Carlo Dore jr.
Pubblichiamlo l’introduzione e la prima parte della relazione di Carlo Dore jr. alle Letture della Costituzione organizzate dall’ANPI di Cagliari, rinviando al sito dell’ANPI di Cagliari per la lettura dell’intero testo.
I principi fondamentali fanno emergere la dimensione di “programma politico” proprio della Carta Fondamentale: in essa non sono contenute soltanto le regole che disciplinano i rapporti tra Stato e cittadino, che determinano le attribuzioni dei vari organi costituzionali e che definiscono le relazioni tra gli stessi. Nella Costituzione sono anche contenuti una serie di obiettivi al cui perseguimento l’azione del legislatore deve essere ispirata: si pensi, a titolo meramente esemplificativo, all’enunciato dell’art. 4, laddove si afferma che “La Repubblica riconosce il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. E’ evidente che il diritto al lavoro non è un diritto soggettivo direttamente azionabile: l’azione del legislatore deve essere però orientata a perseguire questo obiettivo, e deve tradursi in politiche occupazionali in grado di favorire l’accesso al lavoro ad una percentuale quanto più possibile elevata di cittadini. Si pensi, ancora, a quanto stabilito dall’art. 3 cpv., sul quale tra breve torneremo: l’eguaglianza tra i cittadini non costituisce una semplice enunciazione di massima, ma si traduce, ancora una volta, in un obiettivo che il Costituente impone al legislatore. Al legislatore viene quindi demandato il compito di assumere scelte normative dirette a tutelare le categorie deboli e ad eliminare i fattori di diseguaglianza che si manifestano a livello sociale.
E’ importante fin d’ora precisare che, dai principi fondamentali, possono essere enucleati i c.d. “principi supremi”: quei principi che rappresentano la “spina dorsale” del nostro ordinamento costituzionale, e che non possono essere modificati o derogati neanche tramite una legge di revisione costituzionale. […]
I sostenitori della riforma hanno più volte precisato che la legge di revisione costituzionale oggetto del referendum non riguarda la “prima parte” della Carta – nella quale sono consacrati i valori fondanti oggetto del patto costituente -, ma incide unicamente sulla “seconda parte” della stessa, relativa alle attribuzioni dei vari organi costituzionali e ai rapporti tra gli stessi. In verità, una concezione così frammentaria del testo costituzionale – volta a considerare una parte della Carta quasi alla stregua di una mera appendice dell’altra, liberamente emendabile secondo le esigenze del momento – si espone a molteplici rilievi.
Come recentemente ha osservato Luigi Ferrajoli, la seconda parte della Carta è intimamente connessa alla prima, giacché “mette insieme strumenti, istituzioni e tecniche di garanzia idonei ad assicurare l’attuazione dei principi della prima parte, in particolare l’eguaglianza, i diritti fondamentali, i diritti sociali”. Ne consegue dunque che l’alterazione dei rapporti di forza tra i vari poteri dello Stato (rapporti di forza che inevitabilmente vengono alterati, se si considera il combinato disposto revisione costituzionale – legge elettorale) finisce con l’accentuare una tendenza già in atto: la tendenza del legislatore ad assumere – con riferimento a temi come lavoro, istruzione, sanità o ricerca - scelte poco coerenti con quegli obiettivi che la Costituzione “programma politico” gli impone di perseguire. Alcune delle scelte del legislatore, come emergerà tra breve, della riforma possano essere interpretate criticamente proprio alla luce dei principi fondamentali di cui oggi discorriamo.
SOVRANITA’
Il concetto di sovranità ha costituito l’oggetto delle riflessioni di filosofi, politologi e giuristi nell’arco di tre secoli. Non è possibile, in questa sede, ripercorrere le varie tappe dell’evoluzione che questo concetto ha incontrato: ci limitiamo ad affermare che la sovranità può essere descritta come il <<monopolio della forza legittima in un dato territorio>>, come il <<potere di governo primigenio, che non ammette né riconosce un potere superiore>>. Il nostro ordinamento accoglie il c.d. principio democratico, in forza del quale <<la sovranità appartiene al popolo>>: peraltro, il principio democratico si evolve nella c.d. democrazia rappresentativa, in forza della quale i cittadini esercitano la sovranità ad essi assegnata attraverso il diritto di voto, utile a nominare i loro rappresentanti in seno alle istituzioni. Non mancano, nell’ambito del sistema costituzionale, strumenti di democrazia diretta, utili cioè a consentire ai cittadini di partecipare direttamente ai procedimenti di formazione delle norme: si pensi all’iniziativa legislativa popolare, o all’istituto del referendum.
L’art. 1 precisa inoltre che la sovranità appartiene al popolo, che la esercita <<nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione>>. La Costituzione determina dunque gli strumenti attraverso cui la sovranità popolare può essere esercitata, e al contempo costituisce il limite all’affermazione della sovranità stessa, giacché <<non esiste nessuna sovranità popolare al di sopra e al di fuori delle regole e delle istituzioni delineate nella Costituzione. La volontà del popolo non può essere invocata per infrangere o per travolgere le istituzioni>>. Non basta, dunque, una forte manifestazione di volontà popolare per determinare l’approvazione di una legge; non basta una forte manifestazione di volontà popolare (non esternata attraverso le regole del referendum abrogativo) a determinare l’abrogazione di una legge; non basta una manifestazione di volontà popolare per determinare il rovesciamento di un Governo, se questi gode della fiducia delle Camere.
Si è detto che la principale modalità di esercizio della sovranità popolare deve essere individuata nell’esercizio del diritto di voto, attraverso cui gli aventi diritto scelgono i loro rappresentanti in seno alle istituzioni: gli eletti costituiscono, in questo senso, diretta espressione della sovranità popolare. Ad avviso di alcuni autorevolissimi giuristi, le regole sulla composizione del nuovo Senato – di cui all’art. 57 della Costituzione, come riformata dal ddl Renzi – Boschi – costituiscono una violazione del principio appena enunciato. La riforma prevede infatti che il Senato sarà composto da 5 membri di nomina presidenziale (che rimarranno in carica sette anni, un periodo di tempo esattamente coincidente con il mandato presidenziale: scelta pericolosa, in quanto rende i soggetti in questione come diretta emanazione degli orientamenti del Presidente), 21 sindaci, 74 consiglieri regionali “nominati” dai Consigli di appartenenza, conformemente alle indicazioni espresse dai cittadini secondo le modalità indicate in una legge costituzionale di prossima approvazione.
Al riguardo, si osserva che se la “nomina” dei Senatori da parte dei Consigli regionali costituisse una mera “ratifica” delle indicazioni dei cittadini, essa si ridurrebbe ad un passaggio inutile. Se invece tale “nomina” fosse un vero e proprio “atto di volontà” dei Consigli regionali, la relativa norma del ddl Renzi – Boschi potrebbe essere letto come una violazione del principio della sovranità popolare: ne conseguirebbe, per forza di cose, l’incostituzionalità della stessa, dovendosi identificare nell’art. 1 della Carta uno di quei “principi supremi” a cui si è in precedenza fatto riferimento.
DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI – SOLIDARIETA’
L’art. 2 della Carta pone due principi sui quali occorre riflettere: La Repubblica “riconosce e garantisce” i diritti inviolabili dell’uomo. I diritti inviolabili dell’uomo (diritto all’integrità fisica, alla libertà personale, alla salute, ma anche il diritto a contrarre matrimonio, a professare una data fede religiosa) vengono “riconosciuti” dall’ordinamento quali posizioni di interesse che preesistono alla sua formazione, e che spettano all’uomo non in quanto cittadino e membro di una comunità, ma semplicemente in quanto uomo. L’utilizzo del termine “uomo” in luogo di quello “cittadino” lascia inoltre intendere come questi diritti spettino non solo al cittadino italiano, ma anche allo straniero: un limite, dunque, per le pulsioni reazionarie di quelle forze politiche le quali, dinanzi al gigantesco problema dell’immigrazione clandestina, propongono soluzioni chiaramente lesive della persona umana nella sua più intima dimensione.
I diritti inviolabili della persona vengono garantiti all’individuo anche all’interno delle “formazioni sociali” nelle quali egli dispiega la sua personalità. Anche le formazioni sociali (cioè i c.d. corpi intermedi tra Stato e individuo, come la famiglia, la scuola, le associazioni, i partiti politici o i sindacati) ricevono comunque tutela dall’ordinamento, posto che rientrano tra gli obiettivi che il programma politico divisato dalla Costituzione la promozione di tali formazioni. La tendenza del legislatore attuale a svilire i corpi intermedi costituisce, in questo senso, un allontanamento dagli obiettivi individuati dalla Carta: un allontanamento dal perimetro entro il quale il legislatore, per volontà del Costituente, è tenuto a muoversi.
La Repubblica impone, inoltre, l’adempimento dei doveri inderogabili solidarietà politica, economica e sociale. Il rapporto tra individuo e Stato, e tra individuo e comunità, è basato dunque su una sorta di scambio tra tutela dei diritti e adempimento di doveri: l’individuo deve, in certi casi, orientare la sua azione in modo tale da rendere compatibile il proprio interesse con l’interesse generale della collettività. Il principio di solidarietà ispira numerose norme dell’ordinamento: al principio di solidarietà, per esempio, possono essere ricondotti gli artt. 41 e 42 della Costituzione, in materia di iniziativa economica privata e di contenuto del diritto di proprietà; alla luce del principio di solidarietà vengono interpretate le norme del Codice civile che richiamano la buona fede nell’esecuzione e nell’interpretazione dei contratti;.
Tra i doveri di solidarietà politica, economica e sociale può essere ricompreso l’enunciato dell’art. 54, che richiede ai titolari di pubblici uffici di adempiere gli stessi con disciplina e onore: essi, cioè, devono non solo rispettare le leggi e le altre norme dell’ordinamento (donde il riferimento alla “disciplina”), ma anche tenere dei comportamenti coerenti con il prestigio dell’ufficio ricoperto. La disposizione in esame, come è di tutta evidenza, assume una serie di ricadute sulla stretta attualità, poiché lascia intendere come l’area del penalmente rilevante (o, se si preferisce, del penalmente sanzionabile), non necessariamente coincide con quella del “politicamente sopportabile”.
UGUAGLIANZA
Si tratta, come è noto, di uno dei principi supremi dell’ordinamento, che si articola nel principio di uguaglianza formale (art. 3, comma 1) e nel principio di uguaglianza sostanziale (art. 3, comma 2).
Il principio dell’uguaglianza formale è consacrato nella formula: “tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, lingua, razza, opinioni politiche, condizioni economiche e sociali”. Il Costituente impone dunque, in sostanza, al legislatore una sorta di divieto di praticare discriminazioni. Le norme (sia poste dalla fonte legislativa, che da qualsiasi altra fonte del diritto) devono essere generali ed astratte: devono cioè prevedere determinati “modelli di fatto” suscettibili di verificarsi nella realtà e devono applicarsi a tutti i soggetti che si trovano nella condizione descritta dalla norma. In particolare, la norma vieta trattamenti deteriori: vieta, cioè, che un soggetto venga sottoposto da una norma ad un trattamento differente rispetto ad un altro in ragione della propria razza, delle proprie opinioni ecc.
Per contro, il legislatore può introdurre delle distinzioni che siano dirette a tutelare categorie di soggetti considerati deboli rispetto ad altri: ad es., misure a sostegno dell’imprenditoria giovanile, misure a tutela del lavoro delle donne, regime fiscale agevolato per i soggetti che operano in zone disagiate ecc. Queste distinzioni sono infatti giustificate alla luce del principio dell’eguaglianza sostanziale: come in precedenza anticipato, l’eguaglianza non rappresenta una mera enunciazione, ma, ancora una volta, rientra tra gli obiettivi che il Costituente pone al legislatore. Il legislatore deve dunque assumere le scelte idonee a tutelare i soggetti considerati deboli o meno protetti rispetto ad altri: ne consegue che, se il principio di eguaglianza formale impedisce le discriminazioni nel senso precedentemente chiarito, il principio di eguaglianza sostanziale permette delle distinzioni di carattere premiale, che siano appunto dirette alla protezione dei soggetti deboli.
Da quanto finora affermato, delle differenze di trattamento tra i soggetti destinatari delle norme sono comunque praticabili dal legislatore, purché si tratti di distinzioni premiali e non discriminatorie: in genere, il principio di eguaglianza è descritto dalla massima in forza della quale: “le situazioni simili devono essere regolate in modo uniforme; le situazioni differenti devono essere regolate in modo differente”. La formula appena richiamata, dietro la sua apparente semplicità, cela notevoli difficoltà applicative: teoricamente, un lavoratore che svolge determinate mansioni dovrebbe essere trattato allo stesso modo della lavoratrice a cui sono assegnate quelle medesime mansioni. Una norma che introduce un diverso regime per i soggetti in questione deve considerarsi compatibile con il principio di uguaglianza, o costituisce una violazione dello stesso? Al quesito appena prospettato risponde la Corte Costituzionale attraverso il “giudizio di ragionevolezza”.
Di regola, il giudizio sulla legittimità costituzionale di una norma di legge ha struttura binaria: la norma indubbiata (quella di cui si deve valutare la conformità a Costituzione) viene esaminata alla luce della norma costituzionale che si assume violata (norma parametro). Il giudizio di ragionevolezza, invece, ha struttura ternaria, posto che, alla norma indubbiata e alla norma parametro (in questo caso, identificabile nell’art. 3) se ne aggiunge una terza (c.d. tertium comprarationis). La Corte costituzionale deve ricostruire le finalità (ratio legis) che il legislatore intende perseguire attraverso quest’ultima norma, quindi deve ricostruire la ratio della norma indubbiata per accertare se la differenza di trattamento che quest’ultima introduce rispetto alla precedente deve o meno considerarsi “ragionevole”. Soltanto qualora tale differenza sia irragionevole, la norma indubbiata viene considerata costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 3 della Carta.
1 commento
1 Lucia Pagella
3 Novembre 2016 - 19:51
Stendiamo un velo pietoso sull’uguaglianza sostanziale delle donne sia nel campo politico che in quello lavorativo!
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