Sulle cassapanche “fiorite” di Nuxis e del Sulcis

19 Gennaio 2017
2 Commenti


Maria Laura Ferru

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo contributo sulla possibile origine delle casse fiorite del Sulcis. Maria Laura Ferru è una qualificata studiosa della produzione materiale sarda, che giustamente pone a “base di qualunque discorso sull’ identità regionale”. “Ecco perché un mondo così delicato è da custodire, far conoscere e proteggere. In sedi museali, prima di tutto…”. Di qui la sua battaglia per un Museo della Ceramica, che mostri le origini dell’Arte ceramica e ne solleciti gli sviluppi. Questo è anche lo spirito col quale questo blog ha posto all’attenzione le belle casse fiorite del Sulcis e la Pro loco di Nuxis intende promuovere una mostra di casse fiorite.

(splendida cassa fiorita del Sulcis in mostra a Sa domu antiga - Santadi - XIX sec.)

Alcuni aspetti della dettagliata illustrazione di Andrea Pubusa sulle   cassapanche “fiorite” di Nuxis e del Sulcis mi portano a ritenere che possano avere avuto origine specifica e più profonda di una  estemporanea moda di imitazione.
In particolare ritengo importanti tre aspetti:
- le decorazioni delle cassapanche sono di un deciso gusto arabo;
- la funzione originaria delle stesse, se non ho capito male, sarebbe una sorta di baule da viaggio
- le più antiche risalgono alla metà dell’Ottocento.
Il gusti arabo delle decorazione consente di dire che esse potrebbero essere legate al fenomeno di emigrazione dei Sardi verso l’Africa e verso Tunisi in particolare, grazie ai collegamenti marittimi Genova-Cagliari-Tunisi, che mi pare diventarono settimanali dopo il 1850. Si trattava anche di emigrazioni stagionali, legate ai lavori agricoli (il fenomeno, alla fine degli anni Ottanta, è stato rivelato dagli studi di Nereide Rudas e di altri, mi scuso se cito a memoria per questioni di tempo). Il legame dei Sulcitani con l’Africa, del resto, era all’epoca abbastanza stretto: basti pensare all’origine tabarchina dei Carlofortini, che popolarono l’isola di san Pietro nel Settecento e di coloro che in tempi successivi si stabilirono a Sant’Antioco. E ciò avvenne anche perché  il pericolo dei Barbareschi  verso le coste sarde cessò nel primo decennio dell’Ottocento, in virtù dell’intermediazione inglese.
Se si riuscisse a dimostrare il legame delle cassapanche “fiorite” di Nuxis con tale realtà storica, si avrebbe anche la misura di come  il fenomeno dell’emigrazione stagionale dei Sulcitani interessò all’epoca il territorio in maniera profonda. E le stesse sarebbero da considerare testimonianze storico-artistiche della vita socio-economica del passato. Sarebbe forse la prima volta che, nella storia dell’artigianato sardo, l’aspetto  artistico prescinderebbe del tutto dall’imitazione dell’arte “colta”.
E ciò mi porta a voler precisare che il testo (”Arte sarda“, ristampa ed. Delfino)  di Arata-Biasi  non deve essere considerato la bibbia dell’artigianato sardo: scritto negli anni Trenta del Novecento, rivela una concezione anacronistica e sbagliata per il tempo, considerando che altrove fu  l’epoca del Bauhaus. Fu basato su foto raccolte presso collezionisti, tanto che nelle didascalie non appare quasi mai  il nome dell’artigiano ma quello della proprietà o del collezionista, che quegli oggetti aveva fatto realizzare per mostre ed esposizioni nella  certezza che poi sarebbero stati comprati dallo Stato. Quelli furono i soli  interessi perseguiti: chi vi cercasse la storia della ceramica artistica sarda- nata tra 1918 e 1939 a Cagliari con le manifatture di Francesco Ciusa, Federico Melis, Valerio Pisano e Alessandro Mola, non ne troverà traccia. Come non troverà traccia dei mobili “sardeschi” che dai primi del Novecento producevano  Gavino Clemente a Sassari, Gaetano Ciuffo a Cagliari, i Muscu a Isili. E neppure riferimenti precisi ai tessuti della Scuola del Tappeto sardo di Isili, guidata da Giuseppe Piras Mocci, pure citati in modo veloce nei testi. E questi sono solo gli esempi macroscopici delle carenze che il libro di Arata-Biasi presenta.

(cassa fiorita in mostra al Museo etnografico di S. Antioco XIX sec. Si noti che, non avendo subito manomissioni, è priva di piedi fissi. Trattandosi di un baule, gli appoggi erano mobili)

2 commenti

  • 1 francesco Cocco
    19 Gennaio 2017 - 09:28

    Mi fa piacere che dagli interessi culturali del direttore di questo blog si stia sviluppando una ricerca su aspetti non secondari della nostra identità: l’arredo della casa, di cui le casse erano elemento importante, destinate a conservare gli arredi,: lenzuola, coperte, biancheria. Le casse sulcitane si differenziano profondamente da quelle barbaricine. Molto più semplici nella realizzazione e soprattutto molto più solari. La dr.essa Ferru avanza l’ipotesi di un origine nord-africana. Può essere, ma che dire del ricco decoro di certe casse sulcitane che richiamano stilemi dell’ arco alpino. Questo a cominciare dalla bella cassa conservato nel museo della basilica di Bonaria a Cagliari. Non potrebbe nascere dalla presenza di qualche savoiardo ai tempi del Regno di Sardegna? Ho avuto modo di verificare un simile tipo di casse nella Savoia e nel Cantone svizzero di Ginevra. Solo un’ ipotesi che merita di essere approfondita.

  • 2 Rosamaria Maggio
    19 Gennaio 2017 - 10:32

    Nel caso della mia cassa/baule, se riuscissi a ricostruire se è appartenuta alla mia bisnonna nata a Tunisi , l’ipotesi della dr.a Ferru sarebbe confermata…..mi darò da fare…

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