Carlo Dore jr.
Fiumi di parole hanno inondato giornali e televisioni, per descrivere le conseguenze della “scissione” posta in atto dalla minoranza del PD alla vigilia di un congresso destinato a trasformarsi nell’ennesimo lavacro lustrale della leadership di Matteo Renzi, che ancora sconta le ammaccature della sconfitta referendaria. Fiumi di parole, destinate ora a tradursi in generici appelli all’unità contro i populismi, ora a risolversi in asfittici richiami al senso di responsabilità di chi non è più disposto ad assecondare le logiche del partito personale, ora a innervarsi della retorica (greve e vagamente cialtrona) che involge i reiterati riferimenti a vendette e strategie di potere. Fiumi di parole, volti ad edulcorare – colpevolmente o artatamente – la realtà prodotta dai quattro anni di ortodossa diffusione del Vangelo secondo Matteo, sfumando i limiti, le contraddizioni e le deformità di una stagione politicamente e democraticamente fallimentare.
Individuando nella segreteria del partito il trampolino utile per completare la scalata a Palazzo Chigi, Renzi ha declinato una strategia di governo tutta impostata su due fondamentali direttrici: il rafforzamento della propria immagine di capo carismatico – rafforzamento colpevolmente assecondato da una classe dirigente rivelatasi disponibile a barattare un patrimonio di storie e di esperienze personali di tutto rispetto con uno strapuntino sul carro del vincitore -; la costante ricerca di un nemico da abbattere, individuata quale efficace strumento di moltiplicazione del consenso. La prima direttrice ispirava il combinato disposto legge elettorale- riforma costituzionale, pietra angolare di un modello di democrazia “decidente” o “a bassa intensità”; la seconda orientava tanto la costante frustrazione delle istanze proposte da quelle categorie sociali che la sinistra si era da sempre impegnata a rappresentare, quanto gli attacchi agli esponenti della stessa area democratica che si ostinavano a segnalare all’ex segretario le insidie di cui era disseminata la sua personalissima road to perdition.
Il voto del 4 dicembre e la sentenza della Consulta che ha rilevato l’illegittimità costituzionale dell’Italicum ha così sancito il fallimento di questa idea di democrazia, ed ha correlativamente certificato la definitiva frattura intercorsa tra il PD e una fetta sempre più ampia di popolo della sinistra, abbandonato sulla via del Partito della Nazione e disposto ad andare incontro a una crisi di rappresentanza piuttosto che accettare la rottamazione del proprio substrato culturale di idee e valori.
Una simile crisi di rappresentatività e consensi richiedeva tre passaggi essenziali: una riflessione approfondita sulla genesi della stessa, sulle ragioni della sconfitta referendaria, sui limiti connaturati a una proposta politica che obliterava i progetti di ampio respiro in favore della forza deflagrante di un tweet; l’elaborazione di un programma inclusivo, che trovasse nell’attuazione dei valori costituzionali dell’uguaglianza, della solidarietà e del diritto al lavoro i propri obiettivi immediati; infine, il superamento di una classe dirigente e di una leadership rivelatesi, alla prova dei fatti, non all’altezza delle sfide che questa complicata fase storica propone.
Il prossimo congresso del PD persegue invece una strada diversa: nessuna analisi del referendum, nessuna critica a quel modello di democrazia a bassa intensità. Si va avanti con la classe dirigente plasmata dalla retorica della rottamazione, si va avanti con Matteo Renzi, che cerca nel passaggio dai gazebo una rinnovata legittimazione in grado di metterlo al riparo dalle conseguenze di un’altra probabile sconfitta in occasione delle amministrative di primavera. E’ troppo, per quel popolo della sinistra in crisi di rappresentanza; è troppo, anche per quegli esponenti dell’area democratica che hanno cercato di frenare la folle corsa verso il vuoto imposta dall’ex premier al partito, al Governo e al Paese.
Non valgono allora i generici appelli al senso di responsabilità, rivolti a chi, per amore della ditta, ha troppe volte assecondato scelte altrimenti insostenibili; non valgono gli altrettanto generici richiami al possibile incedere dei populismi, se declinati dai fautori di un paradossale (e a tratti sconfortante) populismo di governo; non valgono i riferimenti alle vendette di D’Alema o alle logiche conservative che governerebbero le scelte di Bersani, ultimo esemplare di politico capace di rinunciare alla poltrona di Palazzo Chigi pur di non stringere accordi contro natura con gli esponenti della peggiore destra berlusconiana.
La scissione posta in atto dalla minoranza del PD nasce, semplicemente, da una necessità e da un’occasione: dalla necessità di riaffermare la forza di un progetto di ampio respiro sull’incidenza degli slogan a centocinquanta caratteri, di contrapporre un’idea di collettivo alla logica del partito personale. E dall’occasione di restituire un riferimento a quella fetta di popolo della sinistra che i teorici della Svolta buona hanno ritenuto non meritevole di rappresentanza. Una necessità che non può essere elusa, un’occasione che non può essere persa: per la povera Sinistra, e per la povera Italia.
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