Canfora: la schiavitù del capitale e la molla della fratellanza

19 Febbraio 2017
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Gianfranco Sabattini

Copertina La schiavitù del capitale
Nel suo ultimo libro “La schiavitù del capitale” meraviglia non poco il fatto che Canfora, alla fine della sua analisi sull’avvento del dominio del capitale sul mondo, contrariamente a quanto sarebbe logico attendersi, dato il metodo adottato per la sua interpretazione del processo storico, quello della dialettica marxista, offra una prospettiva liberatoria del mondo tendenzialmente acquiescente, quasi fatalistica.
Egli, infatti, conclude, contraddicendo coloro che si illudono di poter conoscere il senso del processo storico e penano di poterlo governare o guidare, riproponendosi “ancora una volta come interpreti se non addirittura piloti di esso”; in realtà, sarà solo possibile “immaginare che anche costoro, alla lunga, non reggeranno: a fronte, oltre tutto, di una veloce e incessante mutazione tecnologica, che destabilizza, in fretta, ogni certezza”. Non è certo una conclusione consolatoria, per chi crede ancora possibile una qualche forma di mobilitazione, volta a porre rimedio alle ingiustizie alle quali ha condotto l’ultima “temporanea ‘sentenza’ della storia”, secondo la quale, per ora, “chi sfrutta ha vinto la partita contro chi è sfruttato”, fino a monopolizzare il controllo della cultura e la disponibilità di ogni risorsa e a ripristinare forme di “dipendenza di tipo schiavile”, anche all’interno del aree più avanzate del mondo, addirittura col supporto della criminalità organizzata.
La conquista del dominio sul mondo, da parte dell’Occidente, è avvenuta, secondo la narrazione di Canfora, “attraverso il rivoluzionamento dell’arte della guerra, dalla congiunzione […] di ‘vele e cannoni’, del veliero con il cannone e la polvere da sparo”, che ha consentito all’Occidente il controllo di ogni sua periferia, “raggiungendo via mare e conquistando, con le bocche da fuoco issate sulle navi, la supremazia nelle estreme retrovie degli imperi terrestri dell’Asia”. E’ da quel momento che, secondo Canfora, ha avuto inizio il predominio planetario dell’Occidente, dando così il via ad una “rincorsa” nella quale la parte che ha vissuto un’esperienza significativa è stato l’Occidente e non il resto del mondo: non è stato l’Occidente ad essere colpito dal mondo, è stato il mondo ad essere colpito dall’Occidente.
La conclusione del processo di conquista ha visto consolidarsi, “da un lato un centro dinamico e aggressivo, dall’altro una serie di mondi, posti via via a contatto, o meglio in conflitto con quel centro”. Nel corso del XX secolo, tuttavia, l’Occidente ha, sì, vinto la sua “rincorsa” verso il Mondo; ma si è trattato di un risultato scosso da fermenti interni che ha reso instabile la posizione del vincitore. Dopo quarant’anni di guerra fredda, nella seconda metà del secolo scorso, affrontata con un’opposizione di sistema nata al suo proprio interno, l’Occidente è riuscito a confermare l’originario “spirito di conquista”, illudendosi, con un’ulteriore espansione, che la “presunta ‘conclusione’ della storia, con la caduta del suo principale antagonista, l’URSS, segnasse la fine di ogni possibile opposizione al suo dominio incontrastato a livello mondiale. In realtà, afferma Canfora, l’illusione ha fatto velo sul fatto che la presunta conclusione fosse solo un “tornante” del processo storico.
Infatti, l’Occidente si trova ora a dover fare “fronte a controspinte molteplici, tutte gravide di conflitti e di tensioni”; di nuovo, quindi, deve sobbarcarsi l’onere di un conflitto continuo, per cui più esso “sfida il mondo […] e più aspra è la risposta”; questa, tra l’altro, oggi non si configura più in termini di confronto tra l’Ovest e l’Est, ma tra il Nord ed il Sud del mondo, da intendersi – secondo Canfora – in senso non strettamente geografico, in quanto il Sud perdente si è espanso, sia pure a “pelle di leopardo”, anche all’interno dell’area Nord vincente del mondo. Questo fenomeno di infiltrazione del Sud sfruttato, all’interno del Nord avanzato, è un fenomeno destinato ad allargarsi, attraverso quello dell’immigrazione, consentendo a coloro che lo alimentano di venire a “riprendersi quello che lo ‘scambio ineguale’ ha tolto loro”. Il problema che caratterizza l’inizio del nuovo secolo, quindi, non è più quello di regolare o governare i rapporti tra Occidente e Oriente, ma quello “di riequilibrare quanto prima possibile l’ingiusta divisione della ricchezza. Senza di ciò, - afferma Canfora – il conflitto per la sopravvivenza […] sarà la caratteristica dominante dei decenni che ci attendono”.
Parallelamente al conseguimento del dominio sul mondo, il capitalismo in tutte le sue coniugazioni, sorretto unicamente dalla logica del denaro, non ha liberato i Paesi che lo hanno adottato come modo di produzione dalla mentalità schiavistica originaria, in quanto dimensione endemica dell’ideologia capitalistica. Malgrado le dichiarazioni solenni con cui ne è stata decisa l’abolizione, oggi lo schiavismo, con il contributo del settore criminogeno della malavita organizzata, presente nei Paesi più avanzati dell’Occidente, è tornato a permeare di sé la concreta realizzazione del processo di accumulazione capitalistica; in conseguenza di ciò, “mentre nel cuore dell’Occidente va via via riducendosi la centralità dell’antagonismo capitale/lavoro salariato”, le “residuali ‘aristocrazie’ operaie dell’Occidente sono per lo più cointeressate alla compartecipazione ai vantaggi del sistema”.
Perdurando la situazione di dominio dell’Occidente sul mondo, permane l’interrogativo se mai sia possibile trascurare la circostanza che i Paesi più avanzati debbano godere del “diritto al primato in ogni ambito”; di consentire, cioè, a tali Paesi di appropriarsi della “fetta più grossa in tutti i campi, anche se pontificano ipocritamente di voler estendere il “proprio modello a tutto il pianeta”, pur sapendo che se ciò accadesse “abbasserebbe ipso facto lo standard di vita di chi sta in cima alla piramide”.
Quale speranza si può fondatamente nutrire, all’inizio del nuovo secolo, di poter porre rimedio allo squilibrio globale esistente? Canfora, pur confidando nel fatto che la storia è “un processo sempre aperto”, non esita a manifestare, almeno con riferimento al continente europeo, un totale scoramento, per il venir meno delle possibili soluzioni utopistiche sinora perseguite: da un lato, il “socialismo” e l’idea di “progresso; dall’altro, la realizzazione del progetto europeista. L’utopia del socialismo – sostiene Canfora – eha esaurito il suo ciclo vitale, già ben prima che finisse il XX secolo, mentre quella del progresso è stata “smentita dai fatti; e sembra non solo arretrare ma soccombe”. Quanto all’utopia del “sogno federalista europeo”, “quale è espressa nel Manifesto di Ventotene”, fondata su grandi propositi di rinnovamento, si può oggi constatare come non sia mai stato possibile iniziare a realizzare tali progetti e come sia fallita anche l’attuazione dell’”interpretazione meramente bancaria” che di quei progetti e stata tentata.
Tuttavia, a parere di Canfora, a consolare quanti aspirano alla realizzazione di un mondo più giusto, non resterebbero che due residue utopie, “tra loro molto distanti, ma entrambe in difficoltà: l’utopia della fratellanza e l’utopia dell’egoismo”. Le difficoltà della prima sono riconducibili al fatto che le “forze per attuarla sono poche e disperse. Paradossalmente – afferma Canfora – sono le aree povere, che l’UE considera peso morto del fortilizio monetario (la Grecia, lembi di Italia e poco altro), a tentare di tradurre in opere tale utopia antichissima, e forse difficile da spegnere”. Le difficoltà della seconda utopia, quella dell’egoismo, sono bene rappresentate dalle condizioni di sopravvivenza dell’Unione Europea, la cui ragion d’essere in questo momento si identifica nella difesa di “una moneta inutilmente competitiva e nello smantellamento delle conquiste sociali novecentesche”.
In questa situazione, a quali utopie potranno affidarsi coloro che pensano di poter governare il processo storico? Si può solo immaginare che anche costoro non riusciranno nell’intento, a causa dell’”incessante mutazione tecnologica”, che varrà a far volatizzare ogni certezza; ciò non ostante, l’aspirazione all’uguaglianza, essendo “una necessità che si ripresenta continuamente come la fame”, varrà a tenere in vita l’idea politica di quell’aspirazione. Ciò perché l’idea di uguaglianza, come quella sostenuta, ad esempio, in tempi a noi vicini, dai grandi portatori dell’utopia ugualitaria, quali sono stati Giuseppe Mazzini e Karl Marx, per quanto non realizzata, possiede una forza propulsiva capace di alimentare la prosecuzione del processo storico; questo, infatti, in quanto processo aperto, lascia sempre viva la possibilità che ciò che ostacola il suo incedere sia, prima o poi, radicalmente rimosso.
Di fronte a questa conclusione tiepidamente consolatoria di Canfora, viene spontaneo chiedersi: ci si deve affidare solo alla speranza? O è lecito pensare che quanto da ultimo è stato tentato per realizzare l’idea dell’uguaglianza ha trovato un limite, al di la degli ostacoli derivanti dell’incessante mutazione tecnologica, nella forma che ha assunto l’opposizione di sistema? In questo caso, è stato inevitabile il fallimento di coloro che si erano illusi di controllare e guidare il processo storico attraverso modalità prefiguranti un “inferno in terra”; fatto, questo, che legittima tentativi alternativi di tendere a realizzare, sia pure asintoticamente, ciò che sinora è risultato impossibile.

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