Tonino Dessì
Virginia Raggi è una giovane politica con una personalità forse borderline, analoga a quella di molte persone ambiziose, non solo di quest’epoca. Basti pensare a Renzi: ma non è di lui che ora voglio parlare.
Lei si è imposta come candidata avvantaggiandosi del fatto che nè Di Maio nè Di Battista volevano giocarsi la carriera su un’avventura pericolosa in Campidoglio, ha sbaragliato spregiudicatamente la concorrenza interna al M5S romano, al primo turno elettorale ha staccato nettamente centrosinistra e centrodestra, entrambi screditati dalle precedenti alternanze al governo della Capitale, ha travolto al ballottaggio un candidato del PD inconsistente come Giachetti.
La consapevolezza della posta in gioco e le diffidenze interne avevano indotto il M5S a circondarla con un “direttorio”.
La Sindaca a sua volta si è circondata di un suo gruppo, probabilmente con l’idea di garantirsi una struttura autonoma di sostegno, anche nelle scelte amministrative. Ha in questo attinto a un’area di persone derivanti, più che dalle sue precedenti frequentazioni professionali, da relazioni di tipo personale, non del tutto esterne agli ambienti che hanno cominciato ad affollarsi intorno al M5S e a lei stessa.
Calcolo personale (garantirsi politicamente anche “a destra” e sul fronte interno degli apparati amministrativi) e sottovalutazione del mare di corruzione che impregna la politica e l’amministrazione romana, l’hanno portata a mettersi nelle mani di una cosca di maneggioni radicata nei meandri della burocrazia capitolina, il cui elemento di punta si è rivelato essere Raffaele Marra.
Dio solo sa, in un simile accrocchio, cosa caspita significhino, poi, stranezze come quella delle due polizze-vita intestatele quale beneficiaria dal suo collaboratore-consigliere Salvatore Romeo, a suo tempo subalterno del Marra all’interno della struttura comunale.
Dal contrasto fra la Sindaca e il poi disciolto “direttorio” ha avuto origine il caos politico che ha caratterizzato tutta la consiliatura romana fino ad oggi.
A me non stupiscono l’attenzione mediatica diffidente e neppure l’attacco esterno virulento di cui la nascente esperienza amministrativa romana è stata oggetto pregiudizialmente fin dall’inizio.
Erano del tutto prevedibili.
Sono invece colpito da due aspetti, sui quali tuttavia non concordo con l’impostazione pressochè universalmente prevalente delle analisi di quanto sta accadendo.
Il primo aspetto attiene all’incongruenza che sta emergendo fra linea politica generale del M5S e modalità operativa di gestione della vittoria elettorale.
Un’incongruenza che coinvolge Sindaca e Movimento insieme.
La fase finale della consiliatura Marino è stata tutta giocata dentro il nuovo PD renziano e nell’ambito dei suoi rapporti con i poteri forti della Capitale, per eliminare un Sindaco certamente poco consistente, ma altrettanto sicuramente non omogeneo agli assetti e alle dinamiche spartitorie dell’ambiente romano. Gli sconcertanti comportamenti del Partito Democratico nazionale e locale, sostenuti da una inquietante campagna mediatica, hanno provocato una crisi che ha finito per fare esplodere proprio quegli stessi assetti e quelle stesse dinamiche.
Ne è venuta fuori, scoperchiata anche dall’indagine giudiziaria “Mafia Capitale”, una realtà politica e amministrativa, ma prima ancora economica e sociale, diffusamente e profondamente corrotta, illegale, prossima, appunto, ai moduli mafiosi.
La vittoria elettorale ha conferito al M5S un mandato popolare amplissimo per far saltare quel sistema e per ricondurre alla legalità democratica la Capitale.
Certo: un mandato improbo, da realizzare in un clima di resistenze e di ostilità alimentato dalla paura delle possibili conseguenze su soggetti e interessi di dimensione non solo locale.
Come si è potuto pensare che un mandato del genere potesse adempiersi con le sole fragili forze di una struttura organizzativa quasi inesistente del Movimento, senza ricorrere all’evocazione e alla promozione attiva di un più largo “movimento di salute pubblica” e senza attingere a più ampi e non compromessi ambienti democratici disponibili?
Per combattere una battaglia del genere (e uso appropriatamente il termine “battaglia”, con tutta la portata cruenta che esso comporta), la tanto vituperata -dai benpensanti moderati e dalla sinistra radicalmente salottiera- maleducazione intemperante e aggressiva dei social ha meno efficacia dell’acqua fresca.
Occorrono chiarezza di obiettivi, coraggio, determinazione anche brutale, alleanze conformi, senza escludere da queste, all’occorrenza, tanto la piazza, quanto le Procure (anche per non finire passivamente nel mirino dell’una come delle altre).
L’illusione del traccheggio propagandistico accompagnato dagli accomodamenti ambigui non depone al momento, in questa vicenda, a favore della capacità del M5S di dar seguito a quello che ci si aspetta (chi li ha votati e chi no), da un soggetto che si è presentato in concorrenza e in alternativa con i partiti e con la politica tradizionali.
La seconda cosa che mi stupisce e che mi allarma attiene alla gestione interna del M5S.
Oggetto delle critiche prevalenti finora è stato quel mix tra forme rudimentali, poco sofisticate, di esercizio dell’elaborazione e delle decisioni collettive (i meetup ristrettissimi, la piattaforma web, il blog), da un lato e, dall’altro, quel “leninismo privatistico” che concentra sulla “Casaleggio Associati” e sul “Garante” del Movimento tanto la proprietà del brand, quanto le decisioni ultime. Non meno criticate sono state quelle forme anch’esse di tipo privatistico, contrattuale, di imposizione di vincoli di mandato e disciplinari, persino sanzionati patrimonialmente, agli eletti.
Se ne è deplorata la scarsa democraticità. Una deplorazione, quando avanzata da concorrenti partitici, assai debole e del tutto ipocrita, considerata la vita interna di tutti i partiti e partitini tradizionali, anche alla luce di un sistema di selezione delle rappresentanze fondato su liste di nominati dalle rispettive segreterie. I risultati li vediamo ogni giorno da tempo ad ogni livello su scala ben più ampia che non quella del M5S.
Credo piuttosto che, vivente Casaleggio senior, l’idea di garantirsi come fondatori il controllo di un soggetto altrimenti amorfo attraverso gli strumenti che abbiamo visto, fosse dovuta anche alla previsione del rischio che avrebbe comportato una rapidissima esplosione della sua attrattività per ogni genere di individui, mossi sia da buone sia da meno oneste motivazioni. Un rischio oggettivo ben presente e tale da non dover provocare, nei confronti di qualsiasi strumento per prevenirlo, nessuno scandalo in persone consapevoli di certi meccanismi strutturali della politica.
La parlamentare pentastellata Roberta Lombardi ha ammesso in una dichiarazione, tuttavia, l’unica cosa problematicamente sensata e interessante, almeno a mio avviso, che si sia letta in questi giorni tramite la stampa: “Siamo stati ben bene infiltrati”.
L’affermazione, calata in Italia, ha il suo peso. È infatti evidente che il rischio dell’infiltrazione -in una realtà nella quale poteri istituzionali deviati e interessi criminali organizzati competono tra loro e con i poteri democratici legali per il controllo della vita pubblica- è esponenziale nei confronti di un soggetto politico nascente, in espansione, politicamente determinante.
Anche in questo caso l’interrogativo da porsi riguarda l’adeguatezza della dirigenza del M5S, scomparso il fondatore-ideologo, ma rodata una fascia di eletti di ormai non irrilevante esperienza istituzionale, al compito per il quale si sono proposti e vorrebbero addirittura proporsi più estesamente reclamando nuove elezioni politiche generali.
Ho espresso in varie occasioni l’opinione che il M5S farebbe bene (è ancora in tempo, ma il tempo corre) a riflettere sull’opportunità di un più consapevole e convinto ancoraggio ai valori della Costituzione che ha decisivamente contribuito a difendere in occasione del referendum.
Sarebbe un modo per garantire anzitutto sè stesso dai rischi di approssimazione sia nelle scelte politiche, sia nella formazione di appartenenze e di rappresentanze affidabili.
Adempiere al mandato di rinnovamento nell’ambito di un programma di attuazione della Costituzione comporta molta radicalità operativa, concreta, non riducibile a mera propaganda.
Richiede anche (abbia pazienza chi legge, se uso un altro concetto hard) più e non meno giacobinismo interno, nella selezione e nella garanzia di coerenza tra progetto, linea, persone.
Il che non significa tuttavia nè chiusura settaria verso l’esterno, nè processi decisionali interni privi di democraticità. Semmai il contrario.
Roma può essere la tomba del M5S.
Se l’andazzo non apparisse robustamente correggibile, forse sarebbe meglio staccare la spina con una autonoma decisione esemplare, anche al fine di produrre un reset della vita e del funzionamento del M5S in generale.
Se infatti il M5S continuasse, invece, a rivendicare la propria diversità, ma a praticare al contrario forme di omologazione persino grottesche, sarebbe di gran lunga peggio.
Si innescherebbe un declino mortale che non gioverebbe alla politica nè al Paese.
1 commento
1 Oggi sabato 4 febbraio 2017 Carnevale | Aladin Pensiero
4 Febbraio 2017 - 10:21
[…] Roma, Raggi, M5S: una prova decisiva. Tonino Dessì su Democraziaoggi. sabato 4 feb 2017 […]
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