Francesco Cocco
Dopo tanti anni ho avuto il piacere d’incontrare un vecchio compagno, Antonio Atzeni. Non lo vedevo da quasi un ventennio. Uno dei nostri ultimi incontri era stato in occasione di una delle riunioni seguite alla decisione di liquidare il PCI deliberata dal gruppo occhettiano. Ricordo, come fosse ieri, quanto mi disse in quell’occasione mostrandomi le sue mani callose: ” ….con queste ho contribuito a scavare le fondamenta della sezione e ad innalzarne i muri. Sono stato contento d’averlo fatto, ma so che finiremo per perdere anche il locale costruito con tanta fatica“. Quell’ “anche” nasceva dalla chiara distinzione tra la sezione, momento di una più grande organizzazione, e l’immobile, casa comune dove progettare e costruire il proprio futuro.
La sua profezia si è realizzata: dopo alcuni anni: il locale è stato venduto. Ormai non vi si svolge più alcuna attività politica. Il nuovo proprietario lo ha destinato a locale commerciale. E così anche il ricordo della storia di quel luogo va scomparendo nella memoria delle persone.
Oggi Antonio, che era andato via dalla Sardegna nei primi anni Novanta, è diventato imprenditore edile nel Nord-Est. Nel nostro breve incontro mi ha detto che pensa con nostalgia al tempo dedicato alla costruzione della sezione, e poi con voce tra l’irato ed il commosso ha aggiunto: “La cosa che maggiormente ancora mi addolora è che noi lavoratori siamo stati scippati del partito. Anche per questo i più degli operai che lavorano nella mia impresa, quasi tutti veneti, hanno finito per votare Lega“.
Antonio Atzeni aveva capito da subito il processo di sfaldamento al quale il gruppo dirigente, in nome di un nuovismo senza capo né coda, stava avviando il PCI. Soprattutto non gli sfuggiva che quella realizzazione storica, grande anche nelle sue strutture materiali, che tanti come lui avevano contribuito a creare, ora gli veniva sottratta. Era consapevole che il profondo mutamento, intervenuto nella vita politica nazionale, avrebbe trovato la sua sintesi in un grande “esproprio” in danno delle classi lavoratrici. Cioè nella sottrazione ai lavoratori delle loro organizzazioni partitiche, comprese quella grande quantità di strutture materiali di cui, con grande sacrificio, erano riusciti a dotarsi.
Ieri ho incontrato un altro vecchio compagno, Giovanni Piludu. Da oltre mezzo secolo ci lega un’amicizia profonda, nata quando nella seconda metà degli anni ‘50 andavamo a distribuire L’Unità nei paesi dell’interno e ci capitava di dover correre per non essere azzannati dai cani che ci venivano aizzati contro. Ma eravamo giovani e dunque veloci anche di gambe! Erano i tempi in cui il quotidiano di partito, la domenica, vendeva oltre un milione di copie grazie al sacrificio di migliaia e miglia di diffusori.
Non vedevo Giovanni da alcun mesi, l’ho trovato invecchiato. Più che le condizioni di salute, non cattive per la sua età, pesa in lui la demoralizzazione per la mancanza di punti di riferimento ideali. Non è che gli manchino le idealità. Certo è stato sempre scettico, sin da ragazzo, verso le visioni astrattamente utopiche, ma era ed è ben saldo nel credere in una società senza assurdi privilegi, capace di rispettare la dignità e la libertà umana, in grado di offrire a tutti un lavoro. Niente più di quanto statuisce il dettato costituzionale. “In fondo - ha ribadito ancora una volta- è per rendere operanti i valori della costituzione repubblicana che noi ci siamo sempre battuti. Anche quando ci inseguivano i cani“. E’ stato lui a ricordarmi quella pagina giovanile. “Allora c’era il partito che serviva a questo, pur con i mille limiti e contraddizioni che andavano rapidamente superati“. Poi dopo, qualche attimo di silenzio, ha soggiunto: “Ricordi quando nei primi anni Sessanta abbiamo interrotto una riunione e siamo andati casa per casa ad avvertire i compagni che c’era rumor di sciabole? Eravamo ai tempi di De Lorenzo con relativi pericoli di un colpo di stato, bisognava mobilitarsi per difendere la democrazia. E la sezione nel giro di mezz’ora si è riempita di decine di militanti e cittadini. Ora di quello strumento di lotta per la democrazia e la dignità umana siamo stati espropriati. Certo oggi di partiti democratici, ma solo di nome, ce ne sono. E dico questo perché non vedo né elaborazione né decisioni collettive, ma solo padroni e padroncini che impongono la loro volontà. Credo che alla realtà di questi partiti si attagli molto bene quel verso di Dante che recita “…ed un Marcel diventa ogni villan che parteggiando viene”. E da buon insegnante di lettere si è sentito in dovere di chiarirmi: “Ricordi Claudio Marcello, il più volte console della Roma repubblicana? Sostituisci il termine “villan” con quello di “miliardario” e tutto ti sarà chiaro” .
Anche Giovanni come Antonio si sente un espropriato. Privati entrambi dello strumento di lotta che avevano contribuito a creare, senza distruggere ciò che avevano ricevuto da chi li aveva preceduti nella lotta.
Ho cercato di convincere Antonio e Giovanni che il loro sacrificio non è stato vano, che la storia sa camminare per vie carsiche e alla fine i valori e l’esempio riemergono. “Si - mi ha risposto Giovanni - questo è vero, a condizione che i giovani abbiano la capacità di non farsi turlupinare dai falsi richiami che i tanti “villani”, o meglio “miliardari di turno”, lanciano dai mass media di cui dispongono a destra ed a sinistra. E soprattutto se i giovani avranno la capacità ed il coraggio di affrontare un difficile cammino”.
2 commenti
1 admin
25 Gennaio 2009 - 12:10
In Dante ci sono tanti personaggi che si attagliano al caso nostro, a destra e a manca. E son tutti nell’Inferno! Ricordate Semiramide? “Che di libito fe’ licito in sua legge per torre il biasmo in che si era condotta” (Inferno, Canto V, 56-57)..
E deve far meditare anche il fatto che queste verità portarono il sommo Poeta all’esilio e alla condanna. Ma lui nondimeno seguì fermamente (qui siamo nel Paradiso) il consiglio di Cacciaguida “Coscienza fusca o de la propria o de l’altrui vergogna pur sentirà la tua parola brusca. Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, tutta tua vision fa manifesta; e lascia pur grattar dov’è la rogna. Chè se la voce tua sarà molesta nel primo gusto, vital nudrimento lascerà poi, quando sarà digesta” (Paradiso, Canto XVII, 124-132) (g.l.).
2 ettore masina
16 Febbraio 2009 - 20:01
Cari compagni, sono capitato per caso su questo blog e ci tornerò spesso con i vostri stessi sentimenti.
Un abbraccio
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