Proprietà privata o “proprietà privante”?

21 Gennaio 2017
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Gianfranco Sabattini

 

Dopo il “Manifesto” sui “Beni comuni”, Ugo Mattei torna sempre, per i tipi di Laterza, su un tema a lui caro, con la pubblicazione, nella collana “Idola”, di un nuovo saggio, dal titolo “Senza proprietà non c’è libertà. Falso!”. Il saggio non si discosta nella sostanza dal “Manifesto”, almeno nelle conclusioni, mentre il corpo centrale dell’analisi è costituito dalla critica che Mattei effettua del rapporto, largamente condiviso dalla cultura moderna dell’Occidente, tra proprietà e libertà.
Al riguardo, Mattei ritiene che la liberazione dell’umanità dai ceppi del “terribile diritto” debba essere “unicamente lo studio giuridico della proprietà privata nei suoi dettagli tecnici, che sfuggono a chi la guarda da storico, da filosofo, da sociologo e ancor più da economista”, producendo “materiali inconfutabili per sostenere la tesi che la proprietà privata, lungi dall’essere guardiana di ogni altro diritto […], sia invece istituzione carnefice della libertà stessa insieme dell’emancipazione, della solidarietà e della cittadinanza. Dietro la locuzione proprietà privata si nasconde, infatti, un potere privante, che istituzionalizza estrazione e sfruttamento dell’uomo e della natura e che in questo senso è il peggior nemico della libertà intesa come emancipazione”.
In tal modo, come viene osservato, Mattei confuta l’ipotesi dominante che configura la proprietà privata come la base della libertà dei moderni, sostenendo che essa, in realtà, nasce da atti predatori originari, consumati ai danni dei più ad opera di ristretti gruppi dominanti. All’origine della proprietà privata starebbe perciò il potere di questi gruppi, al quale è corrisposta sempre una soggezione e, dunque, la mancanza di libertà da parte dei dominati, per cui tanto più liberi sono i dominanti, tanto meno liberi sono i dominati. Con l’interpretazione della proprietà come esito di un atto predatorio, Mattei introduce, nella sua critica al diritto moderno di proprietà privata, il concetto di “proprietà privante”, come espressione della natura escludente dalla fruizione dei beni oggetto del diritto di proprietà nei confronti di coloro che sin dall’origine ne sono stati privati, e continuano ad esserlo oggi, per via della forma di produzione capitalistica fondata appunto sul “terribile diritto”.
La proprietà privata, divenuta “potere privante”, è oggi la vera sovrana; è lei – afferma Mattei – a risultare sovrana e non il popolo come affermano le “declamazioni costituzionali. E’ lei a dominare lo Stato e riproporre con successo disuguaglianze e rappresentanza di senso. E’ lei che paradossalmente può sovvertire l’ordine costituzionale e ha i mezzi per tacciare di sovversivo chi ne smaschera la metamorfosi“. Oggi, nelle società capitalistiche, dominate dal libero mercato e dal dominio del capitale sarebbe l’economista il “vero sacerdote dell’organizzazione sociale”, strettamente connessa con il modo di produzione che ha il suo fulcro insopprimibile nel diritto di proprietà privata. E’ infatti con la teoria economica classica, affermatasi a cavallo tra il XVII e il XIX secolo, che gli economisti hanno espulso dal proprio campo d’indagine il problema della distribuzione delle risorse; espulsione che subirà la formalizzazione più rigorosa con la cosiddetta “rivoluzione marginalista, una rifondazione della teoria economica, che sostituirà la teoria del valore dei beni prodotti, basata sulla quantità di lavoro in essi contenuto, con la loro utilità, espressa dal loro prezzi di mercato. In tal modo – afferma Mattei – la teoria economica si è liberata “della locuzione ‘politica’” ed è divenuta “come oggi semplicemente ‘economia’ […], rivendicando neutralità, oggettività e status scientifico in un legame strettissimo col positivismo metodologico”.
Con la formalizzazione della nuova teoria economica, la distribuzione attuale delle risorse è il solo dato di fatto che può essere assunto nell’analisi scientifica dell’attività economica; essendo il problema della giustizia distributiva un problema collocato nel mondo del “dover essere”, ossia in quello dei valori, e non un problema collocato nel mondo dell’”essere”, a differenza di quanto può accadere nel primo mondo, in quello dell’essere non ci si può dividere politicamente sulle soluzioni proponibili, in quanto scientificamente fondate.
Nello scenario dominante della teoria economica moderna (neoclassica), si è ossificato il convincimento fra gli economisti che nello studio dei fatti economici ci si debba occupare solo dell’impiego efficiente delle risorse scarse disponibili e non della loro giusta distribuzione tra tutti i componenti dei sistemi sociali. Allo steso modo degli economisti, anche i loro colleghi giuristi hanno condiviso l’idea che le proposizioni giuridiche potevano essere analizzate scientificamente solo sul piano delle leggi vigenti e non su leggi solo immaginarie, o non ancora adottate dal sistema della legalità esistente.
Dopo la Grande Guerra, questo convincimento degli economisti e dei giuristi è stato in parte “oscurato” dalla cosiddetta rivoluzione keynesiana, la quale, senza peraltro criticare ab imis l’assunzione della distribuzione delle risorse come un dato, ha messo tuttavia in evidenza come non si potesse avere uno stabile ed efficiente funzionamento del sistema economico, senza una giusta distribuzione del prodotto sociale, implicante sia pure indirettamente un’attenuazione del diritto di proprietà privata delle risorse, esprimenti il capitale sociale a disposizione di ogni gruppo statualmente organizzato. Tuttavia, l’antico convincimento, conservatosi sotto traccia sino alla metà degli anni Settanta, è potentemente riemerso- afferma Mattei – “dopo decenni di paziente lavoro clandestino della Mont Pelerin Society (il gruppo di studio internazionale fondato da Hayek, Friedman e von Mises), con il trionfo di Reagan e della Thatcher, travolgendo qualsiasi progetto di ridistribuzione della proprietà privata”. La diffusione del pensiero montpeleriniano, abbracciato “improvvisamente e voracemente” dalle forze politiche di sinistra, ha portato con sé “un rinnovato culto delle proprietà privata e del suo legame con la libertà”, mentre le privatizzazioni delle risorse pubbliche, inaugurate a partire dagli anni Ottanta, sono state presentate come liberalizzazioni del mercato.
Il crescente processo di privatizzazione è valso, a parere di Mattei, a trasformare la proprietà delle risorse pubbliche in proprietà privante, la quale è divenuta tanto forte da riuscire a sottrarsi ad ogni forma di controllo da parte dello Stato, “privatizzandone e dominandone le istituzioni”. Di qui  - conclude Mattei – la necessità, oggi, “di un ripensamento istituzionale profondo di natura, a sua volta necessariamente costituente, che […] sappia in tal modo ricostruire istituzioni proprietarie generative e non estrattive”.
Queste nuove istituzioni, sulla quali saranno chiamati a lavorare giuristi ed economisti, non potranno più essere viste come istituzioni che, in nome della libertà, siano finalizzate a proteggere la crescita senza limiti, lo sfruttamento continuo delle risorse e delle persone e il perseguimento incondizionato del profitto e della rendita; al contrario, esse dovranno essere volte a rendere sostenibile, dal punto di vista ambientale, il funzionamento del sistema produttivo, attraverso una riconversione del sistema sociale attuale che, in quanto plasmato dal capitalismo globalizzato, è ormai al collasso. Solo scrollandosi di dosso la logica perversa del capitalismo, la civiltà umana può salvarsi, “mediante una riconversione culturale dell’Occidente, attraverso un nuovo senso comune, che nasca dalla resistenza diffusa, pubblica e privata, ma sempre collettiva, nei confronti della proprietà privante e dei suoi inganni ideologici e individualizzanti”.      

Considerazioni critiche sulla tesi di Mattei

La critica di Mattei contro l’istituto della proprietà privata, sebbene condivisibile quando essa è riferita in particolare alle risorse naturali, e le proposte suggerite per innovare l’attuale struttura istituzionale e produttiva dei sistemi sociali dell’Occidente sono però poco realistiche. La critica riecheggia le tesi di Serge Latouche e di tutti i “decrescisti” e, al pari di questa manca di specificare attraverso quali procedure sia possibile promuovere una transizione ad un modello organizzativo dei sistemi sociali capitalisti in grado di salvaguardare l’integrità dell’ambiente e il governo autonomo dei beni affrancati dalla proprietà privante.
In linea di principio, si può osservare che il dominio attuale esercitato dal mercato sullo Stato non è irreversibile, e che la sua reversibilità rende plausibile una progettualità politica più realistica di quella implicita nella prospettiva della conversione culturale dell’Occidente suggerita da Mattei. A fronte del rischio di una gestione dei beni affrancati dalla proprietà privante da parte di uno Stato dominato dal mercato, è possibile ipotizzare, non la rinuncia a tutte le potenzialità che il mercato capitalista ha reso e continua ad offrire, ma l’avvio di un’attività politica fondata sulla capitalizzazione dell’esperienza ereditata dal passato; ciò consentirebbe uno stretto legame del presente col passato ed col futuro, ma anche la disponibilità di un “know how” esperienziale per governare qualsiasi processo evolutivo dei sistemi sociali, verso forme organizzative alternative.
Inoltre, occorre anche tener presente che l’esperienza del passato può supportare i provvedimenti innovativi adottati nel presente, ma la riorganizzazione istituzionale e produttiva dei singoli sistemi sociali dipende solo dal modo in cui le società civili si mostrano propense ad accettare i provvedimenti innovativi, in funzione del perseguimento della ristrutturazione dei loro sistemi sociali, aperti al governo dei beni sottratti alla logica capitalistica, secondo forme diverse da quelle possibili con l’esistente asse Stato-mercato.
Questa prospettiva di azione implica la soddisfazione di due condizioni: innanzitutto, che la transizione istituzionale sia di sostegno al processo di ristrutturazione delle attività produttive; in secondo luogo, che le società politiche intensifichino la ristrutturazione in senso democratico dell’organizzazione dello Stato, con l’introduzione di regole decisionali completamente diverse rispetto al passato. Gran parte degli insuccessi accusati sul piano operativo dai sistemi sociali protesi all’acquisizione di forme innovative di governo dei beni disponibili è riconducibile, oltre che alle difficoltà dovute ad eventuali deficit teorici circa le forme di gestione più convenienti, al fatto che le riforme realizzate sul piano strettamente istituzionale non hanno proceduto parallelamente alle necessarie trasformazioni sul piano culturale dei componenti i sistemi sociali. Nolenti o volenti, anche quando i beni disponibili fossero sottratti all’uso secondo la logica capitalistica, tali beni dovranno pur sempre essere gestiti economicamente: in caso contrario, e sin tanto che si continuerà a “filosofare” solo in termini di diritto ed a pensare che i fruitori dei beni disponibili siano tutti pervasi da un generalizzato e radicale spirito “angelico”, il governo di tali beni sarà sempre destinato a subire le pene della “tragedia dei beni di proprietà comune” (tragedia dei commons), per essere costantemente assoggettato alternativamente a sovraconsuno o a sottoutilizzazione, con pregiudizio degli interessi dei loro fruitori.

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