, che è stata deturpata anche formalmente dall’assunzione nel 2014 del canone neoliberista del pareggio di bilancio a principio costituzionale con la complicità di tutti i partiti di governo.
Il secondo ambito è stato costituito da leggi elettorali e da progetti di riforma costituzionale volti a sostituire i principi di partecipazione, di rappresentanza democratica, di separazione dei poteri, con la formazione artificiosa di maggioranze parlamentari e di governo attraverso leggi elettorali esasperatamente maggioritarie e con un accentramento di poteri da parte dei governi a detrimento dell’autonomia, del ruolo e delle prerogative delle assemblee elettive.
Queste problematiche sono emerse per la prima volta negli anni ’80 sotto il segno del “decisionismo” dei governi Craxi, per poi confluire in una legge di riforma costituzionale varata dal governo Berlusconi, che combinandosi con una legge elettorale maggioritaria che creava un parlamento di nominati dalle segreterie dei partiti, stravolgeva l’intero sistema costituzionale della separazione dei poteri concentrandoli nella figura di un Capo del governo investito direttamente del popolo. Il referendum popolare svoltosi nel 2006 respinse a schiacciante maggioranza questo pericolo. Ma oggi, dispiace dirlo, le medesime problematiche riemergono nel combinato, predisposto dal governo in carica, tra la nuova legge elettorale maggioritaria già approvata e una nuova riforma costituzionale: la prima, mentre riproduce un Parlamento di nominati, conferisce ad un unico partito una rappresentanza abnorme rispetto al suo reale peso elettorale, condannando alla irrilevanza tutte le altre forze politiche; la seconda rafforza considerevolmente i poteri decisionali del governo rispetto alle assemblee elettive siano esse il Senato, la Camera dei deputati o i Consigli regionali.
Al di là del quesito molto riduttivo e anche un po’troppo ammiccante a cui saremo chiamati a rispondere con un si o con un no il prossimo 4 dicembre, è importante riflettere sul contesto più ampio in cui si inserisce il prossimo referendum e su quale sia la reale posta in gioco. A me pare che si possa largamente concordare con Massimo Cacciari quando richiama la nostra attenzione sui rischi “di una sub-cultura politica e di un cattivo senso comune che va diffondendosi a vista d’occhio”e che egli così riassume. I tempi della politica sarebbero
“inconciliabili con quelli dell’economia, della finanza e del libero scambio, assunti a exemplar. La complessità è un male e va ridotta ad ogni costo. Democrazia è sinonimo di procedure snelle e efficaci per giungere alla decisi; partecipazione e comunicazione sono problemi del web. I Parlamenti tanto più funzionano tanto più si trasformano in anti-camere del Principe. I partiti politici sono creature preistoriche; contano i leader, la loro immagine, legittimata da sondaggi e Twitter. I sindacati organizzino patronati e difendano, se son capaci, la merce-lavoro…Questa cosiddetta riforma si colloca certamente nella prospettiva di chi ignora la gravità della crisi che la democrazia attraversa. Essa non si esprime soltanto nella debolezza dell’Esecutivo…ma ancor più in quella del Parlamento. La spasmodica ricerca di trasformarlo per quanto possibile in un’assemblea dei nominati e cooptati da parte di chi sarà chiamato a formare il governo significa liquidarne la stessa ragione d’essere. Il Parlamento nasce e si giustifica in quanto essenzialmente organo di controllo e espressione della sovranità del popolo. Il rafforzamento dell’Esecutivo, in una riforma degna di questo nome, avrebbe dovuto combinarsi con un rafforzamento del Parlamento, della sua rappresentatività, del suo ruolo[…] La subordinazione del Legislativo al Governo è prodotto della stessa cultura che vede partiti, sindacati, corpi intermedi come fastidiose sopravvivenze o una sorta di micro-stati nello Stato. Per le attuali leadership ci sono soltanto il popolo e loro a rappresentarlo. Ma questo non è il popolo! E’ una moltitudine di individui, ciascuno coi propri più o meno legittimi appetiti, destinati perciò a ‘delegare’ in bianco a chi comanda. Il popolo è popolo quando si presenta come entità politica, giuridica culturale, e cioè quando dà vita in sé e da sé a organismi che danno forma e voce alle forze, agli interessi, alle culture che lo costituiscono. Altrimenti è una pura astrazione, oggetto di pure retoriche, in realtà semplicemente un insieme di sudditi”.
Non dobbiamo rassegnarci ad accettare che la nostra Costituzione venga accantonata come un residuo di un passato definitivamente tramontato, all’opposto, di fronte alle devastanti conseguenze del “pensiero unico” e delle politiche neoliberiste, esistono oggi le condizioni perché questo patrimonio torni ad essere un punto di riferimento per una nuova Europa della democrazia e dei diritti e non più e non solo della moneta e dei mercati finanziari. Non vi è dubbio che i principi della nostra Costituzione, oltre a ricondurci ai momenti più alti della nostra storia nazionale, ci fanno sentire compartecipi delle migliori tradizioni, delle radici storiche e culturali del modello politico e sociale europeo anche nella sua specificità e nella sua differenza rispetto al modello americano. Da tutti questi punti di vista a me pare che la nostra Costituzione rappresenti oggi una sfida contro ogni regressione politica, sociale e culturale e una garanzia che parla al nostro presente e soprattutto al nostro futuro.
1 commento
1 oggi mercoledì 2 agosto 2017 | Aladin Pensiero
2 Agosto 2017 - 08:32
[…] Antifascismo, Resistenza, Costituzione: una riflessione tra passato e presente 2 Agosto 2017 Claudio Natoli su Democraziaoggi. Ecco la relazione tenuta da Claudio Natoli il 28 novembre 2016 a conclusione delle “Letture […]
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