Fondi dei gruppi: condanne pesanti e possibili distinguo

21 Febbraio 2017
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Andrea Pubusa

La Sentenza emessa ieri dal Tribunale di Cagliari è clamorosa anche per gli effetti che produce: tre dei tredici consiglieri regionali condannati per peculato relativamente alla legislatura 2004-2009 sono stati rieletti a febbraio 2009 e adesso perdono il posto. La legge Severino scatta per forzisti Oscar Cherchi e Alberto Randazzo e per il leader dell’Uds Mariolino Floris. La sospensione avrà tutta la durata della pena. Quindi quattro anni e sei mesi per Floris, quattro per Cherchi e tre per Randazzo. E siccome alla fine della legislatura mancano 24 mesi, nessuno dei tre farà in tempo a tornare in Aula né si potrà ricandidare al prossimo giro. La sentenza, tuttavia, non produce la sospensione in modo automatico: la Procura di Cagliari dovrà notificare il dispositivo al Prefetto, il quale poi dovrà trasmetterlo alla presidenza del Consiglio dei ministri. Sarà poi quest’ultima a dare comunicazione alla presidenza del Consiglio nella persona di Gianfranco Ganau. La legge Severino trova applicazione perché il peculato rientra nei reati sanzionati dal decreto anti-corruzione, anche quando, come in questo caso, la sentenza è di primo grado ma la pena è superiore ai due anni di reclusione.
Non conosco gli atti e, dunque, rischio di fare una considerazione non pertinente. Tuttavia fra i condannati c’è M. Grazia Calligaris, che è persona che conosco e apprezzo per il suo impegno culturale attraverso la sua associazione “Socialismo, solidarietà e diritti“. E’ sempre stata ed è protagonista di battaglie democratiche e civili importanti. Questo caso, a fronte della gravità della pena irrogata all’ex consigliera, mi induce a fare una distinzione: una cosa è l’utilizzo dei fondi dei gruppi per fini del tutto personali che si concretizza in una forma di arricchimento dell’interessato, altra cosa è l’utilizzo improprio dei fondi per fini politici, anche se non strettamente consiliari. Sia ben chiaro, in materia non sono un buonista: credo che il reato si consumi già quando le somme transitano nei conti personali. Ricordo durante le mie due consiliature (1984-1994) i fondi venivano accreditati nel conto del gruppo del Partito comunista e ne disponeva il tesoriere sulla base di delibere del gruppo adottate in seduta collegiale. Quindi noi consiglieri non abbiamo mai avuto la disponibilità neppure di mezza lira. Tuttavia, mi sembra di capire che il costume è mutato, deteriorandosi, e dunque, a questo punto, in questo clima mutato, analizzerei a fondo la destinazione dei fondi, che ancorché non destinati ad attività latamente consiliari, potrebbero tuttavia essere stati spesi per attività politico-culturali. In questo caso penso che, stante la prassi instauratasi, in attesa di un ripristino di sani costumi, la posizione vada valutata diversamente, esulando probabilmente l’elemento soggettivo del reato.
Nessuna osservazione invece per gli altri casi. Se il consigliere, già fin troppo remunerato, ha lucrato a fini personali anche deli fondi destinati all’attività del gruppo, non credo possa godere di alcuna attenuante o comprensione.
Comunque, la lettura della sentenza consentirà di commentare la decisione con cognizione di causa.

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