Elezioni regionali nel 2019. Che fare nel frattempo?

21 Febbraio 2017
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 Tonino Dessì

Mentre il decorso del tempo ci avvicina rapidamente alle elezioni politiche generali, che, anticipate o meno, avverranno entro gli inizi della primavera del 2018, la politica sarda sembra aver cominciato i movimenti in vista delle prossime elezioni regionali, che però si terranno nel 2019.
La data della consultazione regionale è abbastanza lontana, a dire il vero e alcuni movimenti sono stati anticipati dai rumors di possibili dimissioni del Presidente della Regione, recentemente e, credo, definitivamente smentiti.
La XV legislatura regionale scorrerà, immagino, fino alla scadenza naturale: salute -sul piano personale, con sincerità, auspicabilmente- permettendo, carattere, orgoglio e senso di responsabilità di Francesco Pigliaru non mi hanno mai indotto a ritenerlo persona che getti facilmente la spugna.
Non prevedo tuttavia che conosceremo particolari colpi d’ala dell’esperienza in corso: il combustibile politico e programmatico, ma prima ancora l’humus culturale del centrosinistra-sovranista non era particolarmente innovativo in partenza e mi pare ormai francamente esausto.
Si può inoltre prevedere abbastanza facilmente che influiranno sulla politica sarda le vicende italiane: le dinamiche del PD, in particolare, non potranno non avere riflessi sulla maggiore forza politica della coalizione di governo regionale e quelle dinamiche sono strettamente collegate alle prospettive elettorali italiane, dal cui risultato a sua volta dipenderà il quadro politico di fine legislatura alla Regione.
Direi che specularmente il discorso può estendersi allo schieramento istituzionale di opposizione, quello di centro-destra.
Non è pertanto neppure da prevedersi a breve una modifica della contestatissima legge elettorale regionale: le forze politiche rappresentate nell’Assemblea legislativa la modificheranno soltanto quando sarà chiara l’articolazione dei soggetti in campo a ridosso delle elezioni. La legge vigente sarà modificata, per quanto riguarda premi e sbarramenti, a seconda di questa articolazione e dei possibili, eventuali “patti di sindacato”.
Viene da chiedersi se valga la pena -da parte di chi lo sta facendo- di avviare processi preelettorali così anticipatamente e, da parte di chi li osserva, di commentarli
Se tuttavia, nel contesto di impotenza della politica e delle istituzioni regionali (non di recente né di meramente autoctona origine) a modificare le condizioni economiche e sociali della Sardegna, la politica stessa si avventurasse sull’unico campo che è di suo pieno dominio, quello delle riforme “istituzionali”, ecco, allora sì che varrebbe la pena di esercitare una vigilanza attenta, anzitutto da parte di chi ha sostenuto la campagna referendaria contro la revisione costituzionale e in specie di chi intende proseguirla in chiave di attuazione e sviluppo del progetto costituzionale.
Mentre non ritengo realistico l’avvio di una rinegoziazione dello Statuto speciale (non ve ne sono minimamente le condizioni interne sarde, nè se ne intravvedono le condizioni parlamentari), resterebbe infatti nella disponibilità regionale la partita interna, quella della cosiddetta “legge statutaria”, concernente materia elettorale, forma di governo, organizzazione della Regione (e dell’ordinamento autonomistico complessivo) e forme di partecipazione popolare ai processi istituzionali.
A parte il tema elettorale, altre contingenze potrebbero stimolare la politica sarda in questa direzione: in primo luogo la necessità di rivedere lo scombinato assetto delle autonomie locali, prodotto dalla cosiddetta riforma dell’anno scorso, alla luce del risultato referendario che ha confermato le Province tra le articolazioni territoriali della Repubblica.
Credo che sarebbe una distrazione imperdonabile, per quanti continuano ad agire al di fuori dell’oligarchia partitica rappresentata in Consiglio, lasciar correre come routinaria qualunque discussione e decisione si sviluppassero eventualmente in sede istituzionale sui temi ordinamentali.
Ogni ipotesi di rifondazione della soggettività istituzionale della Sardegna (uso questo concetto ampio per non perdermi nelle differenziazioni ideali e progettuali che attraversano un campo di opinione e di formazioni d’ispirazione autonomista, sovranista, federalista, indipendentista) secondo me ha infatti come precondizione l’impronta che si vuol dare a quella seppur limitata forma di autogoverno della quale il quadro costituzionale e quello statutario, nella loro contingente materialità, ci consentono di disporre.
Le questioni da riassumere sono abbastanza note e, se devo immediatamente muovere una critica (mi piacerebbe fosse presa, almeno in questa sede, come mossa da sincero intento costruttivo), alle varie elaborazioni che leggo anche in queste settimane su giornali e social, è una critica alla confusione e alla reticenza proprio su tali questioni.
Recentemente ne ho sollevato una, senza la cui chiara definizione è difficile anche elaborare principi per una proposta di legge elettorale. Si resta nell’opzione di governo presidenzialista, oppure si riesamina la prospettiva di una forma di governo a fondamento parlamentare?
Non è cosa da poco. La forma di governo presidenziale, infatti, costituisce un confine materiale che limita, per esempio, una strutturazione proporzionalista della rappresentanza, postulando la presenza di un premio di maggioranza.
Solleverò in questa sede una questione ordinamentale di ancor maggiore portata.
La Regione che vorremmo (e in nuce la forma di soggettività eventualmente autonoma, distinta, federata o indipendente) che in molti diciamo di indicare come prospettiva, deve avere una struttura centralista, o deve connotarsi come un ordinamento nel quale il potere e le funzioni sono distribuiti fra tutte le articolazioni nelle quali si esprime la sovranità popolare?
Il tema del riassetto delle province, in particolare, torna ad essere cruciale. Perchè da questo dipende largamente la forma della Regione.
Lo Statuto indica programmaticamente, fin dall’origine (art. 44), che la Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole agli enti locali o valendosi dei loro uffici. La formula è abbastanza antiquata, ma non esclude affatto che anzichè di delega si possa parlare, in legge statutaria, di trasferimento o di attribuzione.
Sappiamo che uno dei maggiori tradimenti del programma statutario è consistito invece proprio nella realizzazione di una Regione centralistica (una brutta copia dello Stato italiano), con un apparato politico e burocratico ipertrofico, verticistico, rigido, lento, non trasparente.
Una tendenza che negli ultimi dieci anni almeno, anzichè invertirsi, si è accentuata.
Vogliamo uscire dal generico e avanzare una proposta radicalmente riformista?
La proposta non può che essere la devoluzione pressochè totale della funzione amministrativa a Province, Città metropolitana e Comuni, accompagnata dal più ampio potere regolamentare, dalle risorse e dal personale occorrenti, che andrebbero corrispondentemente loro trasferiti dalla Regione. Questo presupporrebbe una ridefinizione delle circoscrizioni provinciali e un ritorno pieno alla loro elettività, nonchè una ridistribuzione delle funzioni normativa e amministrativa tale da non ingenerare una gerarchia fra enti intermedi e comuni, ma una cooperazione intersistemica e intersoggettiva orizzontale.
Alla Regione cosa resterebbe?
Intanto resterebbe la funzione di relazione bilaterale, intersoggettiva con lo Stato nell’ambito dell’ordinamento europeo e di quello della Repubblica.
Non è questa la sede per approfondire i contorni di questo amplissimo ambito relazionale. Basti dire, per comprenderne l’ampiezza, che vi rientrano questioni come la partecipazione alle decisioni governative (il Presidente della Regione in Consiglio dei Ministri, il potere della Regione di chiedere la sospensione con decreto legge dei provvedimenti statali lesivi dei propri interessi, la reppresentanza diretta della Regione nelle sedi di elaborazione dei trattati commerciali che incidano sugli scambi di interesse regionale), già oggi contemplate dallo Statuto, ma del tutto ignorate.
Vi rientrano, ancora, il potere di iniziativa legislativa nazionale costituzionale, statutaria, ordinaria esercitabile dal Consiglio regionale, unitamente alla prerogativa di rivolgere al Parlamento ordini del giorno chiedendone la discussione.
Vi rientrano il concorso con lo Stato per la predisposizione del Piano organico (di rinascita: si, è una terminologia antiquata, ma sempre restano i concetti di piano organico, di concorso, di solidarietà e di aggiuntività delle risorse), nonchè tutta la questione della definizione della partita delle entrate tributarie e dei poteri in materia fiscale, ordinaria e di vantaggio (zona franca).
Insomma, per una Regione che ambisse a “farsi Stato”, ce ne sarebbe d’avanzo, purchè liberata dalla sua compulsione bipolare a farsi invece ora grande e unico Comune, ora Prefettura periferica dell’amministrazione governativa centrale.
Resterebbero poi la potestà legislativa, quella di programmazione e quella di bilancio. Su quest’ultima, in particolare, una ridefinizione dei compiti fra soggetti dell’ordinamento avrebbe ripercussioni dirette sulla rispettiva organizzazione.
E’ chiaro anzitutto che una Regione a dimensione e prospettiva “statuale” dovrebbe avere una fisionomia estremamente concentrata sulle funzioni strategiche, che però si “ridurrebbero” alla promozione dello sviluppo economico e dell’occupazione, alla tutela ambientale e paesaggistica, alla pianificazione territoriale, al finanziamento e coordinamento del welfare (istruzione, formazione, sanità, interventi per superare gli squilibri sociali e le povertà).
Il che comporterebbe una struttura politico-amministrativa estremamente ridotta, altamente qualificata, non burocratica: immaginiamoci cinque-sei dicasteri regionali e due o tre agenzie in luogo dei dodici assessorati e della pletora di enti e agenzie attuali.
L’altra conseguenza si avrebbe sulla finanza e sul bilancio regionale. E’ vero che l’articolo 8 e seguenti dello Statuto attribuiscono le entrate erariali alla Regione, non a Province e Comuni, le cui fonti di finanziamento sono tuttora rimesse prevalentemente alle leggi dello Stato (con le conseguenze, in termini di restrizioni, che abbiamo progressivamente conosciuto e alle quali sopperisce solo in parte la Regione). Ma questo non toglie che la funzione della Regione sia quella di restituire le risorse al sistema economico e sociale dal quale sono prelevate. Insomma sono “sue”, le entrate, ma pur sempre in nome e per conto dei contribuenti sardi.
L’idea che mi son fatto è che il bilancio regionale dovrebbe essere riarticolato in sole quattro grandi macro-voci: interventi strategici in economia (piccola e media impresa, agricoltura e zootecnia, attrazione, innovazione e ricerca), welfare (sanità, istruzione e politiche sociali a coordinamento regionale), reti di infrastrutture materiali e immateriali di livello regionale, finanziamento del sistema degli enti locali. Stop.
Non paia operazione concettuale di poco conto.
Una ristrutturazione strategica di tal fatta è la sola che potrebbe consentire, per esempio, di valutare la praticabilità di una misura di redistribuzione (che, ripeto, si configurerebbe pur sempre come una restituzione) delle entrate regionali in una forma non marginale, ma estesa di reddito di cittadinanza.
Mi vado sempre più convincendo che si tratterebbe di una misura utile non solo ai tradizionali fini sociali, di contrasto alla povertà, bensì anche ai fini economici, di rilancio dei consumi come stimolo all’economia e ai fini territoriali, come contributo a invertire lo spopolamento dei centri interni e minori.
Tuttavia questo davvero comporterebbe una drastica rivisitazione e riconversione della finanza regionale. Chi ha avuto pratica non meramente contabile della materia finanziaria sa che ogni voce, ogni capitolo, ogni comma delle leggi di bilancio e di spesa afferisce a soggetti e interessi di categorie sociali e di singoli e che questo ne implica una rigidità superabile solo in diretta conseguenza di grandi scelte politiche riformatrici dichiarate e, trasparenti, democraticamente condivise, pena una resistenza corporativa o assistenzialistica che non consentirebbe alcuna modifica razionalizzatrice e ridistributiva.
A conclusione del lungo (eppure ancora sintetico) ragionamento, quello che voglio dire è che difficilmente la legislatura in corso affronterà con questo respiro, pur avendone tutti i poteri, le questioni in campo.
Ma se soggetti e movimenti i quali si stanno già predisponendo per contendere all’establishment la rappresentanza e il governo alla Regione non si porranno fin d’ora, anche da una collocazione esterna all’attuale rappresentanza istituzionale, all’altezza di questa sfida, e si avviassero a presentarsi come meri cartelli elettorali, più o meno verniciati di ideologie e più o meno caratterizzati dall’ennesima corsa al “posto al sole” di individui, di gruppi, di sigle, l’interesse, anche elettorale, dei sardi verso di loro, ad onta di ogni velleità, non sarà più alto di quello che progressivamente va scemando nei confronti della politica in generale e concetti quali autonomia, specialità, sovranismo, federalismo, indipendentismo appariranno sempre più vuoti, perfino strumentali e alla fin fine tali da suscitare, più che disinteresse, addirittura ripulsa.

3 commenti

  • 1 bachisio
    21 Febbraio 2017 - 17:52

    TD come suo costume mette i piedi nel piatto nella situazione di apparente movimento nel quale naviga classe e politica sarda non per produrre fatti “strutturali” che cambiano la vita delle nostre sorelle dei nostri fratelli passando per figli e nipoti della nostra terra, ma solo e perchè si diceva un tempo -funti a su mundu poitta c’è logu-.

    Il ragionamento che svolge per la parte che a me interessa-quella relativa all’innesco di una una fase politica nuova che chiuda definitivamente la stagione dell’Autonomia e del modello di sviluppo ad essa legato e abbia la capacità di aprire la stagione dell’Autodeterminazione responsabile e di governo riformatore capace di “imporre” una visione moderna e sostenibile dello sviluppo- che è già oggi presente in largo modo nel “sentire” ampio di starti sociali diffusi e che non ha o non trova un corpo organizzato in grado non solo di federare e mettere assieme culture provenienze volontà e passioni e selezionare dal basso una leadership riconosciuta, autorevole e capace di portare “al governo” della Regione quel “sentire”.
    E che come dice bene TD deve averechiari i nodi dell’assetto istituzionale dell’erigendo sistema statuale sardo da delinea e che sono in quanto nodali una condizione sine qua non.

    Perchè se non si riparte dalla 1 del 77 per capire chi fa che cosa e perchè a cominciare proprio da sa regioni, per poi “allocare” competenze, risorse e poteri secondo modernità, economicità, sussidiarietà ed “utilità” diffusa e riconosciuta dai cittadini e dal sistema produttivo e delle imprese sarde, nazionali e internazionali, nn si va da nessuna parte. Inoltre questa operazione consentirebbe di fare pulizia , tra tutto il gran casino aperto dalla DELRIO, da quello lasciato aperto dal Tit V° “salvato ” il 4 dicembre e dal mega pasticcio prodotto in questa legislatura con la deforma degli EE.LL , evitando di insistere nello stesso errore fatale a Soru e che con la 24/2015 ha commesso questa maggioranza politica.
    Quindi su questo pezzo del ragionamento di TD direi OK senza se e senza ma.

    La parte che mi convince meno e che in parte nn mi convince per niente riguarda moi tempi e contenuti che TD esclude a priori dal suo ragionamento:
    - per fare quella chiarezza istituzionale di forma e contenuto che condivido occorrerebbe ammettere in via preliminare che il Principio di Autodeterminazione è l’orizzonte istituzionale e giuridico nel quale si colloca il rapporto negoziale-istituzionale con il governo e si articola la fase transitoria di leale collaborazione con il governo centrale e più in generale il dibattito post 4 dicembre sull’assetto regionalista dello Stato italiano;

    -approvare la finanziaria 2017 è una legge elettorale che spinga in avanti la possibilità di poter ragionevolmente far competere un polo identitario riformatore autonomista indipendentista a forte vocazione riformatrice e di governo non solo è utile ma necessario è andrebbe fortemente rivendicato.
    Io penso sia il minimo sindacale per restituire prestigio ed autorevolezza politica al Presidente che bene farebbe a seguire gesto e comportamento del tutto coerente con il suo essersi schierato convintamente per il SI, del suo ex assessore alle Riforme di fronte alle tesi sostenute e sonoramente bocciate da una moltitudine di sardi.
    Direi quindi tre steep:
    -Aggregazione ampia e plurale per l’autodeterminazione;
    -per fare nel modo e con i contenuti la costruzione istituzionale e di governo che TD indica;
    -Legge elettorale rivista e corretta, finanziaria e poi tutti a casa;

    Ad majora
    Bch
    Ad majora

  • 2 T.D.
    22 Febbraio 2017 - 11:13

    A riprova che vi sono persone attente e reattive anche a quanto di potenzialmente utile si può trovare persino in un modesto profilo FB come il mio, le riflessioni sulla prospettiva sarda dei giorni scorsi (https://m.facebook.com/notes/antonio-dess%C3%AC/il-percorso-verso-le-elezioni-regionali-sarde-%C3%A8-ancora-lungo-come-impiegare-bene/1833872450213403/) hanno stimolato alcune osservazioni da parte di persone impegnate nella politica attiva.
    Una è Pierluigi Marotto, animatore di Sardegna Sostenibile e Sovrana, che riprende quelle del commento di Bachisio.
    https://pierluigimarotto.wordpress.com/2017/02/21/costruire-la-rete-per-lautodeterminazione/
    L’altra è l’Assessore regionale Paolo Maninchedda, leader del Partito dei Sardi, che mi cita in coda a un intervento più generale.
    https://www.sardegnaeliberta.it/nessuno-regala-coraggio/.
    Ringrazio entrambi per l’attenzione, che, inutile schermirsi, mi gratifica non poco.

    A Marotto (e a Bachisio) due precisazioni.
    La prima è che con il Comitato di iniziativa costituzionale e statutaria stiamo appunto promuovendo la discussione su una legge elettorale “giusta”, che ripristini una rappresentanza in Consiglio regionale rispettosa della sovranità del corpo elettorale. L’indicazione è per un sistema proporzionale. Ne ho già scritto in altra occasione, dando anche qualche indicazione. Ma non mi pare che nessun soggetto politico esterno al Consiglio abbia finora raccolto gli spunti per un’iniziativa. Tutti aspettano, non so cosa, visto che dal solo Consiglio mi pare di aver chiarito cosa ci si possa aspettare.
    La seconda riguarda il principio di autodeterminazione. Nessuno lo concederà per iscritto anticipatamente, dovrebbe essere chiaro.
    L’autodeterminazione è, più che un principio, un fatto. Come un indumento, il vincolo di appartenenza a un ordinamento si strappa solo quando è diventato troppo stretto.
    Le rivoluzioni non si fanno prima dal notaio. Prima si fanno, poi se ne scrivono le conseguenze normative.
    Perciò evitiamo di cercare alibi. Chi ci crede, operi attivamente, maturi il consenso, culturale, sociale e politico, conduca una lotta che produca il fatto rivoluzionario.

    La citazione da parte di Paolo Maninchedda magari non è propriamente testuale e filologica. Io non mi sono spinto a parlare di un unico Partito progressista della nazione sarda, anzitutto per realismo e non uso più da tempo il concetto di “progressista”: considero più consono al mio attuale sentire il concetto di “democratico”, nel senso più radicale del termine.
    Ma non considero l’interpretazione di Paolo neppure inconciliabile con quello che intendo, fatto salvo che costruire partiti non lo metto fra i miei compiti.
    Come conciliare quindi quel che intendo con la prospettiva politica che sembriamo auspicare in molti spetta a chi è già soggetto politico rappresentato, oggi anche nel governo regionale, e a chi aspira alla rappresentanza e però, verso l’esperienza di governo regionale, è radicalmente critico.
    A me non mancano amore, per le cose fatte bene, nè pazienza, intendendo il rispetto per chi mette ingegno e compie la fatica di farle bene.
    È il tempo, tuttavia, che incalza e urge.
    E il tempo non perdona le occasioni eventualmente perse, perché in tal caso prende altre direzioni.

  • 3 Oggi mercoledì 22 febbraio 2017 | Aladin Pensiero
    22 Febbraio 2017 - 15:00

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