Andrea Pubusa
Si è tenuta lunedì la prima Conferenza indetta dal “Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria“, già Comitato per il NO, e dall”ANPI con il costituzionalista Massimo Villone. Si è parlato dell’esito del referendum e del terremoto ch’esso ha innescato nella politica nazionale. Anche se molti tendono a nasconderne gli effetti, il disarcionamento di Renzi ne è una conseguenza immediata, lo è la dinamica nuova impressa alla politica nazionale, dove gli equilibri all’interno del PD sono stati sconvolti e molti si smarcano dal “pazzo”, ritenendolo ormai impresentabile. Altrettanto è avvenuto a livello regionale dove Pigliaru, dopo il 4 dicembre, è scomparso non solo e non tanto per malattia fisica quanto per la consapevolezza della sfiducia politica che qui più che altrove, col 72% dei NO, l’elettorato ha espresso alla giunta e al suo presidente. Pigliaru non si dimette sol perché la sua uscita di scena comporta nuove elezioni e il PD, sempre più raggruppamento di consorterie in lotta fra loro, teme, e giustamente, la quasi certa débacle elettorale. Non si dimette, ma è stato dimesso dal popolo sardo.
Villone, nel suo chiaro intervento, ha illustrato luci ed ombre delle recenti sentenze della Corte costituzionale sul Jobs Act e sull’Italicum. In particolare, l’eminente costituzionalista di scuola napoletana ha messo in luce come la Consulta può manipolare un testo di legge, ma non può sostituirlo, neppure in parte. L’esito insoddisfacente della decisione dei giorni scorsi, nelle parti in cui salva il premio di maggioranza sopra la soglia del 40% e i capilista seppure col sistema del sorteggio, rimette alla politica la questione della vera riforma del sistema elettorale. Qui entrano in gioco i Comitati per il No, che possono avere un ruolo importante sottraendo la materia al gioco delle convenienze di partito e rimettendo al centro l’esigenza di rilancio della rappresentanza, elemento fondante della democrazia e delle sovranità popolare. Qui Villone ha messo in luce finemente il nesso inscindibile che lega il carattere pienamente democratico e rappresentativo dei parlamenti e le politiche popolari. Solo parlamenti espressione delle grandi masse popolari fanno leggi nell’interesse della generalità dei cittadini e delle classi disagiate. Di qui l’impegno verso un sistema elettorale di tipo proporzionale, nella convinzione che la governabilità non oligarchica si può raggiungre solo con la creazione di un blocco sociale interessato alla trasformazione democratica del Paese. La governabilità in senso democratico, insomma, non è frutto di alchimie legislative, ma di una seria politica di alleanze di forze popolari fondate su programmi.
Ecco perché, senza trascurare la battaglia sui temi sociali, dal lavoro all’occupazione, alla pace, il tema elettorale è oggi prioritario. Perché da una vera rappresentatività del Parlamento e delle assemblee elettive discende la possibilità di una politica d’ispirazione sociale in attuazione del dettato costituzionale.
Questo è un compito prioritario anche in Sardegna di fronte al vuoto di potere della giunta Pigliaru, dovuto alla sua scarsa rappresentatività ad onta del 60% dei seggi e alla scomparsa del PD come partito capace di programma e di governo. Questa implosione del PD è dimostrata dal penoso iter per la ricerca di un nuovo segretario regionale, dopo le dimissioni del precedente…per evasione fiscale.
Ora l’obiettivo di ritorno alla normalità democratica anche in Sardegna è apparentemente minimo, ma è il presupposto per i passi ulteriori in senso istituzionale e sociale. E, in questo alveo, un ruolo importante hanno i gruppi che si muovono nell’ottica dell’autogoverno. E’ fuor di dubbio che, fatta una seria legge elettorale, occorre mettere al governo della Regione gruppi dirigenti orientati ad ottenere - come diceva Umberto Cardia - il massimo di poteri per la Sardegna compatibili con un ordinamento unitario. Cos’è sovranismo? Federalismo? Non so, mi va bene però la sostanza: per intenderci un sardismo-socialismo alla Lussu. Bisognerebbe poi interpretare e applicare lo Statuto forzandone al massimo le potenzialità autonomistiche. Chi impedisce d’integrare, secondo la previsione statutaria, i programmi scolatici con elementi di storia e di lingua sarda? Chi vieta di pretendere una disciplina di convocazione del presidente della Regione al Consiglio dei ministri, lasciando a lui stabilire quando si discutono in seno al governo questioni d’interesse della Sardegna? E il concorso sardo alle decisioni sui trasporti che ci riguardano? E a quel punto individuare le singole parti da cambiare in un processo continuo di adeguamento ed ampliamento.
Conosco le obiezioni: questo gradualismo non paga. D’accordo, ma l’alternativa quale è? L’attuale immobilismo regressivo o il contestuale velleitarismo? Aprire oggi un confronto con lo Stato sullo Statuto significa bruciare la specialità, essendo ben noto che l’humus antispecialità è dominante in tutte le forze politiche e culturali nazionali. Badate anche molti di coloro che hanno votato NO, se messi in condizione di ridimensionare le autonomie speciali, non sarebbero contrari.
Anche le questioni di principio, un solenne prambolo sul popolo sardo e la sua natura, non sono un prius o una pregiudiziale rispetto a questo processo di crescita, ma un posterius, un risultato di essa. Ho già detto e ripeto credo che la costante sarda non sia quella resistenziale di cui parlava il buon Lilliu, non a caso democristiano e poi soriano, ma sia quella della stoltezza e della divisione permanente, premessa di ogni subalternità. Segno di questa è la incapacità di convergenza e unità delle forze alternative al blocco PD-FI, che ha cucinato la legge truffa regionale. Finora è stato così, ma chissà…Se c’e qualcuno pronto a unire il fronte popolare in una prospettiva dichiarata di governo, senza pretendere la leadership, batta un colpo.
1 commento
1 Oggi mercoledì 8 febbraio 2017 | Aladin Pensiero
8 Febbraio 2017 - 09:26
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