Andrea Pubusa
Eroe della sardità o capo irresoluto? Calcolatore o profondamente ingenuo? Il libro di Francesco Casula sui tiranni sabaudi, fra i tanti stimoli all’approfondimento, ripropone la “questione angioyana”.
Francesco Casula dà conto delle svariate interpretazioni della azione dell’Alternos: quella che tende a presentarlo come un precursore della moderna autonomia della Sardegna, con la quale non contrasta la tesi di chi vede in lui un uomo che, sulla scia delle nuove idee diffuse dalla rivoluzione francese, ritenne giunta l’ora di spazzar via il regime feudale quale maggiore ostacolo all’affermarsi nell’isola del liberalismo borghese. Un po’ mitizzata la versione di un Angioy “eroe nazionale”, sostenitore dei diritti del popolo e vendicatore degli oppressi, secondo il filone politico-letterario della “costante resistenziale sarda” (per dirla alla Lilliu). Interessante anche il rilievo che Francesco dà all’opinione di Eliseo Spiga, che ha il merito di ricondurre la questione all’analisi delle classi e delle forze sociali in campo.
E’ la mancanza di scritti a indurre alle più varie supposizioni sull’Angioy. Si scava nella psicologia chiusa e un po’ ambigua del personaggio, come se chiusi e ambigui non fossero i tempi e il luogo in cui è vissuto. Ma - come sempre - se anziché sovrapporre le proprie idee o le proprie aspettative - si fanno parlare i fatti, il personaggio emerge nella sua reale o più verosimile luce, si scioglie quel carattere enigmatico e quasi impenetrabile nei suoi intendimenti, che gli storici gli annettono, non potendo fondare sulle carte, su scritti significativi l’analisi critica per ricostruire con qualche certezza la genesi e lo sviluppo della sua ideologia politica.
Veniamo dunque ai fatti. Da questo punto di vista certamente, la “questione angioyana” non può essere esaminata badando soltanto al periodo epico della marcia su Sassari e poi su Cagliari. Una cosa è certa e indiscutibilie: il cosidetto “decennio rivoluzionario sardo”, che va dal 1789 al 1799, vide nell’Angioy un protagonista. Intellettuale di qualità superiore, non impiegò molto tempo a far parte dell’élite culturale e politica sarda. A Cagliari divenne in breve tempo docente nell’Università e membro della Reale Udienza. Dunque al vertice nella scala locale. Per di più sposò una donna ricca della famiglia Belgrano, dunque, era persona agiata.
Per comprendere il personaggio non è ininfluente la sperimentazione ch’egli fece della produzione e lavorazione del cotone. Non è indice di astratta curiosità. E’ piuttosto segno della sua apertura europea, se si pensa che allora in Inghilterra e nel Nord nasceva la moderna industria manufatturiera. Il collegamento ch’egli vagheggiava tra la produzione di filati, grandi vele e dunque flotta sarda è già un progetto di cambiamento profondo dell’Isola e della sua economia. Era insomma un intellettuale europeo, un po’ come lo fu Sigismondo Arquer nel ‘500 e come lo sono i vari Francesco Cillocco e Francesco Sanna Corda dello sbarco in Gallura del 1802 e i Salvatore, Giovanni, Gaetano Cadeddu e gli altri intellettuali della congiura di Palabanda, anch’essi personaggi di primo piano nell’Isola e negli incarichi amministrativi e politici locali.
Il suo concorso alla difesa dell’Isola dall’attacco francese, chiamando a Cagliari, a sue spese, un contingente di combattenti da Bono, ci fa comprendere come in questa intellettualità, pur intrisa di cultura europea e, dunque, aperta ai sommovimenti d’Oltremare, l’indipendenza dell’Isola fosse un valore primario. Ad un comando esterno, seppure di segno opposto a quello dei Savoia, pareva loro preferibile un’evoluzione interna, fondata sulle forze sociali sarde (Umberto Cardia) A ben pensarci, in loro doveva essere ben presente l’occasionalità della presenza dei Savoia a fronte della consistenza e stabilità dello Stato sardo esistente dal 1297. Non a caso il Regno di Sardegna aveva ancora le sue istituzioni. E queste andavano rinnovate e aggiornate senza però buttar via il bambino (lo Stato sardo) con l’acqua sporca (il sistema feudale; e i Savoia). D’altra parte non sfuggiva a questi intellettuali la bizzarria di un re estraneo e straniero, con sede altrove. E loro dovevano avere ancora memoria che la Sardegna nella pace di Utrecht (1713-1714) era stata inizialmente assegnata a Massimiliano Emanuele di Baviera, principe illuminato, che aveva anche il proposito di trasferirsi a Cagliari per assumere il titolo di re e di rimanerci. E Angioy ben conosceva, perché lo cita nel Memoriale del 1799, il saggio “La Sardegna paraninfa della pace e un piano segreto per la sovranità 1712-1714“, nel quale si sostiene questa soluzione. Nella mente di questi personaggi dunque era ben presente che l’aspetto primario delle questioni era lo Stato sardo e la sua permanenza, il resto era importante, ma negoziabile e mutevole. L’indipendenza della Sardegna egli propugna anche quando nel 1799 chiede al governo francese d’invadere con le sue truppe l’Isola.
Questa sembra la posizione dell’Angioy, almeno fino alla conclusione della sua missione come Alternos e prima dell’esilio (Cardia). Nel Capo di sopra, messo di fronte all’alternativa secca e senza possibilità di mediazioni fra baroni ottusi e reazionari e vassalli oppressi, la sua posizione di fondo verso le alternative di quel tempo è chiara e netta. Egli lì varca il Rubicone e lo fa con decisione. Qui emerge la sua indole e la sua cultura di intellettuale europeo, aperto ai venti delle sorti magnifiche e progressive della borghesia e del liberalesimo contro i vecchi e superati istituti economici del feudalesmo.
Da questo punto di vista non può dirsi ch’egli sia stato indeciso o enigmatico. Anzi è proprio la sua cultura a renderlo consapevole del fatto che un cambio di passo così epocale come l’abolizione del feudalesimo potra avvenire o a condizione che il re, ancorché sulla base di una forte spinta interna, accogliesse l’innovazione, facendosene in qualche modo anche promotore o garante, oppure che ci fosse un intervento armato o politico esterno.
Angioy, marciando su Cagliari, non sembra voler uscire dall’alveo della legittimità (Cardia; Sole). In fondo era l’Alternos e con i poteri regi aveva agito. Ma qui emerge non solo la debolezza della sua battaglia fuori del contesto logudorese, ma la fragilità della posizione antifeudale nel resto dell’Isola e a Cagliari. Angioy non era un uomo d’armi e poteva far prevalere la sua posizione o a mezzo di una sollevazione popolare diffusa, come avvenne nel Capo di sopra, o con l’appoggio esterno.
Qui è pertinente il punto di vista di Eliseo Spiga che, più che a soli limiti soggettivi, riconnette le ragioni dell’insucesso della marcia di Angioy verso Cagliari alla mancanza di un appoggio dei pastori, meno interessati dei contadini ad abbattere il sistema feudale. Data la debolezza del sostegno sociale, prende risalto la questione della forza armata ed è decisivo il contesto internazionale. In quei mesi il Piemonte veniva invaso dalle truppe di Napoleone che, con una stupefaceente fulmineità, infliggeva ai piemontesi ripetute sconfitte, talché G.M. Angioy poteva fondatamente ritenere che quegli eventi incidessero sulle vicende sarde. Gli stessi Savoia avevano un avvenire incerto, con risvolti rilevanti anche in Sardegna. La sola incertezza sulla sorte dei Savoia poteva essere decisiva nel determinare la dislocazione delle forze in campo a favore dell’eversione del sistema feudale (Cardia). Ma gli eventi presero un’altra piega. La vittoria del grande Corso sui piemontesi fu così rapida da indurre Vittorio Amedeo III a firmare l’armistizio di Cherasco e successivamente il Trattato di Parigi, il 15 maggio 1796. A seguito della pace con i francesi i Savoia, seppure indeboliti, non vennero disarcionati. Angioy pensava a una durata più lunga di questa guerra, come scrisse poi nel Memoriale al governo francese del 1799, e, comunque, confidava che in quegli accordi si spendesse una parola per il superamento del feudalesimo in Sardegna (Cardia; Marroccu). Sarebbe stato un fatto forse decisivo. Ma non ci fu neanche questo e il contraccolpo fu terribile per l’Alternos. Senza alcun sostegno, anche solo politico, esterno il versante interno sul piano militare era desolante. Qui la chiave di volta ha un solo nome: Vincenzo Sulis. Era lui il comandante carismatico della milizia popolare, che nel 1793, all’apparire della flotta francese nel Golfo, aveva mirabilmente messo in piedi, trasformando in esercito, con qualche disciplina, un’accozzaglia di irregolari se non anche, in qualche misura, di ex malfattori. E questa milizia pendeva dalle sue labbra. Ma Sulis, si sa, era filosabaudo fino al midollo, tanto da esserlo anche in punto di morte dopo che, senza colpa e senza processo, il re lo aveva rinchiuso vent’anni nella torre di Alghero e, poi, il suo “amico” Vittorio Emanuele I mandato all’ergastolo a La Maddalena, .
Per convincersene basta leggere la sua autobiofrafia in cui descrive non solo la formazione della milizia, ma anche il controllo militare ch’egli aveva in Sardegna. Non è un caso che i suoi nemici gli imputassero l’ambizione di diventare re, falsa insinuazione, respinta con sdegno dall’interessato, ma che comprova della forza militare prevalente ch’egli aveva nell’Isola a partire dal 1793, dal rigetto in mare dei francesi. E non è un caso che Napoleone a lui si rivolge per il tramite di un suo generale per mettere mano sull’Isola senza resistenza. Ma Sulis, come ho già notato, è un balente, un capo popolo, miope sul piano politico (Cardia), culturalmente debole, devoto ai Savoia anche dopo la sua atroce reclusione a vita, e fedele all’ordine costituito e perfino ai feudatari e al loro sistema, di cui semmai rintuzza gli abusi. Lo dice chiaramente nella sua biografia, dove esalta i suoi interventi per colpire gli eccessi dei feudatari nei confronti dei vassalli. Rimessi ciascuno al loro posto, feudatari e vassalli, nel rispetto delle regole, quel sistema per lui va bene e deve perpetuarsi.
Che da questo personaggio, tanto capace a comandare uomini, quanto stolto politicamente, Angioy non potesse aspettarsi alcun appoggio era noto all’interessato. Ben conosceva l’Alternos l’ottusità politica del capo-popolo cagliaritano, il quale d’altronde - nella sua biografia - ha parole di fuoco contro i congiurati di Palabanda, nonostante scrivesse dall’ergastolo maddalenino inflittogli dai comuni boia, i Savoia.
Inoltre, una buona parte di coloro che lo avevano sostenuto a Cagliari aveva visto l’operazione in chiave tutta interna nel contesto della rivalità fra Cagliari e Sassari, filospagnuola. La svolta più radicale impressa agli eventi dal movimento antifeudale e assecondata da Angioy era fuori e anzi contro le loro aspirazioni. Nel frattempo il Re accoglieva le cinque domande ricomponendo il fronte moderato cagliaritano.
L’avventura dell’Angioy, dunque, era segnata, per debolezze interne, debolezze ben note all’Alternos, che vengono esaltate dalla pace fra Napoleone e i Savoia. Ma all’inizio della marcia su Sassari l’esito non era scontato. C’erano tante variabili in campo, non ultima la possibile influenza sugli accadimenti isolani dell’attacco dell’Armée con a capo Napoleone in Piemonte (Cardia). Anzi è proprio questa consapevolezza delle forze in campo e della loro mutevolezza nella dinamica dei fatti, che esalta la figura di Angioy (Cardia). Questi, come tanti uomini nella storia passata e presente, ritrovano la loro grandezza nel fatto di aver consapevolmente tentato di forzare i tempi della storia, di anticipare il futuro. Di provare a volgere a proprio favore, nel corso dello scontro, un rapporto di forza in partenza non favorevole e incerto. In fondo, a pensarci bene, tutti i martiri sardi di quel periodo (Cillocco, Sanna Corda, Salvatore Cadeddu e gli altri), pur nella varietà delle posizioni, hanno in comune questa tragica grandezza. Hanno tentato, spesso a costo della vita o dell’esilio di portare in Sardegna quelle libertà e quei tempi nuovi che da altre parti, tortuosamente, si radicavano con miglior, seppure, anche lì, con alterna fortuna. Pisacane tanti anni dopo fu certamente meno prudente e tale fu in epoca più vicina a noi il Che. Ma questo non sminuisce il loro valore, anzi lo accresce. In fondo, la loro eroicità deriva proprio da questo. Sono un po’ come il sarto di Ulm: si sono muniti di ali e hanno tentato di volare; lo hanno fatto anzitempo e sono caduti rovinosamente al suolo, ma, anche grazie a loro, l’uomo poi ha volato.
Orgosolo: Murales sulla rivolta angioiana — Foiso Fois: La rivolta angioiana
Sassari, palazzo della provincia: Affresco dell’entrata di Giò Maria Angioy in città. (Giuseppe Sciuti)
1 commento
1 Oggi sabato 14 gennaio 2017 | Aladin Pensiero
14 Gennaio 2017 - 09:47
[…] Andrea Pubusa su Democraziaoggi. ALADINEWS DEMOCRAZIAOGGI Giovanni Maria Angioy: riflessioni leggendo il libro di Francesco Casula, sab 14 gen 2017 aladinews […]
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