Gianfranco Sabattini
Leggere oggi “Capitalismo come religione” di Walter Benjamin, edito da il Melangolo, può sembrare soltanto uno sforzo intellettuale; ciò perché il capitalismo del 1921, l’anno al quale risale lo scritto del filosofo tedesco, era molto diverso da quello contemporaneo. Esso ancora non aveva vissuto la grande crisi del 1929/1932 e, soprattutto, quelle successive, sino a quella del 2007/2008. Cosa può insegnare lo scritto di tanti anni fa, riguardo alle crisi che ricorrentemente sconquassano il capitalismo?
La supposta religiosità del capitalismo è fondata dal filosofo essenzialmente su tre linee argomentative: la prima sostiene che il capitalismo è una religione senza una sia pur minima elaborazione teologica, nel senso che ogni sua forma di rappresentazione si riduce a un insieme di simboli esteriori; la seconda sostiene che il culto del capitalismo non offre redenzione, e nemmeno consolazione, in quanto si ritorce contro chi lo professa a causa della colpa, rappresentata dal debito, sul quale il capitalismo stesso si regge; la terza, infine, sostiene che quello della religione del capitalismo è un Dio nascosto, nel senso che la sua percezione, in assenza di redenzione, vanifica ogni sua forma di contemplazione.
L’insieme delle linee argomentative prefigurano una religione inquietante, perché sorretta da una trascendenza che non consente alcuna redenzione. La conseguenza di tutto ciò è che la religione del capitalismo, o religione del debito, come la definisce in un suo articolo Donatella Di Cesare (“Walter Benjamin. Il teologo dell’economia”, in “La Lettura” del “Corriere della Sera” del 24 gennaio), mancando di essere una forma di salvezza o di consolazione, è la rovina dell’essere.
Benjamin ritiene che non ci si possa liberare del capitalismo come religione tramite una semplice abiura; ciò perché, essendo una malattia dello spirito, impedisce di pensare a un luogo nel quale trovare riparo. Dopo il capitalismo, sempre secondo Bemjamin, è fatale trovare ancora il capitalismo, per cui le inquietudini esistenziali delle comunità mancano di una reale possibile via d’uscita da esse. Che fare, allora?
Prescindendo dalle difficoltà interpretative dello scritto del filosofo tedesco, l’idea che egli propone per il superamento del capitalismo consiste in un gesto politico di rifiuto da parte delle comunità. Il gesto dovrebbe riuscire a tradursi in una politica profana che distrugga il culto del profitto e di tutti i simboli esteriori del capitalismo, al fine di riportare il discorso economico su un piano interamente umano. Ma è un’idea possibile e desiderabile, oggi, quella suggerita da Benjamin? O si tratta piuttosto di un’idea intrisa di speranze messianiche?
Pur con tutti i dubbi e le incertezze che si possono rinvenire nell’interpretazione del capitalismo inteso come religione, appare utile la proposta di Benjamin di non limitarsi a riflettere sul capitalismo solo in funzione del suo possibile superamento, ma di considerarlo anche, in termini fideistici, come un monolitico sistema politico, economico e sociale. Ciò non toglie, tuttavia, che, per il suo superamento, sia più conveniente e desiderabile organizzare la resistenza nei suoi confronti attraverso la formulazione di proposte meno radicali, non aventi la natura di atti di fede. A tale fine, occorre però fare chiarezza sul significato di capitalismo. Nel suo scritto, Benjamin non sfugge all’errore di metodo che commettono tutti coloro che, in funzione critica, mancano di tenere distinto il “capitalismo come categoria logica” dal “capitalismo come categoria storica”.
Il discorso di Benjamin sul capitalismo inteso come religione riflette in pieno la confusione tra i due modi di interpretarlo; quello del filosofo tedesco corrisponde al capitalismo come categoria storica. Egli, infatti, lo riduce ad ideologia, inidonea a dare conto del modo in cui il sistema di produzione e distribuzione del prodotto sociale si realizza razionalmente ed ordinatamente; quando è inteso in termini ideologici, il capitalismo è unicamente utile ad offrire una spiegazione dello stesso processo quando sia esaminato dal punto di vista della sua conformità ai dogmi dell’ideologia presa in considerazione.
Allorché il capitalismo è interpretato in termini di categoria storica, e dunque come ideologia, è inevitabile considerare le conseguenze negative di un suo particolare modo di funzionare, quale risultato del capitalismo inteso come categoria logica; per cui, al fine di superare gli effetti indesiderati del suo modo storico di funzionare, partendo da posizioni ideologiche, tutti gli elementi della sua struttura logico-formale devono essere complessivamente rimossi.
Se inteso come categoria storica, però,(come accade, ad esempio, con la concezione di Walter Benjamin, al pari del capitalismo collettivista di Karl Marx, o del capitalismo dal volto cristiano di Michael Novak, o di quello della società libera di Karl Popper, oppure dell’ordine spontaneo del mercato di Friedrich Hayek) il capitalismo prefigura il modo di funzionare del sistema di produzione e di distribuzione del prodotto sociale corrispondente ai dogmi posti alla base dell’ideologia prescelta.
La considerazione del capitalismo come religione può risultare utile, sul piano dell’azione politica, quando a seguito del prevalere di una particolare ideologia, si voglia distrarre il capitalismo inteso come categoria logica dalle sue naturali finalità, sulla base di dogmi concepiti “ad hoc” per giustificare la distrazione stessa; dogmi, questi ultimi, che, in quanto tali, esprimono delle contraddizioni interne al capitalismo inteso in termini logico-formali. Tali contraddizioni si sono imposte, soprattutto dopo la grande depressione del 1929/1932, con il passaggio dal “capitalismo di risparmio” al “capitalismo di debito”, secondo la descrizione fatta da Daniel Bell, nel 1976, nel saggio “L’economia della ‘famiglia pubblica’”, pubblicato in “Le contraddizioni culturali del capitalismo”; queste contraddizioni sono servite a legittimare il consumo prima ancora che si formassero le risorse necessarie per effettuarlo, diventando la religione secolare su cui è stata fondata una crescita economica a supporto del continuo aumento del livello di benessere delle società.
Con l’avvento del capitalismo di debito, qual è quello attualmente sorretto e giustificato dai dogmi del neoliberismo hayekiano, l’origine delle motivazioni individuali, le basi della solidarietà sociale e la mobilitazione dei componenti il sistema sociale per il raggiungimento di fini comuni sono diventate motivazioni plasmate da un funzionamento del sistema economico e di quello politico fondati sull’indebitamento; fatto, questo, che è oggi la causa prima delle inquietudini delle genti delle quali parla Benjamin.
Il processo di produzione e di distribuzione del prodotto sociale fondato sul debito è una contraddizione di fondo del capitalismo inteso come categoria logica; lo dimostra il fatto che la sua persistenza ne ha trasformato il funzionamento in causa d’instabilità non solo economica, ma anche sociale e politica. La contraddizione sta nel fatto che il miglioramento del livello di benessere attraverso il debito (enjoy now, pay later) ha creato delle aspettative economiche che il sistema politico non riesce a limitare; quando esse si combinano con le ricorrenti ondate inflazionistiche e con l’incapacità del settore pubblico di sostenere una crescente della propria spesa, si creano le condizioni dell’instabilità economica e politica che sono nell’esperienza di tutti; a queste i governi non sanno opporre politiche di contenimento, per le difficoltà quasi insormontabili all’attuazione delle politiche di stabilizzazione.
E’ quindi il debito, inteso come dogma posto alla base del funzionamento dell’intero processo economico e sociale, quindi espressione di una contraddizione culturale del capitalismo interpretato come categoria logico-formale, la causa delle inquietudini delle generazioni attuali. Se abiura ha da esservi, questa deve essere fatta valere nei confronti dell’ideologia, divenuta, secondo Bell, la nuova religione secolare che afferma la primazia del debito per il sostegno continuo dei mercati finanziari, contraddicendo quanto i padri fondatori della teoria economica moderna hanno voluto lasciare in eredità al mondo contemporaneo; di un mondo che liberasse l’uomo dal bisogno e non che lo rendesse schiavo.
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