Critica del progresso e ruolo del populismo nelle società in crisi

5 Gennaio 2017
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Gianfranco Sabattini

E’ largamente diffusa l’idea che Cristopher Lach, storico e sociologo statunitense, morto prematuramente nel 1994, sia stato un conservatore di sinistra soprattutto, alla luce della crisi globale che sta sconquassando il mondo attuale, per le pagine, rivelatesi profetiche, contenute nel libro ”Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica”, uno dei suoi ultimi saggi.
L’idea di progresso – afferma Lasch – “rappresenta una versione secolarizzata della fede cristiana della provvidenza”. Grazie a questa versione, l’Occidente ha potuto immaginare la storia “come un processo generalmente in moto verso l’alto”; per gli storici del XX secolo, però, l’idea che il progresso potesse tradursi “in un qualche stato finale di perfezione terrena” è divenuta “l’idea morta tra le più morte”, ovvero l’idea che più di ogni altra “è stata spazzata via dalle esperienze del ventesimo secolo”, mentre l’avvento dei regimi totalitari giunti al potere nel corso degli anni Trenta del secolo scorso ha definitivamente screditato ogni visione utopistica del futuro. Il crollo dell’utopia ha concorso definitivamente a far riconoscere e accettare che era possibile salvare la “fede nel progresso”, solo “rinnegandone i toni perfezionistici”.
La rottura decisiva con il vecchio modo di pensare al progresso è avvenuta quando i bisogni umani, attraverso l’affermarsi della teoria economica come scienza autonoma, sono stati considerati, non più naturali, ma storici e sociali, e quindi suscettibili d’esser soddisfatti in maniera crescente attraverso una razionale organizzazione del sistema sociale. La nuova scienza economica, tuttavia, nonostante sia stata celebrata dai suoi più sensibili formalizzatori come lo strumento col quale liberare il mondo dall’indigenza e dalla povertà, il successivo sviluppo della società industriale, celebrato durante tutto il secolo XIX ed i primi lustri del XX, non ha saputo evitare che, a lungo andare, si dovessero fare i conti con la constatazione che l’abbondanza materiale, resa possibile dalla società industriale, si universalizzasse attraverso istituzioni, quali il mercato, supposte dotate di meccanismi autoregolatori. Lo sviluppo della società industriale, infatti, ha mostrato una crescente incapacità a soddisfare, già a partire dalla seconda metà del XIX secolo, la speranza che il mondo moderno potesse sottrarsi alla instabilità e alla libertà dal bisogno per tutti, diventando tale speranza largamente irragionevole.
Dopo il primo conflitto mondiale, è stato John Maynard Keynes ad operare una rivoluzione scientifica con la quale ha colto i limiti della teoria economica tradizionale, sottolineando che a fare “girare il motore” della crescita del livello di benessere non era il risparmio, ovvero, come precedentemente si sosteneva, l’astinenza dal consumare ciò che offriva il mercato; il risparmio, secondo Keynes, “era una virtù amara, adatta solo a condizioni di scarsità. Il denaro era fatto per essere speso, non accumulato”; una critica, questa, che investiva non solo la presunta capacità del mercato di autoregolarsi, ma anche l’idea che l’ideologia liberale progressista potesse garantire all’infinito una stabile e “giusta” crescita del benessere sociale. La rivoluzione keynesiana, formulata nel periodo tra le due guerre, produrrà effetti rilevanti sul piano sociale solo nei “Trent’anni gloriosi 1945-1975” del secondo dopoguerra. Solo nella forma keynesiana, l’dea di progresso è riuscita a sopravvivere ai rigori della prima metà del ventesimo secolo, incluso quello basato sull’ipotesi, adottata all’interno dei sistemi sociali autoritari, che il progresso potesse essere realizzato anche attraverso la perfettibilità della natura umana.
La versione liberale di progresso, però, si è rivelata - afferma Lasch – “straordinariamente resistente” ai colpi che gli avvenimenti, occorsi sul piano dell’organizzazione sociale dopo il secondo conflitto mondiale, gli avevano inferto; dopo che le presunte virtù del libero mercato autoregolato, di saper garantire una stabile crescita del benessere e della giustizia sociale, erano state largamente screditate, l’idea liberale, nella sua versione neoliberista, è riuscita di nuovo ad imporsi. Oggi, a parere di Lasch, con gli eventi succedutisi a partire dal 1975, compresi quelli connessi allo scoppio della recente Grande Recessione, è diventato difficile, quasi impossibile, “imbastire una difesa davvero convincente dell’idea di progresso”.
La linea di difesa non può che essere quella di “collegare il progresso a un’espansione indefinita dei beni di consumo”; tale espansione presuppone la creazione di un mercato globale “che comprenda tutte le popolazioni del mondo precedentemente escluse da ogni ragionevole prospettiva di benessere”. Il presupposto, che all’inizio del processo di globalizzazione delle economie nazionali era assunto con tanto entusiasmo, oggi ha cessato di ispirare fiducia, per via del fatto che le economie avanzate in crisi, non solo non sono più in grado di portare a compimento progetti ambiziosi, ma neppure riescono a porre rimedio alle disuguaglianze distributive esistenti al loro interno.
Di fronte al malcontento generato dai sistemi economici in crisi, sono state ricuperate alcune tradizioni sommerse della critica sociale; dopo la riemersione dell’idea liberale di progresso, il crescente disagio sociale causato dai fallimenti delle presunte virtù del libero mercato ha spinto i teorici della politica a riscoprire – afferma Lasch – l’“umanesimo civico”, trasformandolo in “parola d’ordine di quanti criticano, da destra o da sinistra, il liberalismo come una filosofia politica sempre meno capace d’imporre agli egoismi particolari la dedizione al pubblico bene”. Secondo questi teorici della politica solo una ripresa dello “spirito civico” può consentire di affrontare i problemi che minacciano di sovvertire il mondo; per questi teorici, a parere di Lasch, la protesta sorretta dallo spirito civico che “pone l’accento sui doveri di partecipazione attiva del cittadino, è molto più adeguata ai bisogni di oggi di quanto non lo sia la filosofia liberale dell’avido individuo”.
Gli storici del movimento dei lavoratori e della cultura di classe del diciannovesimo secolo sono in disaccordo su numerosi problemi; su un punto, però, secondo Lasch, esprimono tutti “un accordo quasi universale”: quello per cui sono stati “gli artigiani qualificati, non i lavoratori dei nuovi impianti industriali, a dominare il movimento dei lavoratori nei primi decenni dell’industrializzazione”. L’assunto che siano stati gli artigiani a dominare il movimento dei lavoratori nel diciannovesimo secolo è spesso negato solo da coloro che “sperano ancora di far quadrare la nuova storia del movimento operaio con il marxismo”. Con la loro critica, gli artigiani non hanno inteso rinunciare di diventare “padroni di se stessi”; hanno inteso solo difendere il loro “stile di vita”, che veniva eroso dall’industrialismo, “grazie a qualche forma di proprietà cooperativa dei mezzi di produzione“.
Il disprezzo con cui in tanti guardano al populismo del secolo scorso porta con sé l’ipotesi, anzi la presunzione, che il nostro tempo dominato dall’ideologia neoliberista disponga del “know how” necessario per conciliare efficienza nell’uso delle risorse, giustizia sociale e libertà decisionale dei componenti il sistema sociale. Nulla però, in questi ultimi cinquant’anni, giustifica una simile ipotesi; perciò, a giudizio di Lasch, il senso della critica artigiana del diciannovesimo secolo alla società industriale merita d’”essere presa nella più attenta considerazione”; essa, la critica populista, malgrado la sua sconfitta, può in prospettiva ancora insegnare alle generazioni attuali a rendersi conto dell’urgenza di superare la situazione contemporanea e della dense nubi che oscurano il loro possibile futuro se rinunciassero a portare avanti la loro critica radicale allo status quo.
Quanto si qui esposto, commentando l’analisi di Lasch, sulle origini e sul ruolo del populismo, si adatta bene alla situazione in cui versa l’Italia. La crisi politica ed economica, infatti, da anni sta sempre più aggravando la tenuta del sistema sociale del Paese, sino a favorire la lievitazione di una crescente protesta popolare. La protesta, tuttavia, non costituisce in sé la soluzione dei mali che affliggono il Paese, ma pone delle precise richieste all’establishment che, anziché dare delle risposte credibili, sinora non ha fatto altro che demonizzare il movimento che la esprime. Il fatto che a quest’ultimo si imputi la presunta incapacità di governo non può giustificare la tendenza a trascurare il senso della protesta, accusando il movimento d’essere chiuso ad ogni tentativo di coinvolgimento nelle scelte politiche.

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