Gianfranco Sabattini
Uno dei motivi per cui l’immigrazione costituisce la causa di profondi contrasti a livello politico e di discussione a livello di esperti è il fatto che, per Paesi come l’Italia, ma non solo, può essere considerata secondo prospettive diverse, in relazione a problematiche sociali ed economiche diverse; queste, a volte, vengono affrontate senza considerare i tempi necessari per risolverle con adeguate politiche pubbliche, mentre le discussioni si protraggono senza mai giungere a un qualche punto fermo, scontando tra l’altro in negativo la propensione della classe politica ad essere sempre disponibile a “catturare” un consenso di breve respiro, trascurando la ricerca di soluzioni di medio e lungo periodo.
E’ il caso delle analisi sulla valutazione del fenomeno migratorio che ne offrono, su “Limes 7/2016, da un lato, Massimo Livi Bacci, noto demografo, in “All’Italia servono persone prima che braccia” e Germano Dottori, cultore di studi strategici alla Luiss-Guido Carli di Roma, in “Non sarà l’immigrazione a rilanciare l’Italia”. Il primo sostiene che il deficit di popolazione dell’Italia e il forte invecchiamento dei suoi membri sono “attrattori strutturali” degli immigrati; se questi mancassero, l’Italia di qui a metà secolo perderebbe 8 milioni di abitanti. Per contro, Dottori afferma che il Paese, non riuscendo a creare posti di lavoro sufficienti a garantire risposte adeguate alla domanda espressa dalle nuove generazioni, l’immigrazione contribuirà solo a fare crescere la competizione tra poveri, con l’inevitabile conseguenza di una maggiore esposizione della società al “rischio della reazione identitaria” e del “degrado della sicurezza”.
Si tratta di analisi del problema degli immigrati che colgono due aspetti reali differenti, riferibili però a due prospettive temporali diverse. Occorre vedere se, sul piano politico, i responsabili dell’azione governativa, adusi a commisurare le loro decisioni sul breve periodo, saranno in grado di elaborare una politica per regolamentare l’immigrazione, al fine di conciliare nel medio e lungo periodo le opposte esigenze: di fare fronte, da un lato, ai deficit demografici dei quali parla Livi Bacci e, dall’altro lato, alle problematiche sociali ed economiche evidenziate da Dottori.
Per valutare se la classe politica sarà in grado di effettuare scelte razionali e responsabili, considerando le argomentazioni dei due autori, va tenuto presente che esse rispondono a prospettive temporali tra loro non confrontabili: pena la inevitabile incomprensione della complessità dei problemi da risolvere e la sensazione dell’impossibilità di pervenire ad una linea d’azione pubblica in grado di assicurare risposte flessibili alla persistenza del fenomeno migratorio, conciliando le opposte esigenze sul piano demografico e su quello economico-sociale.
Le tendenze demografiche, afferma Livi Bacci, devono essere interpretate a tre livelli diversi, ma strettamente connessi tra loro: innanzitutto, a livello macro, per studiare come l’insieme degli individui che compongono una data popolazione di un sistema sociale influenzi la produzione, il consumo, il riparto delle risorse, l’impatto ambientale, ecc, che si verificano; in secondo luogo, a livello micro, per analizzare come le scelte e i comportamenti individuali impattino nel lungo periodo, attraverso le nascite, le unioni, le morti e le migrazioni, sulla struttura della popolazione; in terzo luogo, le tendenze demografiche devono essere interpretate in relazione alla qualità desiderata della popolazione, cioè in funzione delle componenti della struttura fondamentale della popolazione, quali la “bassa mortalità” e l’”invecchiamento”, intesi come sintomi di “buona salute”, e la propensione ad unirsi per riprodursi, quale conseguenza di condizionamenti sociali, ma anche di libere scelte individuali.
Nel 2015, la popolazione dell’Italia, per la prima volta dall’Unità, è diminuita rispetto all’anno precedente. Dopo secoli di crescita continua – afferma Livi Bacci – il XXI secolo, stando ad ”autorevoli previsioni demografiche”, potrebbe segnare un’inversione di tendenza; secondo tali previsioni, sia l’immigrazione che la ripresa della natalità non sarebbero sufficienti a frenare il declino demografico del Paese nel contesto internazionale: l’Italia era al settimo posto nella graduatoria dei Paesi più popolati all’inizio dell’Ottocento, al 10° nel 1950, al 23° nel 2015 e, secondo le previsioni, sarà al 33° posto nel 2050. A livello europeo, ancora al lordo della presenza del Regno Unito, l’Italia ha conservato nel tempo il proprio peso demografico, oggi pari al 12% della popolazione complessiva. In ambito mediterraneo, nel quale l’Italia aspira ad esercitare un ruolo importante, almeno pari alla propria dimensione economica, il “baricentro demografico si sta spostando verso Sud-Est”; fatto, questo, che spinge molti osservatori a ritenere che la crescita demografica della parte povera del Mediterraneo sia un’opportunità per l’Italia; ma, ammesso che ciò corrisponda al vero, cogliere questa opportunità non sarà agevole, a parere di Livi Bacci, se si considera che sinora, anche quando il fenomeno dell’immigrazione non era così pressante come lo è adesso, l’Italia non è riuscita ad avvantaggiarsi delle opportunità offerte dalla unificazione economica del Mezzogiorno al resto dell’economia nazionale.
La popolazione è una grandezza che si modifica assai lentamente nel breve periodo, perché i flussi in entrata, come quelli in uscita, sono relativamente di piccola entità; ma quando i flussi variano di dimensione, perché diminuisce la natalità o si allunga la speranza di vita, com’è accaduto in Italia, si verificano profonde modificazioni nella struttura della demografia. Per comprendere l’intensità delle forze che hanno segnato, anche per il futuro, la popolazione italiana, occorre tener presente che essa, dalla fine della seconda guerra mondiale, ha subito, in termini più sostenuti che in altri Paesi europei, l’impatto di una “vera e propria rivoluzione riproduttiva”, che ha provocato “una forte compressione della natalità”.
Inoltre, negli ultimi quarant’anni la speranza di vita degli italiani è migliorata di un decennio, “toccando gli 83 anni nell’insieme di donne e uomini”; ancora, un fattore che ha pesato sulla struttura della popolazione italiana è espresso dalle migrazioni, che hanno determinato l’”inversione del ruolo del Paese da esportatore a importatore di risorse umane”. Fino agli anni Novanta, i flussi di immigrazione sono stati limitatati, ma nel primo decennio di questo secolo hanno subito un notevole incremento, sino a trasformarsi, nell’ultimo quindicennio, in “un potente fattore di rinnovo della popolazione”; ciò perché il “flusso netto degli entrati” è stato pari “a oltre la metà dei nuovi nati”. Infine, negli ultimi decenni, sono intervenute profonde modifiche nell’istituto familiare; è cresciuta l’età alla quale gli adulti tendono a formare una copia con l’intento di avere figli ed è aumentato il numero delle persone che hanno deciso di vivere sole; queste tendenze, unitamente a quelle precedentemente descritte, maturate all’interno delle società moderne, sono destinate tutte ad investire l’assetto del mercato del lavoro e del sistema del welfare.
Dal punto di vista demografico, quali mutamenti subirà nel futuro la struttura demografica dell’Italia? Secondo previsioni delle Nazioni Unite, ipotizzando rispetto ai livelli attuali una ripresa del 15% della riproduttività, un ulteriore aumento di 5 anni della speranza di vita e un’immigrazione netta di circa 100 mila unità all’anno, la popolazione italiana dovrebbe ridursi di oltre 3 milioni di unità; stando a queste previsioni, il problema reale consisterebbe nel fatto che la riduzione, pur modesta, sarebbe, afferma Livi Bacci “la risultante della riduzione di un decimo per i giovanissimi sotto i 15 anni, di un quarto degli adulti in età di lavoro, e dell’aumento della metà degli anziani ultrasessantacinquenni”. Se, dunque, queste previsioni dovessero verificarsi, ipotizzando l’azzeramento dell’immigrazione e la conservazione delle stesse ipotesi di natalità e mortalità, la riduzione della popolazione tra il 2015 e il 2050 ammonterebbe a 8 milioni di unità.
Di fronte a queste previsioni, anche se si ipotizza un aumento dei tassi di attività di donne e uomini, un allungamento dell’età lavorativa ed un aumento degli investimenti in nuove tecnologie e capitale umano, non sarà possibile – a parere di Livi Bacci – né contrastare sufficientemente gli effetti negativi dell’invecchiamento sulla produttività, né contenere (se non parzialmente) il declino numerico delle forze di lavoro. Ciò perché la possibile ripresa prevista della natalità “avrebbe scarsi effetti fino alla metà del secolo”, in quanto la “possibile ripresa delle nascite comincerebbe ad avere effetto sull’aggregato lavoro a venti o più anni di distanza, e inciderebbe assai poco sullo stock di lavoro prima della metà del secolo”.
Per tutte queste ragioni, secondo Livi Bacci, ai fini di un razionale governo dell’immigrazione, occorrerà che si tenga conto di tre aspetti essenziali riguardanti i flussi degli immigrati: innanzitutto, che il Paese continuerà ad essere il punto d’arrivo di consistenti flussi migratori, forse con saldi netti inferiori a quelli verificatisi nel primo decennio di questo secolo, ma comunque molto alti; in secondo luogo, che il volume e la composizione dei flussi dipenderanno dalle politiche che saranno adottate; infine, che possibili catastrofi e conflitti sparsi per il mondo potranno generare ulteriori “ondate” di immigrati. Tenuto conto di tali aspetti, quali potrebbero essere le migliori politiche da perseguire?
Livi Bacci sottolinea che tali politiche non dovranno “esaurirsi nel far fronte all’eccezionalità, a spese dell’intelligente gestione della normalità che si manifesterà, nei prossimi decenni, in un costante e notevole afflusso di migranti, necessari a una società che non sa rinnovarsi adeguatamente con le forze proprie”. Occorrerà, in ogni caso, stabilire di che tipo di immigrati avrà bisogno il Paese. L’Italia – conclude Livi Bacci – avrà sicuramente bisogno di immigrati qualificati, ma necessiterà anche di lavoratori generici, sia pure dotati dell’aspirazione a migliorare, considerato che un “Paese demograficamente debole” com’è appunto quello italiano, ha bisogno di persone prima che di lavoratori; persone che contribuiscano a colmare i numerosi deficit strutturali della popolazione italiana. Proprio per quest’ultimo motivo, poiché gli immigrati concorreranno a cambiare la fisionomia della popolazione del Paese, sarà necessario che le politiche per l’immigrazione adottate siano condivise da un ampio consenso democratico.
Di segno diametralmente opposto è l’analisi dei flussi migratori formulata da Dottori; rispetto a tali flussi, verrebbe da tempo “ossessivamente espresso un mantra”, ovvero, che l’Italia “sarebbe un Paese in via di progressivo invecchiamento, nel quale un numero sempre più piccolo di persone in età lavorativa dovrà farsi carico di un numero crescente di anziani in pensione e bisognosi di cure mediche”. L’argomentazione, a parere di Dottori, avrebbe il “suo fascino”, ma sarebbe “molto meno solida di quanto appare”, alimentando pericolose illusioni e comunque tendendo a trascurare alcuni elementi essenziali per un plausibile “calcolo di convenienza” relativo al modello di futuro desiderato dagli italiani.
Il punto principale contro il quale si scontrerebbe, in Italia, la tesi che sostiene la necessità dell’immigrazione, imposta dalle difficoltà di sostenere il welfare realizzato, sarebbe proprio l’incapacità del sistema produttivo nazionale “a generare opportunità lavorative adeguate quantitativamente e qualitativamente a soddisfare le aspettative di chi vorrebbe trovare un’occupazione. In considerazione di ciò, pertanto, non è pensabile di poter “ricostruire il processo di sviluppo del nostro Paese scommettendo sull’immigrazione”; sarà necessario, al contrario, rallentare il flusso degli arrivi, in considerazione del fatto che una cosa è il “sentimento umanitario”, altra cosa è pensare che chi abbandona il proprio Paese per sottrarsi a calamità di ogni genere possa concorrere alla salvezza dell’Italia: le valutazioni degli effetti dell’immigrazione fatte negli ultimi anni, a proposito dell’ipotetico fabbisogno italiano di manodopera estera, non si concilierà, “né con la sopravvivenza della nostra fabbrica sociale, né con il sogno egoista di far pagare ai ‘nuovi italiani’ la nostra sanità e le nostre pensioni”.
Le due analisi, quella di Livi Bacci e quella di Dottori, sull’immigrazione e sulle politiche da adottare per un razionale governo dei flussi di migranti, non potrebbero essere più diverse. Per quanto colgano aspetti realmente preoccupanti dello status del nostro sistema sociale ed economico, in linea di principio esse non sono confrontabili, in quanto si riferiscono a prospettive temporali diverse: di medio e lungo periodo (forse più lungo che medio) quella di Livi Bacci; ad una prospettiva immediata quella di Dottori.
La posizione critica di quest’ultimo, tuttavia, è riassunta nella proposta del demografo, sia pure col limite d’essere subordinata alla rimozione, nel lungo periodo, dei punti deboli della struttura demografica italiana. Qui sta forse il “tallone d’Achille” della proposta di Livi Bacci, fondata sull’idea di poter governare l’immigrazione in termini di fabbisogno di persone, piuttosto che in termini di lavoratori. Lo stato in cui versa il sistema sociale ed economico dell’Italia induce a pensare che questo da solo, fuori dal supporto di una solidarietà internazionale, ora difficile da immaginare, non sia, nell’immediato e forse neppure in un futuro prossimo, in grado di attuare una politica demografica idonea a risolvere tutti i problemi che si pongono nel breve e nel medio-lungo periodo.
1 commento
1 Migranti | Aladin Pensiero
20 Settembre 2016 - 08:41
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