La Costituzione, meglio attuarla che cambiarla

4 Agosto 2016
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Difendere la Costituzione repubblicana non significa “imbalsamare un antenato più o meno nobile”

Gianfranco Sabattini

Il libro di Salvatore Settis, “Costituzione. Perché attuarla è meglio che cambiarla”, non si riferisce solo alla situazione contingente della chiamata alle urne degli italiani, per il referendum sulla proposta Renzi-Boschi di modifica della Costituzione; esso riguarda anche il processo, iniziato subito dopo l’entrata in vigore della Costituzione adottata dall’Itala alla fine della seconda guerra mondiale, col quale, in momenti diversi, sono stati tentati o attuati dei cambiamenti parziali, che di solito avevano lo scopo di “smantellare” l’insieme dei diritti e delle garanzie previsti, oppure di realizzare presunte semplificazioni del funzionamento delle istituzioni repubblicane volute e prescritte dalla Assemblea Costituente del 1946; un processo, questo, che, a parere di Settis, è destinato a durare anche per il futuro.
Se si vuole, perciò, che non si continui a permettere lo stravolgimento dell’originaria Carta repubblicana, “è necessaria ed urgente una riflessione sulla natura della Costituzione, sui suoi contenuti e le prospettive che apre, sui vantaggi che offre ai cittadini, sui pericoli che un suo stravolgimento comporta per la democrazia e gli ideali di giustizia e di equità”. Difendere l’attuale Costituzione, entrata in vigore nel 1948, non significa tuttavia che l’essere contro la riforma Renzi-Boschi implichi essere pregiudizialmente contro ogni tipo di riforma; la Costituzione che s’intende riformare è riformabile, ed è essa stessa a stabilire la procedura con la quale può essere riformata. Si tratta però di una procedura complessa “per mettere la Carta al riparo” dai colpi di mano di qualsiasi maggioranza.
Per modificare una Costituzione vigente, le possibilità sono due: o si apportano riforme puntuali e si approvano seguendo la procedura prescritta; oppure, si procede alla convocazione di un’Assemblea Costituente, espressa attraverso un’elezione popolare su basi rigidamente proporzionali. Né all’una, né all’altra alternativa è riconducibile la riforma Renzi-Boschi; anzi, considerando il fatto che tutti gli articoli e tutte le parti di una Costituzione si caratterizzano per un’interconnessione che ne fa un tutt’uno quasi indivisibile, dovrebbe essere sempre privilegiata la convocazione di un’Assemblea Costituente per procedere alla loro modificazione.
Il cambiamento di un solo articolo o di una sola parte, è infatti probabile che si riveli incongruente rispetto alla coerenza interna e alla funzionalità delle istituzioni nelle quali la Carta si incorpora; ne sono prova le conseguenze negative della modificazione, avvenuta nel 2001, del Titolo V della Costituzione repubblicana che, alterando la distribuzione delle funzioni pubbliche tra Stato e gli enti sott’ordinati, oltre a cambiare la natura dello Stato, ha originato gravi conflitti di competenza che hanno rallentato non poco l’attività di governo a tutti i livelli istituzionali. In considerazione di ciò, per l’attuale maggioranza, l’unica via democraticamente e funzionalmente corretta per modificare la Costituzione vigente sarebbe dovuta consistere nella convocazione di un’Assemblea Costituente.
Si sarebbe dovuto inoltre privilegiare la convocazione dell’Assemblea, perché una riforma della Costituzione vigente deve poter esprimere un progetto sociale in grado di garantire un futuro condiviso ai cittadini. Dopo la scelta della forma repubblicana dello Stato con il referendum del 1946, la contestuale elezione dell’Assemblea Costituente non ha avuto solo lo scopo di “rivedere a fondo- come afferma Settis – lo Statuto albertino concesso cent’anni prima da un Re e devastato dal fascismo”, ma anche quello di trasformare lo Stato italiano in Stato sociale di diritto, con l’individuazione di un complesso insieme di obiettivi e finalità sociali, espressi nel Preambolo della Carta, cui sono riferiti i primi 12 articoli.
A che cosa risponde invece la riforma Boschi-Renzi? Con l’obiettivo di voler assicurare maggiore efficienza e stabilità all’attività di governo, essa risponde prevalentemente alla necessità di conformare la “vecchia Costituzione” alla logica neoliberista del mercato globale, dominato dagli oligarchi finanziari e da organismi internazionali, quali la Commissione europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale (la famosa Troika) ed altri ancora, il cui compito è quello di indicare ai singoli Stati, non solo le regole da adottare per il governo della loro economia integrata nel mercato internazionale, ma persino di cambiare le loro Costituzioni, per cancellare o ridurre molti dei diritti e delle garanzie dei quali godono i cittadini, perché ritenuti disfunzionali rispetto ad uno stabile funzionamento dei mercati.
In tal modo, con la soggezione della politica all’economia, si realizza inevitabilmente lo “svilimento della Costituzione” per volontà di “centri di potere extrapolitici”, i cui effetti sono quelli di corrodere la democrazia e di ridurre l’autonomia delle istituzioni preposte alla soddisfazione dei diritti dei cittadini. Per rendersi conto dell’estraneità della riforma Renzi-Boschi ai reali problemi del Paese, basta considerare, come mette in risalto Settis, che nella relazione che accompagna la proposta di riforma è detto a chiare lettere che “la revisione della parte seconda della Costituzione non può più attendere”, in considerazione dell’urgenza di realizzare “il necessario processo di adattamento dell’ordinamento interno alle nuove sfide” derivanti dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto internazionale.
Ma il progetto di riforma costituzionale Renzi-Boschi, oltre ad essere estraneo ai reali ed effettivi problemi del Paese, presenta per di più un difetto di legittimità che non ha eguali nell’esperienza delle passate riforme costituzionali. Tale progetto è il risultato, non già di un’Assemblea Costituente, ma di un improponibile “governo costituente”, espresso da un Parlamento eletto con una legge maggioritaria (il cosiddetto Porcellum) dichiarata nel 2014 illegittima dalla Corte costituzionale, per due motivi: essere la legge un “meccanismo di attribuzione del premio di maggioranza manifestamente irragionevole” per l’assenza di una soglia di sbarramento e l’essere inoltre “una disciplina che priva l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti”; scelta questa garantita dalla Costituzione che un Parlamento e una maggioranza illegittimi vogliono modificare.
Ora, un governo, a sua volta illegittimo, non può prendere l’iniziativa per riformare la Costituzione vigente; esso, non solo perché illegittimo, ma anche in quanto espressione di una maggioranza parlamentare, può compiere solo atti di ordinaria amministrazione, per cui –come afferma Settis - “metter mano alla Costituzione, bussola della democrazia e manifesto dei nostri diritti” avrebbe dovuto richiede un’attenzione e una sensibilità politica enormemente più grande di quella profusa dal capo del governo e dei molti suoi raccogliticci “compagni di strada”. Inoltre, proprio perché la proposta di riforma è l’esito dell’attività di un governo sorretto da una maggioranza parlamentare sarebbe stato opportuno non legare, al contrario di quello che ha fatto il capo dell’esecutivo in carica, l’approvazione o la bocciatura delle riforma alle sorti del governo.
Si tratta di un ricatto col quale Renzi tenta di “estorcere” subdolamente dall’elettorato l’approvazione della “sua” proposta al referendum al quale sarà sottoposta. Egli infatti va sostenendo, personalizzando conseguentemente il referendum, che se per caso la proposta di riforma non dovesse essere approvata, le conseguenze saranno disastrose, in quanto il Paese tornerà a soffrire dell’instabilità governativa e di un’ulteriore perdita di credibilità a livello internazionale; Renzi e il suo seguito stanno insistendo sulla personalizzazione dell’esito del referendum confermativo, senza minimamente considerare che, con la riforma della Costituzione, la “posta in gioco” è ben più importante di quella di uno scontro elettorale, al quale è stato ridotto l’esito referendario.
In conclusione, la decisione di Renzi di personalizzare l’esito del referendum è di una gravità inimmaginabile, perché espone il Paese al rischio di una destabilizzazione istituzionale, politica, economica e sociale incontrollabile; non è difficile prevedere, come osserva Massimo Salvatori (“Perché il referendum sarà comunque un bivio”, in “la Repubblica” del 20 maggio scorso), la possibilità che l’Italia, nel caso in cui Renzi sia battuto al referendum, vada di nuovo incontro “ad una crisi organica del suo sistema politico”. Se ciò dovesse accadere, su quali forze politiche gli italiani potranno fare assegnamento per il risanamento, da tutti i punti di vista, del proprio sistema sociale? E’ una domanda, questa, alla quale non si può ora dare una risposta plausibile; dello stato d’incertezza che grava sul futuro del Paese la responsabilità è di chi ha voluto forzare l’attuazione di scelte costituzionali e politiche senza che preventivamente fosse rimossa la litigiosità esistente tra i partiti e all’interno dei singoli partiti, cha da anni dopo la fine della Prima Repubblica rende impossibile, essa sì, la sua governabilità.

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