La democrazia si trasforma in oligarchia
Andrea Pubusa
Scalfari discetta dottamente sull’oligarchia, in qualche modo, difendendola. Sembra una analisi originale, ma in realtà è roba vecchia. Già Robert Michels, ai primi del ‘900, studiando il comportamento politico delle élite intellettuali, nella sua opera più nota sulla sociologia dei partiti politici, descrisse “la ferrea legge dell’oligarchia”. Nel suo libro Sociologia del partito politico, teorizza che tutti i partiti politici si evolvono da una struttura democratica aperta alla base, in una struttura dominata da una oligarchia, ovvero da un numero ristretto di dirigenti. Questo deriva dalla necessità di professionalizzazione, la quale fa sì che un partito si strutturi in modo burocratico, creando un apparato dirigente sempre più svincolato dall’influenza e dal controllo degli iscritti. Con il tempo, chi occupa cariche dirigenti, allontanandosi dalla base, diventa un’élite compatta dotata di spirito di corpo, una “casta”, come si dice oggi, ma come già diceva Gramsci. Nello stesso tempo, il partito tende a smarrire i propri obiettivi generali: l’obiettivo fondamentale diventa la sopravvivenza dell’organizzazione, e non la realizzazione del suo programma. Più in generale per Michels “chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia”.
Le moderne forme di burocratizzazione del potere accomunano poi le analisi di Weber e Gramsci.
Accanto alla critica delle degenerazioni burocratiche del parlamentarismo e del regime rappresentativo Gramsci punta la sua attenzione anche sulla progressiva burocratizzazione dell’attività politica come fattore epocale e irresistibile della nascente politica di massa. Se si vuole studiare la “forma partito”, scrive Gramsci, «occorre distinguere: il gruppo sociale; la massa del partito; la burocrazia o stato maggiore del partito. Quest’ultima è la forza consuetudinaria più pericolosa: se essa si organizza come corpo a sé, solidale e indipendente, il partito finisce con l’anacronizzarsi». La perdita della «base sociale storica» del partito e della sua capacità di “presa” sul reale porta alla «crisi dei partiti», che però mantengono comunque un ruolo centrale nella vita politica: essi ripetono una terminologia vieta, che permette ai dirigenti di mantenere la vecchia base pur facendo compromessi con forze affatto diverse e spesso contrarie e asservendosi alla plutocrazia». Sembra l’analisi del PD di Renzi!
La comune burocratizzazione della politica e dell’amministrazione tende ad accomunarle in una funzione meramente esecutiva e di esercizio discrezionale negli spazi lasciati liberi dai decisori economici e, più in generale dalla concezione generale egemone da questi determinata. Questo processo si trasfonde e rafforza quella commistione fra politica e amministrazione che il principio di separazione fra queste in realtà tende a rinsaldare in una identica visione e funzione esecutiva dei progetti altrui e nel rinchiudere il proprio potere decisionale nei limitati spazi applicativi della Grundnorm(Legge fondamentale) dominate.
Se non si può ascrivere a Gramsci il merito di aver trovato la formula risolutiva del complesso rapporto fra democrazia e burocrazia, gli si deve però riconoscere il merito di aver messo per primo a tema, in campo marxista, la spinosa questione. Il conflitto tra potere burocratico e democratico seppure quest’ultimo nelle forme borghesi della rappresentanza parlamentare, è per Gramsci insito nello sviluppo delle società moderne, ed è una tendenza di lungo periodo con la quale tutti dovranno fare i conti. Contro questo scontro di poteri Weber formula una soluzione classicamente liberale puntando sul rafforzamento del parlamento. Gramsci, da una prospettia marxista, incentra invece la sua attenzione sulla frattura di classe che la burocrazia incarna e riproduce e vede due antidotti. Anzitutto, la burocrazia “divenuta necessità” - secondo Gramsci - non cancella anzi solleva con forza il problema del suo rapporto con la politica, ossia la questione “di formare una burocrazia onesta e disinteressata, che non abusi della sua funzione per renderla indipendente dal controllo del sistema rappresentativo”. Nino da Ales vede la via d’uscita nell’intellettuale organico al progetto politico del partito (per lui il Partito comunista). E’ il programma il riferimento, la tensione verso la sua realizzazione è l’antidoto alla burocratizzazione della politica; è questa la via per politicizzare in senso alto i quadri amministrativi sotraendoli ad un ruolo passivo, regressivo e arrogante.
Compiti ardui, che Scalfari tralascia adagiandosi all’oligarchia di governo, mentre esistono rimedi contro di essa che tutti i pensatori d’area democratica si sono sforzati di trovare. Insomma, a Scalfari l’oligarchia sembra piacere, se ne sente parte e critica chi la combatte. Ma noi lo facciamo, nonostante lui, dicendo NO a chi - come Renzi - l’oligarchia vuole addirittura costituzionalizzarla.
3 commenti
1 francesco Cocco
15 Ottobre 2016 - 10:15
Compravo “La Repubblica” dalla sua fondazione , ho smesso di acquistala da quando Scalfari ha cominciato a palesare simpatie per l’attuale governo e per Verdini . Le riflessioni di Scalfari sul rapporto democrazia-oligarchia non mi hanno sorpreso: è la giustificazione della propria posizione referendaria e filo-governativa..
2 Gianfranco Sabattini
15 Ottobre 2016 - 20:22
Le riflessioni di Scalfari sul rapporto tra democrazia ed oligarchia sono fuorvianti. Quando si vuole qualificare in qualsivoglia modo la democrazia, intesa come regime politico-istituzionale, occorre specificare di che democrazia si tratta: democrazia diretta, o democrazia rappresentativa? Quest’ultima è sempre, per definizione, oligarchica, perché governata dai pochi rappresentanti del popolo, eletti per il governo degli “interessi” di tutti. Nella democrazia diretta il problema del pericolo oligarchico non si pone; si pone, invece, nella moderna interpretazione della democrazia rappresentativa, fondata sul principio che vuole che il rappresentante politico eletto sia svincolato dagli interessi esclusivi di chi l’ha espresso. Il problema è antico; i teorici liberali della moderna interpretazione della democrazia rappresentativa, affermano infatti che la piena autonomia del rappresentante politico dopo la sua elezione costituisce la base del moderno concetto di libertà, in contrapposizione a quello antico. Responsabile delle degenerazioni degli oligarchi della democrazia rappresentativa è, come sottolinea Andrea Pubusa, la burocratizzazione dei partiti e della struttura complessiva dell’organizzazione statuale; fatto, questo, che trasforma gli oligarchi della democrazia rappresentativa da portatori di interessi generali in portatori di interessi “particolari”, a causa della corruzione e dell’uso del potere deviante da parte dei rappresentanti, resi possibili dalla burocratizzazione dei partiti e dello Stato. Per attenuare i pericoli delle deviazioni negative degli oligarchi della moderna democrazia rappresentativa non esiste che l’alternativa della democrazia dialogico-deliberativa. Ma per la realizzazione di quest’ultima forma di democrazia occorrerebbe che i governi “à la Renzi” abbandonassero l’attività di riforma dell’organizzazione istituzionale dello Stato, volta solo a rinforzare le deviazioni dal corretto governo nell’interesse di tutti della già corrotta democrazia vigente.
3 FEDERICO DEL GIUDICE
17 Ottobre 2016 - 14:27
Mi compiaccio con sabattini e pubusa …
Hanno fatto una analisi e controanalisi molto attente e sicuramente chiarificanti per la lucidità del loro pensiero.
E un peccato che Scalfari …sia sceso così in basso ..
Non è da lui ..
Forse è l avanzatissima età che ha influenzato il suo
Pensiero…ma resta sempre un grande …oscar alla carriera, ma rimandato a settembre per il rapporto oligarchia democrazia ..
.aspettiamo un ravvedimento operoso…che metta una pezza al suo intervallus insaniae…
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