Governabilità e cultura di governo alla vigilia del referendum

7 Settembre 2016
Nessun commento


Tonino Dessì

Risultati immagini per governabilità foto
.

Venerdì scorso, su La Repubblica, un’interessante provocazione di Nadia Urbinati ha sollevato una questione che mi intriga da tempo.
Ci sono sempre più Paesi che riescono ad andare avanti piuttosto bene, o quantomeno normalmente, anche con sistemi politici talmente in crisi da non riuscire a produrre non dicasi governi stabili, ma proprio nessun governo.
È accaduto alcuni anni fa in Belgio e sta accadendo in Spagna; in Gran Bretagna è in atto una situazione prossima a quella, dopo il referendum sulla UE; avrebbe potuto essere così addirittura in Germania, se non fossero ricorsi alla (non inedita) formula della Grosse Koalition.
In parte è già così anche in Italia: il governo in carica non trova la sua legittimazione nell’ultimo voto per l’elezione del Parlamento, non vinto da nessuno, ma nella sopravvalutazione artificiosa, compiuta con la complicità del sistema mediatico, del consenso ottenuto dal PD alle successive elezioni europee, ridimensionata concretamente e drasticamente dal voto delle recenti elezioni amministrative.
C’è peraltro chi prefigura il determinarsi anche formale della situazione di “non governabilità” se in Italia al referendum autunnale vincesse il NO.
Sabato per esempio è sembrato paventarlo uno degli storici commentatori cui L’Unione Sarda è talvolta in grado di affidare editoriali dai quali si evinca una linea politica trasparente sui fatti politici generali.
Il dottor Filippini infatti da un lato ha rimproverato quanti (a destra come a sinistra, ma forse più a destra, dopo la rottura della maggioranza che espresse il Governo Letta e soprattutto del clima del Patto del Nazareno) non hanno coltivato un terreno politico di unità nazionale; dall’altro, rebus sic stantibus, ha consigliato, pur fra tante perplessità, di mantenere un’apertura di credito al Presidente del Consiglio Renzi: id est, in questo momento, spezzare una lancia, neppure troppo implicitamente, per il SÌ al referendum.
Tuttavia, tornando al punto da dove siamo partiti, il fatto è che, in Paesi colpiti da una crisi istituzionale determinata da quella del rispettivo sistema politico, le cose, almeno in economia e nell’occupazione, sembrano andar molto meglio che in Italia, dove c’è un Governo, avventurosamente partorito da un’analoga crisi della politica, che dice di governare.
Si possono fare molte considerazioni, su questo.
Alcuni dicono che è il trionfo definitivo del neoliberismo, a dimostrare -positivamente, negli altri Paesi- che di troppe istituzioni e di troppa democrazia si muore soffocati.
Altri deplorano l’ormai consumata vittoria neoliberista, rilevando che ormai il liberismo trionfa indifferentemente sia quando riesce a far fuori la democrazia, sia quando piega la democrazia a fornirgli governi allineati e compiacenti.
Io credo che non sia esattamente così e ritengo che proprio in un periodo di affermazione del neoliberismo più sfrenato e nonostante questo, l’accumulo di democrazia e di garanzie istituzionali e giuridiche del secondo dopoguerra europeo ancora impedisca alle società della vecchia Europa di deflagrare nella guerra sociale e civile e quindi alla democrazia formale di trovarsi nuovamente sull’orlo di un precipizio.
Non so però quanto durerà questa resistenza sociale, culturale e istituzionale.
In Italia poi, a contrariis, abbiamo un Governo che rischia, sul terreno costituzionale, di precipitarci in un caos più grave ancora di quello nel quale mantiene la nostra economia con provvedimenti rivelatisi del tutto inutili come gli 80 euro, o dannosi, come il jobs act, al quale neppure il pacco di incentivi pubblici dati alle aziende è riuscito ad assicurare un successo.
Non c’è da paventare perciò nessun disastro, se vincerà il NO. Peggio di così è difficile immaginare che possa andare, politicamente ed economicamente.
Peraltro avremmo in compenso il mantenimento di un sistema costituzionale che con tanti limiti sta tenendo, come ha tenuto per settant’anni e alla politica sarebbe rinviato il tema di come risolvere la sua crisi senza scaricarla sulle istituzioni.
Certo, la complessa società italiana probabilmente dovrà ancora prodigarsi per un po’ in quello “sfangarla comunque, nonostante il gravame della politica”, con cui ha finora dimostrato di reggere alle infinite crisi.
Alla crisi del sistema politico bipolaristico tradizionale dell’ultimo ventennio, infatti, si sta aggiungendo quella esplosa nel recente potenziale terzo polo, quello rappresentato dal M5S.
A me, proprio, quello che sta accadendo a Roma pare la quintessenza non della mancanza di una linea in genere, ma della mancanza di una linea di rinnovamento in toto e a mio avviso rivela un apprendistato tutto compiuto, purtroppo, al di là dei proclami, in subalternità alle peggiori logiche di un sistema marcio.
Ma quando mai si deve scatenare una guerra per i posti di Capo di Gabinetto, addirittura di Vice Capo di gabinetto, o di componente della segreteria del Sindaco?
Ma sono posti davvero così importanti, per la politica “esterna” alla funzione istituzionale del Sindaco?
Io sono stato Capo di Gabinetto di un assessorato regionale, che praticamente è un ministero. L’Assessore che mi scelse, per quanto appartenessimo al medesimo partito, non era in quel periodo in particolare sintonia politica con me. Mi propose l’incarico perché apprezzava la mia professionalità e perché preferiva uno su cui confidare per la lealtà che mi chiedeva di assicurargli sul mio onore, anziché uno sceltogli dal partito stesso.
Da Assessore regionale ho fatto tesoro di quell’esperienza e poche ore dopo l’assunzione della carica bruciai nel tempo tutti, Presidente, colleghi di Giunta e soprattutto partito di appartenenza e partiti di maggioranza, nominando come Capo di Gabinetto (ossia mio alter ego) una stimatissima collega di antica militanza comune di lavoro al Centro Regionale della Programmazione.
Ricevetti e rispedii al mittente una stramba missiva di rimprovero e di invito alla “collegialità nelle scelte dei componenti degli uffici di gabinetto”, da parte di una persona che allora coordinava lo staff presidenziale e tanto mi dimostrai offeso e arrabbiato, che quando mi mossi nello stesso modo per proporre la nomina del direttore generale dell’Assessorato, scegliendo il dirigente che reputavo migliore, anche se non appartenente nemmeno alla mia area culturale, non solo politica (era allora noto come un comis d’Ètat indipendente), pochi ebbero il coraggio di fiatare e comunque il fiato se lo dovettero ingoiare.
Che cos’è quindi, questo sbranarsi tra clan su figure delle quali è il Sindaco a doversi assumere una responsabilità fiduciaria, perché su quelle persone dovrà contare nel suo lavoro quotidiano e perché solo su un rapporto di diretta lealtà con loro potrà fare pieno affidamento quando i rapporti sia col proprio partito sia col resto del sistema politico inevitabilmente diverranno poco solidali e nel contempo principalmente solo grazie alle capacità di queste persone potrà esercitare la direzione politica degli apparati amministrativi?
Stanno emergendo molta debolezza personale, in termini di autonomia e poca conoscenza dell’ambiente circostante, nella sindaca Raggi, anche nel non cogliere appieno le opportunità di nominare, a parte gli staff di sua esclusiva pertinenza, soprattutto una Giunta costruita sulla base delle capacità, delle autorevolezze, delle innovazioni chiaramente apprezzabili e apprezzate.
Ed emerge un’arretratezza spaventosa, quanto a cultura di governo, nel suo partito.
Questa consigliatura romana parte non male, ma malissimo.
È questo, tornando al tema di partenza, il contesto della vigilia di una scelta, quella referendaria, che non solo rimette nelle mani dell’elettorato le sorti di una pessima revisione costituzionale (e del correlato sistema elettorale), ma gli consegna ancora di più il compito di assicurare la tenuta e la stabilità del quadro strutturale fondamentale del Paese, scongiurando che alla precarietà della politica si sommi l’avventura istituzionale.
Andrà fatto in autonomia, scontando le complicazioni che investono le tortuose vicende dei diversi soggetti politici, ma, anche per questo, il pronunciamento avrà più valore e maggior capacità di indicare durevolmente i binari di serietà cui la politica è tenuta a tornare, se non vuole che davvero il Paese materiale decida di fare a meno di lei.
Decisione che, detto conclusivamente per evitare fraintendimenti, io non auspico affatto.

0 commenti

  • Non ci sono ancora commenti. Lascia il tuo commento riempendo il form sottostante.

Lascia un commento