Note ai margini del libro di Francesco Casula: l’unità d’Italia, sciagura o fatto progressivo?

12 Febbraio 2017
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Andrea Pubusa

La lettura del libro di Francesco Casula su “Carlo Felice e i tiranni sabaudi“, fra i tanti quesiti pone anche quello della unità d’Italia: sciagura o fatto progressivo? L’autore cita una letteratura critica per mettere in luce, nel contesto dell’esame dei misfatti dei Savoia, anche la mala conduzione del processo unitario. Richiama un filone di pensiero che ha messo in luce il regresso che l’Unità ha rappresentato per il Meridione d’Italia e le Isole. Uno di questi contributi è opera di due intellettuali napoletani, Edmondo M. Capecelatro e Antonio Carlo, autori del volume “Contro la questione Meridionale”. Nel libro, pubblicato negli anni ‘70 del Novecento, queste tesi sono enunciate con dovizia di argomentazioni e di dati. Antonio Carlo è stato all’inizio degli anni ‘70 per qualche anno docente di diritto privato nella locale facoltà di Economia e così allora mi sono confrontato con lui spesso su questi temi.
Questo filone di pensiero ha varie sfumature e diversi sbocchi, ma muove dall’assunto che l’economia meridionale e delle Isole fosse più avanzata prima dell’Unità e abbia avuto un tracollo successivamente alla proclamazione del Regno d’Italia. Il libro di Capecelatro e Carlo è molto puntuale nell’indicare le eccellenze napoletane nel settore cantieristico-navale, nella manufattura e nella nascente industria e anche nel campo agricolo vi era una sostanziale parità produttiva fra le due Italie. Del resto, per apprezzare la superiorità dei Borbone rispetto ai Savoia, è sufficiente vedere la magnificenza delle reggie napoletante e scorrere l’albero genealogico. Basta ricordare Carlo I, fondatore, fra l’altro, della moderna arrchelogia con gli scavi di Pompei, divenuto poi Carlo III  di Spagna. Anche la prima ferrovia nella penisola è stata la mitica Napoli-Portici.
L’Unità ebbe come effetto una supremazia della borghesia del Nord in ragione della politica governativa col conseguente  formarsi del classico dualismo dei sistemi capitalistici fra una parte avanzata e una sottosviluppata. Peggio: la struttura economica del Sud è andata pian piano assumendo caratteristiche di tipo coloniale, la cui popolazione è rimasta ai margini dello sviluppo in funzione del tutto subalterna nei confronti delle centrali del potere economico situato al Nord. Si è realizzato poi un innaturale connubio fra borghesia del Nord e latifondo del Sud, che ha condannato il Meridione all’immobilismo e all’arretratezza, le masse popolari e contadine alla miseria.
In questo esito un ruolo centrale ha avuto la politica doganale. La scelta protezionistica del 1867 a favore delle grandi imprese settentrionali distrusse la residua capacità industriale del Sud, costringendo l’agricoltura a ritornare alle colture estensive cerealicole. In proposito mi ha colpito un’intervista di qualche anno fa, rilasciata a L’Unione sarda dal magistrato Raimondo Pili di Seneghe, che, da pensionato, riprese ad occuparsi a tempo pieno dell’azienda agricola di famiglia. In quell’intervista l’alto magistrato ricordò come la loro azienda nell’Ottocento andava assumendo carattere industriale, tant’è che la famiglia per risparmiare sui trasporti verso la Francia acquistò addirittura due navi, ma fu costretta ad un brusco ridimensionamento e regresso proprio dopo il 1867 poiché il sistema protezionistico bloccò i commerci della famiglia con la Francia.
Questa analisi sugli effetti nefasti per il Meridione e le Isole è fatta propria da Francesco Casula, il quale sembra da questo assunto trarre stimoli in direzione di una opzione di tipo indipendentista.
Ora, su questa prospettiva mantengo le mie obiezioni per vari ordini di motivi. Anzitutto, perché a fronte di questi indiscutibili disastri prodotti dal regime monarchico prima e dopo l’unità d’Italia, è fuor di dubbio che questa ha consentito la formazione di un Movimento operaio e di classe su scala nazionale, che ha immesso nel processo storico milioni di lavoratori, contadini e pastori, anche sardi. Anzi la Sardegna, col movimento nelle zone minerarie e nelle città prima e col grande movimento dei combattenti poi, ha avuto un ruolo importante e autonomo nella creazione di un blocco sociale di ispirazione democratica, socialista e sardista in funzione antifascista. Lussu fa corrispondere l’inizio della storia della Sardegna anzi, meglio, del popolo sardo con questa immissione e integrazione consapevole delle masse sarde nella vicenda nazionale. Come esito di questo grande movimento italiano e internazionale, l’unità d’Italia ci ha dato anche la Resistenza e la Repubblica e, con queste, quale effetto del Movimento di liberazione nazionale, la Costituzione, le sue libertà e le ampie garanzie democratiche. Accanto alle libertà individuali la Carta ci ha dato anche quelle delle comunità territoriali (comunali, provinciali e regionali) e, in questo contesto, è nato lo Statuto speciale, che è - non lo si dimentichi - la Carta costituzionale dell’Isola nei rapporti con lo Stato.
So bene quali sono le obiezioni, lo Statuto sta ai felini come il gatto al leone. Lo disse allora Emilio Lussu, con la sua sferzante ironia intrisa di sarcasmo: «Lo Statuto che ci diedero somigliava a quello che i sardi avevano sognato per anni come un gatto somiglia a un leone: l’unica cosa che hanno in comune è che tutt’e due appartengono alla famiglia dei felini». E tuttavia, vogliamo fare un po’ di storia controfattuale? Se la Sardegna avesse dovuto decidere da sola il referendum istituzionale del 1946, sarebbe ancora sabauda e senza Costituzione o, meglio, con una Carta risultante da un aggiustamento dello Statuto Albertino. Vogliamo guardare in faccia le cose? Il 60,9% dei sardi votarono per i Savoia. E così il Meridione d’Italia, proprio quello maltrattato dall’Unità in salsa sabauda. E’ il vento del Nord che ha spazzato via la Corona e le vecchie gerarchie. Questa considerazione introduce un altro tema di riflessione, e cioé che non è tanto l’Unità la causa dei nostri mali quanto il fatto ch’essa sia stata egemonizzata dal capitale del Nord. E, tuttavia, in epoca repubblicana il grande avanzamento politico e culturale è da connettere agli effetti del movimento generale di lotta che nel Paese ha concorso all’abbattimento del fascismo e della monarchia e ha dato, dopo la Costituzione e sulla base di questa, libertà e miglioramento delle condizioni culturali e sociali. Statuto dei lavoratori, scuola dell’obbligo, divorzio, aborto, nuovo diritto di famiglia e così via. Semmai l’inversione in atto è dovuta alla ripresa di dominio delle forze del grande capitale finanziario, col neo liberismo. Adesso è l’Europa del capitale finanziario che ci impoverisce. E lo Stato, in questo contesto, sopratutto con la Costituzione, ci preserva da ancora più pericolose derive. Per questo abbiamo difeso la Carta anche il 4 dicembre. Semmai è proprio nell’alveo di una rinnovata e democratica comunità europea che può sciogliersi, col ritrarsi degli Stati a favore dell’Unione, la questione dei popoli o delle nazioni che in essa vivono senza avere raggiunto la statualità. E’ lì che la “nazione mancata” può trovare il suo pieno completamento. Questo mi è parso di capire fosse il sogno di uomini come Mario Melis o Ciccittu Masala, che coniugavano il loro sardismo all’internazionalismo, cioé ad una soluzione della questione sarda su scala non statale, ma europea. E del resto anche Lussu era sardista-socialista-internazionalista. E tale non era, in fondo, anche Gramsci? Tutti vedevano la soluzione della “questione sarda” nel contesto di un’assetto democratico e socialista sovranazionale. In questa riflessione mantiene attualità, depurandola dalle asprezze personali, la discussione fra Lussu e Laconi, dove il primo contesta al secondo una visione al fondo “nazionalistica”, in quanto non adeguatamente centrata sulla conquista della consapevolezza dell’autonoma soggettività organizzativa delle masse operaie e contadine sarde, seppure nel contesto di una iniziativa “legata indissolubilmente, ma autonomamente, alle lotte e alle conquiste del resto d’Italia e del mondo. Sardismo non è contrapposizione, ma intergazione nazionale e internazionale“.
Questioni complesse e difficili da far tremare i polsi. Ma un punto di partenza è indiscutibile in tutti questi processi oggi come ieri è determinante la autonoma volontà dei sardi o meglio delle masse popolari sarde. La loro unità.  E qui sorgono i dolori. Fu la divisione dei sardi a condannare Giomaria in quel fatidico giugno 1796, nel quale è stata l’invasione dell’Armée in Piemonte contri i Savoia a rendere credibile la vittoria delle forze antifeudali. Furono i sardi a dividersi e a schierarsi contro l’Alternos, che in armi scendeva verso Cagliari. Vincenzo Sulis, con la sua milizia popolare, con chi era schierato? Ed i maggiori esponenti degli Stamenti? A chi si sono chinati costoro, aprendo, fra l’altro, una repressione bestiale contro gli angioyani? Forse che oggi la storia non si ripete? Nei mesi scorsi i nostri governanti, le massime magistrature sarde, si sono genuflesse davanti a Renzi, e lo hanno fatto nel corso di uno scontro durissimo in cui il governo centrale sferrava un attacco mai prima visto, in epoca repubblicana, alle autonomie regionali. E l’onda d’urto, se avessero vinto, avrebbe frantumato lo Statuto senza neppure toccarlo, senza degnare noi sardi nemmeno di una revisione formale.
Ora, di fronte a questa classe politica, traditrice delle istituzioni sarde, ma sbandata per la legnata del 4 dicembre, che fa il fronte alternativo? Attacca unito? No, no. Non sia mai detto! Tanti piccoli capi nel fronte sovranista-indipendentista marciano (si fa per dire!) in ordine sparso, ognuno con la sua verità e la piccola pattuglia. Si prospetta addirittura l’ipotesi che l’alternativa fuoriesca dal grembo dell’attuale governo regionale. Una farsa! Per questo, nell’intento di promuovere la raccolta di forze il Comitato per il NO ha deciso di trasformarsi in “Comitato d’iniziativa costituzionale e Statutaria“, senza finalità elettorali. Per continuare la battaglia in modo unitario, dal basso. Ma di questo ho già detto e tornerò a scrivere in altra occasione.

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