Se ne parla molto in questi giorni. Vietare il velo è discriminazione? Parrebbe di no. Le aziende possono vietare ai propri dipendenti di indossare indumenti che siano “segni religiosi” come il velo islamico: lo ha stabilito la Corte di Giustizia Europea, chiamata a decidere su due ricorsi di donne musulmane, uno dal Belgio e uno dalla Francia, relativi alla possibilità di presentarsi al lavoro con il capo coperto in osservanza alla religione musulmana. “Una regola interna che proibisca di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso non costituisce diretta discriminazione”, ha sentenziato la Corte. Nella decisione si rileva però che il divieto “può invece costituire una discriminazione indiretta qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono a una determinata religione o ideologia.
Tuttavia, tale discriminazione indiretta può essere oggettivamente giustificata da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti, purché i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari”.
Motivazione contorta, non vi pare?
Non sarebbe stato più semplice dire che ci sono mestieri o professioni incompatibili con l’ostensione di simboli, che - a torto o a ragione - richiamano nel pubblico una fede religiosa o politica? Infatti, un primo caso riguarda Samira Achbita, receptionist di fede musulmana assunta alla G4S, che fornisce servizi di accoglienza a clienti sia del settore pubblico sia del settore privato. All’epoca, una regola non scritta interna alla G4S vietava ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose. Ma, a prescindere da questo, può risultare plausibile pensare che una tale presenza velata alla reception possa allontanare dei clienti, giustificato o meno che sia questo atteggiamento. Solo dopo l’assunzione, nell’aprile 2006, la receptionist ha informato il datore di lavoro del fatto che intendeva indossare il velo islamico durante l’orario di lavoro. In risposta, la direzione le ha comunicato che il fatto di indossare un velo non sarebbe stato tollerato. Dopo un periodo di assenza dal lavoro per malattia, la dipendente ha comunicato che avrebbe ripreso l’attività lavorativa e che da allora in poi avrebbe indossato il velo islamico. Di qui il licenziamento, nel quale mi pare rilevi più l’aspetto pratico riguardante il gradimento o meno della clientela che il profilo religioso.Nel caso di una farmacia in zona molto abitata da musulmani, una addetta con velo è diventata l’attrazione per i suoi correligionari, anche per via della lingua, cosicché il titolare, dati i buoni affari, non solo ha mantenuto la commessa, ma la vuole velata.
Nella sentenza, la Corte dice, invece, che la norma interna della G4S non viola il principio di eguaglianza perché tratta in maniera identica tutti i dipendenti dell’impresa, imponendo loro in maniera generale ed indiscriminata, una neutralità di abbigliamento.
Il secondo caso deciso dalla Corte di giustizia è simile ed è accaduto in Francia. Riguarda il caso di Asma Bougnaoui, ingegnere progettista che durante una fiera dello studente, prima di essere assunta dall’impresa privata micropole, è stata informata che indossare il velo islamico avrebbe potuto porre problemi quando fosse stata a contatto con i clienti. In seguito alla lamentela di un cliente cui era stata assegnata dalla Micropole, l’impresa ha ribadito il principio di necessaria neutralità nei confronti della clientela e le ha chiesto di non indossare più il velo. Data la risposta negativa, la donna è stata licenziata.
Anche qui, non c’è da scomodare la libertà o l’uguaglianza. Il segno distintivo allontana clienti come lo sarebbe portare una grande stella di David o una grande croce. E’ incompatibile con quel lavoro. Punto.
La sentenza della Corte di giustizia Europea è stata criticata da varie parti. ”Darà più margini di manovra ai datori di lavoro per discriminare le donne - e gli uomini - per motivi di fede religiosa” dice John Dalhuisen, Direttore di Amnesty International per l’Europa e l’Asia centrale. “In un momento in cui l’identità e l’apparenza sono diventati campi di battaglia politica, le persone hanno bisogno di più protezione contro i pregiudizi, e non meno”, ha ammonito. “La Corte ha sostenuto che i datori di lavoro non sono liberi di assecondare i pregiudizi dei loro clienti - sottolinea Dalhuisen - ma affermando che le politiche aziendali possono vietare i simboli religiosi per assicurare ‘neutralità’, hanno fatto rientrare dalla porta di servizio gli stessi pregiudizi. È ora che i governi nazionali rafforzino e proteggano i diritti dei loro cittadini”, conclude.
Amnesty International, insieme con la Rete Europea contro il Razzismo, ha già sottoposto alla Corte le proprie considerazioni, secondo le quali entrambe le misure imposte dalla G4S Secure Solutions NV e dalla Micropole SA nei confronti dei loro dipendenti costituiscono discriminazione basata sulla religione o sul credo. Il documento ‘Wearing the headscarf in the workplace. Observations on discrimination based on religion in the Achbita and Bougnaoui cases’ dell’ottobre 2016 è online.
Certo, la materia è delicata e occorre molta prudenza. Tendenzialmente, bisogna essere per la più assoluta libertà, nel rispetto di quella altrui, ovviamente. Ma qui c’è un altro aspetto da considerare. Il velo è un segno di prevaricazione contro le donne. Possono gli ordinamenti democratici tollerare, in nome della libertà individuale, usi e costumi, frutto di oppressione e diseguaglianza di genere? La risposta negativa sembra ovvia. Quante pratiche vessatorie sono state vietate sul lavoro in applicazione dei principi costituzionali! Per il velo, dunque, c’è una ragione connessa all’uguaglianza fra generi che depone in senso negativo, essendo il velo segno di sottomissione e di subordinazione della donna. Ci sono poi i segni religiosi o politici che, se ostentati, in talune circostanze o in talune attività a contatto col pubblico possono respingere delle persone. Insomma, mentre non creano problemi i simboli portati senza ostentazione in modo normale, diversa è la questione nel caso opposto. Qui forse la limitazione della libertà o la discriminazione non pare sostenibile.
Ma bisogna discuterne, per non correre il rischio o di avallare pratiche antidemocratiche o o, al contrario, di comprimere fondamentali libertà individuali.
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