Riflettendo sui cani-elettori di Guido Melis

28 Settembre 2016
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Andrea Pubusa

Il riferimento agli elettori-cani fatto da Guido Melis a Gavoi mi ha scosso. Ho considerato Guido per anni una delle menti più lucide e interessanti del mondo democratico sardo. Ho condiviso con lui idee e battaglie culturali, anche se la frequentazione è stata scarsa o nulla. Abbiamo insieme fatto parte di quella vasta schiera di giovani entrati nell’agone politico-culturale negli anni  ‘60 con la pretesa e la velleità di cambiare radicalmente il nostro Paese e il mondo. Avevamo dei riferimenti forti e sicuri: la Resistenza e i suoi valori, la democrazia da inverare attraverso l’attuazione del principio di eguaglianza, sancito dall’art. 3 della Costituzione, e, dunque, il lavoro e i lavoratori erano i soggetti non unici, ma primari, di questa trasformazione. Non ci sfuggiva che il movimento di Liberazione aveva allargato il suffragio a tutti, uomini e donne, e avevamo ben coscienza che questa pratica dei diritti politici aveva trasformato le masse proletarie e sopratutto contadine da plebi sottomesse o ribelliste, a seconda dei momenti, in un movimento di sviluppo della democrazia.
Di fronte a questa consapevolezza, sentire oggi Guido dire che al referendum istituzionale del 1946, allorché fu scelta la Repubblica e fu eletta l’Assemblea costituente, votarono anche i cani, mi fa male, molto male. Nelle molte foto dei seggi per le elezioni politiche del 2 giugno 1946, le prime elezioni della storia repubblicana italiana e le prime dopo il periodo di dittatura fascista, non si vedono cani recarsi al seggio, neppure al guinzaglio dei padroni. Si vedono masse in fila ansiose di esercitare un diritto che per molti era una conquista recentissima. Si vedono tante donne vogliose di entrare per la prima volta nella storia del Paese. Nel guardare quelle foto, provo l’emozione della prima volta di quelle donne del popolo e di quei lavoratori, di quei contadini sfatti per la fatica e le difficoltà materiali. Ebbero diritto di voto tutti gli italiani, maschi e, per la prima volta, femmine, di almeno 21 anni d’età. Gli aventi diritto al voto rappresentavano il 61,4% della popolazione. Si votò per la elezione di un’Assemblea Costituente che, proprio per questa sua origine popolare, ha dato origine al più grande avanzamento democratico nella storia del Paese. Agli elettori furono consegnate insieme la scheda del referendum per la scelta fra Monarchia e Repubblica (referendum istituzionale) e quella per l’elezione dei 556 deputati dell’Assemblea Costituente, cui sarebbe stato affidato il compito di redigere la nuova carta costituzionale, come stabilito con il Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 151 del 25 giugno 1944. I votanti furono 24.947.187, pari all’89% degli aventi diritto al voto, che risultavano essere 28.005.449. Numeri importanti quanto alla partecipazione. E decisioni importanti assunte da organi eletti  col sistema proporzionale a liste concorrenti in 32 collegi elettorali plurinominali.  A riprova che non è il sistema proporzionale a rendere difficili o deboli le decisioni.

Penso alle lotte successive: dall’occupazione delle terre alle lotte in fabbrica, che hanno fatto dell’Italia un Paese migliore con lo Statuto dei lavoratori, la scuola dell’obbligo, la riforma sanitaria e molto altro ancora. Ecco in questi processi non vedo cani, vedo masse che, in generale, si battono, anche se in fronti diversi, per un’Italia migliore e vedo forze che si oppongono, che ostacolano il processo democratico. La frase di Guido è pertanto incomprensibile, perché proietta chi l’ha pronunciata nel campo di chi ha visto di malocchio l’immissione delle masse nel processo politico. Se si parla di cani, con un linguaggio forte e ormai in disuso, ci si può riferire ai fascisti, a quelli che anche allora ostacolavano, spesso con trame oscure, la crescita democratica del paese. Non vedo cani in quelle masse ansiose di diritti, di partecipazione e di miglioramento. Quei processi anzi mi convincono che l’avanzamento di un Paese può avvenire solo ad opera dei beneficiari, ossia dei cittadini e la crescita si misura proprio sul tasso di considerazione sociale e di potere decisorio degli strati più bassi della popolazione. Ecco perché va sventato l’attacco del progetto renziano alla rappresentanza, a partire dalle province e dai comuni e a finire ora, nel testo Boschi, col senato non elettivo e con la camera di nominati. Ma forse Guido Melis proprio questo voleva dire: il sistema elettorale finora ha dato uguale peso al voto di tutti, ricchi e poveri, padroni (pardon! imprenditori) e lavoratori. Ed è questo che bisogna modificare. Creare un sistema elettorale “guidato” in modo da far sì che la volontà dei “cani”, di tutti indistintamente i cittadini, non filtri nelle istituzioni, ma decidano solo coloro che cani non sono, lor signori.
Guido Melis, a commento dell’assemblea di Gavoi, ha detto che il NO prevalente le ha conferito un carattere retrò, un sapore da anni ‘60. Tuttavia, con la dovuta attualizzazione, è proprio quello spirito di trasformazione democratica che bisogna riscoprire. In caso contrario, nel distinguere gli elettori in cani e non, più che agli anni ‘60, si torna agli anni ‘30.

1 commento

  • 1 nanni marras
    7 Ottobre 2016 - 15:56

    Più che lasciare un commento, sarei molto interessato ad una replica di Guido Melis, il quale è facile supporre che oggi non coltivi più le stesse idee che aveva negli anni ‘60 (quando militavamo – io e lui – nella stessa organizzazione politica), ma sono estremamente interessato a a conoscere il quadro dialettico in cui avrebbe inserito quella affermazione, in sé incredibile, sui cani recatisi al voto.

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