Sardegna: far crescere l’agroalimentare con l’innovazione

3 Marzo 2017
2 Commenti


Fernando Codonesu


Proseguiamo la riflessione sulle politiche di sviluppo in Sardegna con questo scritto su un settore strategico per l’Isola: il comparto agroalimentare.

Considerato l’altissimo volume di importazioni che caratterizzano il settore agroalimentare della nostra regione che interessano i formaggi, la carne, le farine, la verdure, il pesce ecc. al punto che le importazioni vengono quantificate all’incirca nell’80% dei consumi, è doveroso programmare un aumento della nostra capacità produttiva che consenta, con una tempistica a tre-cinque anni, di far crescere la bilancia commerciale regionale a nostro vantaggio almeno del 20%, riportando almeno intorno al 40% la nostra capacità di autoproduzione dei prodotti destinati ai nostri consumi alimentari.
Ciò significa aumentare la produzione in generale, ma la produzione può crescere soprattutto con l’innovazione, migliorando la qualità dei prodotti e riuscendo a rendere permanenti e convenienti le filiere corte sul mercato locale, sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta.
Oggi si è consapevoli che non c’è una innovazione significativa nel lavoro della terra e, sul punto, si ritiene che ci sia tanto da innovare in termini di prodotti, tecnologie, nuovi macchinari, nuove coltivazioni, filiere certificate del cibo prodotto: Per fare un esempio, dal seme, alla semina, al metodo di coltivazione, al raccolto, al mercato fino alla tavola del consumatore: è questo che si deve imparare a fare perché il cibo non va considerato come una merce qualsiasi, ma come l’espressione più autentica della nostra cultura e della nostra identità.
Capacità di produzione e innovazione significa anche recupero delle numerose, troppe, grandi superfici del territorio regionale oramai abbandonate, considerate marginali rispetto alla produzione agricola. L’aumento della produzione e della qualità di prodotto potranno utilmente consentire di esportare una parte della produzione nel mercato nazionale ed internazionale contribuendo quindi a dare nuovo slancio e capacità di attrazione alla terra e alla produzione di cibo di qualità.
Non solo, bisogna anche razionalmente affrontare il tema delle vocazioni locali declinandole con le qualità delle coltivazioni, dell’allevamento e/o delle produzioni da attivare in un territorio piuttosto che in un altro. Ciò perché dobbiamo imparare a fare meglio ciò che facciamo già bene e incominciare a far bene, il che significa in modo da creare ricchezza e occupazione, ciò che invece non sappiamo fare ancora in modo profittevole o abbiamo disimparato a fare anche a causa del sistema assistenziale che ha caratterizzato per troppo tempo le attività delle campagne.
Solo dal settore agroalimentare, dalla ripresa razionale delle coltivazioni più specializzate e redditizie, con il recupero delle terre marginalizzate da riportare a nuova coltivazione, a nostro parere può essere possibile la creazione di alcune migliaia di micro e piccole aziende non solo a carattere familiare con la possibilità di un fattore moltiplicativo da tre a cinque, per un’ipotesi di occupazione complessiva a cinque anni di almeno 10.000 lavoratori. Purché ci sia un’azione di supporto, accompagnamento delle neo aziende almeno per un triennio, con verifica costante dei risultati a fronte delle risorse economiche messe a disposizione.
A patto che si incominci subito, anche utilizzando come volano un investimento che parta dalla Regione, ma sempre accompagnato da un impegno diretto dell’imprenditore privato che intenda cimentarsi nella nuova agricoltura.
E qui c’è una nota dolente da sottolineare sia per quanto riguarda la Regione (ma questo è fin troppo facile da evidenziare) che, più in generale per quanto riguarda l’assenza di imprenditori locali seri che sappiano rilanciare il territorio rispettano la vocazione e ci mettano risorse proprie perché senza un impegno di capitali propri non si può parlare di imprenditoria.
Emblematici, al riguardo, sono i casi del bando internazionale volto alla individuazione di manifestazioni di interesse per l’acquisto dell’azienda di Surigheddu e Mamuntanas e la recente vendita di SBS (società Bonifiche Sarde). Nel primo caso si tratta di un compendio agricolo di circa 1200 ettari, di grande valore paesaggistico e produttivo, in gran parte pianeggiante e poco coltivata, con l’eccezione di una porzio0ne di circa 50 ettari utilizzata dall’Università di Sassari e con 20.000 metri cubi di edificato.
Che dire? Cercasi imprenditori sardi disperatamente!
Il caso di SBS appena concluso è noto: Bonifiche Ferraresi, la maggiore società agricola europea per superficie utilizzata quotata nella borsa italiana, 6.500 ettari con i mille appena acquistati per 9 milioni di euro comprensivi di tutti i fabbricati presenti, è la nuova proprietaria. Intanto è bene sapere che non appena è stato ufficializzato l’acquisto di SBS, Cassa Depositi e Prestiti (Ministero del Tesoro al 100%) è appena entrata nella compagine sociale con una quota del 20% pari a 50 milioni di euro.. Nel 2014, lo storico titolo di Piazza Affari ha avuto un cambio nell’assetto societario con l’entrata in scena di BF Holding, costituita da investitori italiani come Sergio Dompé (Farmaceutica), Fondazione Cariplo, Carlo De Benedetti (editoria, finanza, altro), il gruppo Gavio (autostrade), il gruppo Cremonini (carni e supermercati).
In buona sostanza, mettendo insieme le superfici di SBS con Surigheddu e Mamuntanas si poteva avere una delle aziende agricole integrate e produttivamente migliori d’Europa. I soldi che vengono trovati dagli imprenditori su menzionati tramite CDP non potevano/potrebbero essere trovati anche da una cordata id imprenditori sardi, purché seri, autorevoli e disposti a mettere propri capitali nell’impresa?
Un’agricoltura di qualità può essere fatta con una certificazione ambientale a monte garantita su tutto il territorio regionale e questo può essere un obiettivo di politica agricola e ambientale della Regione, al netto dei problemi già detti in precedenza derivanti dalle ampie zone inquinate da bonificare. A valle di tale certificazione, andrebbe fatta nel corso di un triennio dalle aziende private la certificazione di qualità di tutte le filiere produttive legate alla terra, ivi compreso ogni tipo di allevamento. E quindi una produzione biologica garantita e certificata in ogni area dell’isola sarebbe un eccellente strumento di commercializzazione in ogni tipo di mercato locale, nazionale e internazionale.
Ci sono risorse pubbliche e risorse private. Tra quelle pubbliche assumono grande rilevanza le risorse comunitarie che vanno perseguite creando gruppi di lavoro finalizzati a non perdere neanche uno dei bandi disponibili, ma soprattutto, a differenza del passato e del presente, non può più essere tollerato che non si riesca a spendere bene le risorse ottenute.
Sicuramente lo sviluppo di questo comparto trova opportunità nel mercato locale come riequilibrio della forte dipendenza dei consumi sardi dall’esterno, nei mercati nazionali e in notevole parte nei mercati internazionali, in quanto il livello di qualità che la nostra terra può garantire sono certamente tra i più alti, tenendo conto dell’ambiente e del clima che caratterizza l’isola.
E’ sempre più necessario dare spazio e risorse ai giovani imprenditori con investimenti nell’innovazione di produzione, di prodotti e processi, di organizzazione e logistica distributiva.

2 commenti

  • 1 Oggi venerdì 3 marzo 2017 | Aladin Pensiero
    3 Marzo 2017 - 08:42

    […] Sardegna: far crescere l’agroalimentare con l’innovazione Fernando Codonesu su Democraziaoggi. ———————————— fernando […]

  • 2 Gianni Pisanu
    7 Marzo 2017 - 00:42

    Come sempre Fernando fornisce dati e informazioni che suscitano interesse e, in questo caso tanto rammarico per i ritardi e le carenze del comparto agroalimentare in Sardegna. il campo è vasto e le campagne anche di più.
    Mi soffermo sull’allevamento e la relativa filiera, che con un minimo di razionalità, da solo potrebbe costituire un bel pezzo di soluzione del problema occupazione e dipendenza dall’esterno.
    Penso al paradosso che il porchetto sardo è per circa il 75% importato, che la salsiccia sarda è per il 90% confezionata con carne importata, così come il prosciutto, mentre nelle macellerie se si eccettua l’agnello le percentuali delle carni vendute sono all’incirca 15 - 20% locali e tutto il resto importate.
    Come fare? Non penso che la soluzione possa aversi nell’ incentivare la creazione di micro e piccole aziende senza un lavoro in profondità. Occorre agire in alcune direzioni: 1 assetto del territorio e classificazione delle strutture esistenti; 2) formazione del nuovo allevatore/trasformatore/operatore agrituristico; 3)costituzione di una struttura che si faccia carico di tutta la burocrazia compreso l’aspetto fiscale, la promozione pubblicitaria, l’aggiornamento degli operatori ecc.; 3) creazione di un vero marchio per il prodotto vincolando il produttore all’osservanza di appositi disciplinari; 4) rendere raggiungibili i terreni manutenendo le attuali strade di penetrazione e ove necessario aprendone altre col duplice obiettivo di rendere più agevole la logistica, e favorire il flusso turistico sia dai centri urbani che dalle coste.
    Si tratta di programmare e investire , ma penso sia l’unica strada. Negli anni 50 qualcosa è stato fatto, la Nurra di Sassari e Alghero. Dopo le delusioni delle industrie è il caso di riconsiderare l’agroalimentare non ripiego ma valida risorsa.

    Gianni Pisanu

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