Tonino Dessì
Scorro in questi giorni sui media e sui social le preoccupazioni per l’accentuarsi della svolta populistico-totalitaria in Turchia e per il paventato avvicinamento politico-strategico con l’autocrazia putiniana.
Non pochi leggono sintomi analoghi in Italia nell’occupazione della Rai da parte del Governo Renzi ad onta di ogni proposito precedentemente proclamato di liberare la Rai dall’occupazione dei partiti.
Immaginiamoci se il voto referendario andasse nella direzione auspicata dal Presidente del Consiglio.
Di sicuro il Paese non sarebbe più lo stesso.
Dubito tuttavia che tutti, compresi molti sostenitori “pro bonum” del Si, alla fine si scoprirebbero davvero contenti.
Nei canali Rai al momento, in assenza di qualsiasi par condicio, si intensifica il martellamento delle notizie di iniziative e dichiarazioni pro-riforma.
Qualche organo di stampa comincia invece a fare il suo dovere pubblicando a confronto le posizioni dei favorevoli e dei contrari alla revisione costituzionale.
È un bene, perché i contenuti e i toni fortemente antipolitici della propaganda del Si vengono alla luce con maggior evidenza, mentre si constata la genericità delle spiegazioni sul merito. “Qualcosa bisognava pur fare”, dicono, in buona sostanza. Nulla di più.
Devo dire che, complessivamente, i contrari alla riforma si sforzano di dare spiegazioni e motivazioni più articolate.
Tuttavia avverto un problema di tono, negli interventi contro la riforma, forse un riflesso di difesa dall’accusa di conservatorismo.
Penso che occorrerebbe essere più espliciti, a tal proposito.
Non solo nel rappresentare un fatto storico oggettivo, cioè che i vituperati istituti e meccanismi della Costituzione, in settant’anni, hanno assicurato all’Italia una tenuta non scontata rispetto alle tante e acute crisi politiche, economiche e sociali che hanno caratterizzato la complessa vita del Paese nel secondo dopoguerra.
Sia il bicameralismo, pur attuato in una formula, quella della perfetta parità di funzioni e della modalità di elezione, sicuramente migliorabile già a Costituzione vigente, sia l’articolazione territoriale rappresentativa e autonomistica dei poteri pubblici, se hanno dato luogo a complessità e talvolta a pesantezze dei processi decisionali, hanno adempiuto pienamente alla funzione di corresponsabilizzazione della multiforme composizione politica, culturale, sociale del Paese tanto nelle fasi di crescita e di modernizzazione, quanto nell’ingresso in un periodo della storia mondiale nella quale crisi economiche e radicali trasformazioni dei poteri materiali hanno posto e pongono ricorrentemente in discussione la pace, gli equilibri sociali, la stessa democrazia.
Peraltro l’attuazione della Costituzione si è sbloccata appena a partire dagli anni ‘70 e ha incontrato ed incontra, nella realizzazione evolutiva del suo progetto fondamentale, resistenze permanenti.
In realtà, più che da oggettive esigenze di aggiornamento, molte ipotesi di revisione, come quella berlusconiana bocciata dal voto referendario del 2006 e questa oggetto del prossimo referendum costituzionale, nascono proprio dalle resistenze a un dispiegamento integrale e coerente della Carta fondamentale.
Aggiungo che in realtà, quella che va scaricandosi sugli assetti costituzionali e sulle istituzioni nel loro complesso non è la conseguenza di una loro inadeguatezza originaria o sopravvenuta, bensì il crollo della capacità del sistema politico di affrontare la sua specifica crisi in termini di capacità di lettura del momento storico globale, di elaborazione progettuale di ampio respiro, di riforma morale, di rinnovamento e di interpretazione dei bisogni di una società complessa in trasformazione.
Vorrei aggiungere anche qualche considerazione più specificamente sistemica.
Non è casuale che manchi in (ogni) Costituzione la previsione di una nuova eventuale Assemblea Costituente. Nessun Parlamento la potrebbe legalmente istituire. Al Parlamento per converso è conferito dalla Costituzione italiana un potere emendativo ampio: penso tuttavia che fin dal 2001 qualcuno avrebbe dovuto sollevare con determinazione il problema della legittimità costituzionale di revisioni comprendenti, in un solo atto legislativo, un numero tanto elevato di articoli e di istituti giuridico-istituzionali. Nessuna modifica della Parte Seconda di tali ampiezze e contenuti, infatti, resta neutra quanto a effetti distorsivi sulla Parte Prima, che pure tutti dicono di considerare nella sua sostanza intangibile.
Si dice poi, non senza fondamento, che sarebbero auspicabili riforme il più condivise e il meno divisive possibili, mentre certamente quella in discussione non lo è. Tuttavia sarebbe meglio non dimenticare che la riforma portata a conclusione parlamentare dal Governo Renzi è nella sostanza quella concordata con Berlusconi nel Patto del Nazareno: contestualmente all’impianto dell’Italicum, del resto.
Come accadde con la Comissione Bicamerale presieduta da D’Alema, Berlusconi si è sfilato all’ultimo per non aver ottenuto qualcosa a cui riteneva legata l’osservanza dei patti: in entrambi i casi essenzialmente un problema di immunità penale e di garanzia politica personale.
In realtà la riforma trova le radici in un comune sedimento, se non totalmente anticostituzionale, certamente extracostituzionale, tra i due maggiori partiti del sistema politico, fondato sull’affermazione e sulla difesa di una nuova Costituzione “materiale”: un interesse da difendere contro ogni intrusione.
Credo perciò di poter sostenere con fondatezza che la vittoria del NO a Novembre avrà un grande significato in termini di interpretazione costituzionale, più ancora di quanto ne avrebbe una legge scritta.
Il voto stabilirà che la Carta non si può modificare all’ingrosso, bensì solo puntualmente, su argomenti storicamente e culturalmente maturi, con interventi migliorativi ed evolutivi considerati pressoché unanimemente utili.
Mai però per convenienze politiche di una parte o per il fine dell’autoconservazione di una casta o di un assetto politico partitico, per quanto ampio possa essere.
Un esito -il secondo pronunciamento referendario conforme in dieci anni- che avrà un’enorme e permanente valenza di indirizzo sulle prossime riforme.
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