Il progresso e i suoi limiti

17 Agosto 2016
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Gianfranco Sabattini

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L’idea di progresso si afferma nel XVI secolo, radicandosi esplicitamente nella cultura europea in quello successivo, dando origine alla rivoluzione scientifica; secondo Carlo Altini (“Progresso”), l’idea è inclusiva di una “concezione ‘comprensiva’ del processo storico in termini di direzionalità, universalità e prevedibilità”, e la sua accettazione richiede “un mutamento qualitativo, e non solo quantitativo, nella considerazione dell’accumulo” dell’esperienza realizzata nei diversi comparti dell’attività materiale e culturale dell’uomo.
Nel suo materializzarsi, l’idea di progresso è stata spesso sorretta da quella di utopia, che ha svolto il ruolo di molla a supporto della cultura moderna, “nel suo sforzo verso l’emancipazione dell’individuo dai legami tradizionali e la realizzazione di una società garante di giustizia e libertà”; senza che ciò implicasse, però, l’ignoranza dell’esistenza di un’altra faccia dell’utopia, indicante che “i progetti utopici di emancipazione possono rovesciarsi nel loro esatto opposto, cioè in distopie caratterizzati da elementi totalitari”.
La concezione del progresso si afferma definitivamente nel tardo Rinascimento, connessa all’estendersi delle conoscenze tecnico-scientifiche e alla maturazione del convincimento della “capacità di controllo della natura da parte dell’uomo”; questo convincimento è stato supportato dallo sviluppo delle arti meccaniche, pratiche che fondavano la loro legittimità in “una prospettiva non contemplativa, bensì attivistica del sapere umano”, che giustifica il radicarsi di un libero “atteggiamento ’prometeico’” orientato verso gli orizzonti di tutti i campi dell’attività umana.
Anche se la fiducia nel progresso dell’umanità ha trovato un limite nello scarto normalmente esistente tra la “rapidità dello sviluppo scientifico” e la “lentezza del miglioramento morale e politico”, molti scrittori del Settecento hanno sottolineato la necessità di continue riforme, al fine di supportare la diffusione della conoscenza, concepita come strumento di progresso graduale. Tuttavia, nonostante la fede nel continuo progresso, inteso come molla per il raggiungimento di una “mèta di relativa perfezione”, era anche diffusa in molti illuministi del Settecento la credenza della possibilità di un declino del miglioramento civile. Come afferma Altini, si pensava che tale declino potesse arrestarsi, oppure “essere ostacolato dalle forze della reazione…o, infine, diventare oggetto di contesa interpretativa in merito alla legittimità del mutamento rispetto all’ordine politico dato”; determinante, allora, “è divenuta la capacità umana di agire nella storia, sollecitando in modo attivistico il mutamento”.
In questo modo, l’idea di progresso si è arricchita di un contenuto ideologico, nel senso che essa ha finito con l’assumere un valore completamente diverso, a seconda che fosse valutata secondo una prospettiva progressista, rivoluzionaria o conservatrice. La natura ideologica dell’idea ha reso possibile che il miglioramento civile potesse essere valutato diversamente, a seconda della prospettiva politica, sociale ed economica di chi l’avesse assunta; in questo modo, il miglioramento civile è divenuto motivo del confronto politico orientato a favorire la “modernità contro la tradizione”.
Le critiche all’idea di progresso sono nate soprattutto sul piano socio-economico, su un piano, cioè, che invece – come sostiene Altini – avrebbe dovuto “confermare la realtà del progresso reso possibile dalla rivoluzione industriale”, svoltasi a cavallo tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. La rivoluzione industriale, infatti, pur avendo concorso a migliorare le condizioni esistenziali dei popoli come mai era avvenuto in passato, ha causato forti disuguaglianze distributive, che hanno favorito il diffondersi di condizioni di vita insopportabili per una quota crescente della popolazione di quegli Stati all’interno dei quali maggiori sono stati gli esiti della rivoluzione industriale.
Cogliendo la natura contraddittoria di tali esiti, Thomas Malthus ha potuto formulare una critica radicale del pensiero illuminista progressista; egli infatti, nel suo famoso saggio sulla popolazione, pubblicato nel 1798, ha sostenuto l’esistenza di una legge naturale che smentiva la fiducia nel progresso dell’umanità e nella validità dei progetti di riforma sociale: il maggiore ritmo col quale cresceva la popolazione, in rapporto a quello col quale aumentavano le risorse alimentari, rendeva illusoria l’idea di progresso. Le ineguaglianze distributive, la povertà e le condizioni di vita insostenibili erano agli occhi di Malthus un fenomeno ineliminabile di tutti i sistemi sociali, per cui era del tutto inutile proporre disegni di miglioramento sociale che non tenessero conto di questa dura necessità.
Quella di Malthus non è stata una voce isolata; almeno nella prima fase delle rivoluzione industriale, gli esiti sul piano sociale sono stati di una tale gravità da indurre molti scrittori e studiosi di scienze sociali a sottolineare il “volto di Medusa” della fiducia nel progresso, “sempre guidato, garantito e rischiarato dalla luce della raion”. Nemmeno nel pensiero marxista, a parere di Altini, emerge una difesa tout court dell’idea di progresso, il cui carattere graduale e riformistico contraddice lo spirito rivoluzionario del marxismo ortodosso. Al contrario, il movimento socialista, reinterpretando in termini riformistici l’idea della rivoluzione proletaria come fonte e motore della storia, pur non mettendo in discussione l’analisi della società fatta da Marx, ha rinunciato a considerare la rivoluzione mondiale come primo obiettivo ai fini del miglioramento civile. Il socialismo riformista, constatando che il modo capitalistico di produrre, affermatosi con la rivoluzione industriale, portava a un miglioramento delle condizioni di vita di tutti, ha concluso che i progressisti potevano collaborare con tutte le forze democratiche presenti all’interno dei singoli sistemi sociali.
Il rapporto tra ideologia del progresso, effetti indesiderati della rivoluzione industriale e modalità politiche per il loro contenimento o rimozione ha costituito motivo di confronto tra forze di destra e forze di sinistra nel corso di una buona parte del Novecento. Nella seconda metà di tale secolo, però, l’idea di progresso è diventata ambigua, nel senso che la fede nel progresso ha cessato di appartenere alla cultura occidentale; ciò perché sono venute meno le due convinzioni sulle quali ha riposato la fede nel progresso dacché essa si era affermata: in primo luogo, l’assunto che nella storia fosse “presente una ‘legge’ che tende, attraverso gradi e tappe, alla perfezione e alla felicità del genere umano”; in secondo luogo, che tale processo di perfezionamento coincidesse con la crescita del sapere scientifico, sino a rendere possibile “il progresso morale e politico”. In altri termini, è venta meno l’idea implicita che il progresso tenesse costantemente insieme miglioramento della conoscenza, etica e politica.
E’ stato il venir meno di questa idea implicita che ha reso ambiguo il progresso, diventando l’ambiguità “il dato fondamentale” con cui valutare i risultati del miglioramento civile. Ciò è accaduto, a parere di Altini, a seguito del verificarsi “delle epocali trasformazioni economiche, politiche e culturali determinate dalla globalizzazione”, che in misura crescente ha sostituito la fiducia nella crescita economica, nel progresso scientifico e tecnologico e nelle possibilità di un miglioramento della qualità della vita sociale. Alla luce di quell’ambiguità sono stati valutati criticamente i cambiamenti globali determinati dalla crisi dello Stato e dall’emergere di organizzazioni internazionali; fenomeni, questi, che pur non essendo in sé indici di progresso, né di decadenza, riescono ad orientare, pur tuttavia, nell’una e nell’altra direzione a seconda degli obiettivi propri delle nuove forme assunte dai poteri dominanti.
Gli esiti dei cambiamenti globali che hanno caratterizzato il mondo nell’ultimo scorcio del secolo scorso, però, sono stati “strumenti” a disposizione dei nuovi poteri, e non “fini”; essi, infatti, non sono stati neutrali rispetto alle aspirazioni dell’umanità. Tutto ciò comporta la necessità di non condividere o di non respingere le nuove forme di supporto del progresso, ma “di individuare le strategie – afferma Altini – attraverso cui esse possono essere gestite al riparo dei massicci condizionamenti del potere politico, economico e ideologico”; ciò, perché è solo in questo modo che, forse, diventa possibile “eliminare i rischi di una deriva autoritaria…, preservando l’impatto libertario…che si trova alla base del desiderio umano di migliorare e di potenziare la propria condizione fisica e psichica, individuale e sociale”.
In conclusione, come afferma Remo Bodei in “Limite”, un saggio complementare a quello di Altini, le società moderne, maturando l’idea di progresso, hanno via via “smontato i millenari meccanismi d’inibizione delle aspettative terrene. Con il progressivo allentarsi dei dispositivi d’esclusione e di selezione, con la promessa dell’eguaglianza per tutti è stato legittimato e assecondato il desiderio di ciascuno di oltrepassare la propria condizione d’origine, di vedere soddisfatti i propri bisogni e desideri, di poter più agevolmente scalare le vette della piramide sociale e conseguire in tal modo potere, ricchezza, cariche prestigio e fama”. Ciò però non è stato privo di un alto costo, individuato da Altini nel pericolo che l’umanità sia esposta ad una deriva autoritaria.
Per evitare questo pericolo, oltre a preservare la libertà dal bisogno sinora conseguito, l’umanità dovrà anche approfondire, più di quanto non abbia fatto sinora, il senso del limite, convincendosi che l’attitudine a riconoscere i limiti della fede (per quanto ambigua), in un progresso continuo, è un’arte che va coltivata con cura; senza con ciò rinunciare a migliorare lo stato della conoscenza del mondo, ma commisurando le proprie future scelte nel perseguimento dei nuovi obiettivi alle energie conoscitive, morali e politiche delle quali l’umanità dispone; nella certezza, come sottolinea Bodei, ricordando una tesi weberiana, che “se gli uomini non tentassero continuamente l’impossibile, il possibile non verrebbe mai raggiunto”. Ciò, in ricordo del motto “Plus Ultra”, che alla fine del Quattrocento, quando iniziava ad affacciarsi l’idea di progresso, campeggiava sulla bandiera della flotta spagnola in rotta verso l’ignoto.

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