Tonino Dessì
Due comunicati, uno del Presidente della Regione sarda, uno della Presidenza del Consiglio dei Ministri, hanno reso nota l’approvazione, da parte del Governo, dell’atteso decreto legislativo di attuazione dell’articolo 8 dello Statuto speciale per la Sardegna, come modificato dalla legge n. 296 del 2006.
Il decreto legislativo contiene la specificazione della base su cui vengono determinati alcuni cespiti erariali da ripartire fra Stato e Regione, unitamente all’accordo sulla corresponsione, a rate, di 900 milioni di euro che avrebbero dovuto essere corrisposti alla Regione in base alla legge, ma che invece sono state trattenute finora dallo Stato.
Il Presidente Pigliaru e altri esponenti della Giunta e della maggioranza regionale hanno definito l’accordo, raggiunto nell’apposita Commissione paritetica, per l’adozione del decreto legislativo, un evento “di portata storica”, tale da concludere definitivamente, addirittura, l’annosa “vertenza entrate” tra Stato e Regione.
Più concretamente, tuttavia, va detto che il decreto legislativo non cambia affatto i contenuti della legge di modifica dell’articolo 8 dello Statuto approvata dal Parlamento nel 2006: quella riforma ha trasferito per intero alla Regione, tra le altre, le spese della sanità e dei trasporti interni, in cambio di un incremento di entrate insufficiente a coprire, per la prima, la spesa storica (da qui il deficit strutturale che si era perfino pensato, recentemente di coprire con aumenti delle addizionali regionali IRPEF e IRAP), per i secondi, gli oneri necessari per gestire e per ampliare i collegamenti.
La vera e propria novità del decreto legislativo parrebbe stare nella modifica del meccanismo di tesoreria. Lo Stato infatti finora non ha versato sempre, alla scadenza, le tranches periodiche delle entrate erariali riscosse in Sardegna spettanti alla Regione. Non le ha versate sia quando ha verificato che la Regione, per sue lentezze nella spesa, disponeva ancora di liquidità giacenti, sia quando in generale, per rallentare il flusso corrente della spesa pubblica, esso è ricorso unilateralmente a restrizioni dei trasferimenti liquidi di cassa. Finora lo Stato poteva anche trattenere una parte delle entrate regionali a titolo di riserve erariali per fronteggiare eventuali emergenze.
Col nuovo decreto legislativo è stato stabilito invece che l’erogazione delle spettanze di competenza regionale avverrà, anche in termini di cassa, puntualmente, a scadenza e che prescinderà dallo stato delle liquidità disponibili nel conto centrale di tesoreria (nel quale le spettanze tributarie della Sardegna sono finora contabilizzate e gestite dal Governo). In futuro, un decreto ministeriale stabilirà le modalità di accredito diretto alla Regione (senza verosimilmente passare dal conto centrale di tesoreria), delle quote tributarie di competenza regionale accertate e riscosse in Sardegna dall’Agenzia statale delle Entrate e dagli altri soggetti incaricati dallo Stato.
Non si tratterranno più, infine, quote di riserve erariali e le eventuali emergenze verranno determinate volta per volta sulla base di intese.
Senza sminuirne l’utilità “operativa”, non pare tuttavia un risultato di così enorme portata da definirsi “storico” ed è assai preoccupante leggere che in tal modo si concluderebbe “definitivamente” la “vertenza entrate”.
A questo proposito sembra opportuno ripercorrere sommariamente alcune vicende, per comprendere il filo di continuità che lega questi fatti recentissimi a processi che risalgono assai più indietro nel tempo.
Più d’uno, infatti, continua a scrivere che la questione delle entrate finanziarie della Sardegna e il relativo contenzioso con lo Stato sono nati per la prima volta con la Giunta Soru nel 2004. In realtà si è trattato e si tratta di una vertenza prolungata e caratterizzata da diverse fasi, nella storia dell’Autonomia speciale.
La questione ha infatti il suo nocciolo nella scelta originaria del 1948 (criticata solitariamente da Emilio Lussu) di non adottare la soluzione siciliana (devoluzione diretta dei dieci decimi delle entrate erariali alla Regione, consacrata con norma statutaria di rango costituzionale), ma di decostituzionalizzare il Titolo III dello Statuto sardo, prevedendo, rispetto alla Sicilia, quote minori di compartecipazione ai tributi erariali accertati e ricossi in Sardegna dallo Stato, da aggiornare, ove occorresse, con legge statale ordinaria.
Per questa ragione strutturale, la vertenza sulle entrate è destinata a restare permanente, per la Regione Autonoma della Sardegna, almeno fino a quando le condizioni della specialità non saranno radicalmente ridefinite.
Dopo la lunga stagione di rivendicazione dell’attuazione di un’altra disposizione del Titolo III dello Statuto (questa sì, di rango costituzionale), cioè l’articolo 13, relativo al Piano di Rinascita e alle sue risorse “straordinarie” (ossia aggiuntive rispetto alle quote erariali), di importante vertenza sulle entrate ce ne fu una nei primi anni ‘80, che si concluse con la legge n. 123 del 1983, cui si deve la stesura del Titolo III precedente a quello vigente.
Nel 1970-71 infatti erano state, contemporaneamente, approvata la riforma tributaria ed istituite e messe in funzione le Regioni ordinarie, le cui spese vennero coperte con meccanismi basati sul nuovo sistema finanziario dello Stato.
Le imposte su cui si fondavano le entrate del Titolo III originario dello Statuto non esistevano più e lo Stato cominciò a finanziare la Regione sarda forfetariamente sulla base della spesa storica, in cifra annuale pressoché fissa.
Alla Sardegna i soldi non mancavano, soprattutto grazie ai Piani di Rinascita, tuttavia la situazione delle entrate ordinarie andò diventando progressivamente insostenibile e il bilancio della Regione divenne via via asfittico, rigido, poco manovrabile. Così alla fine la vertenza iniziò e si protrasse per qualche anno fino all’adeguamento del Titolo III, intervenuto nel 1983 in base al regime tributario statale vigente.
Per più di altri dieci anni non sembrò porsi problema. La spesa regionale cresceva tuttavia più delle entrate, le risorse dei Piani di Rinascita, anziché essere straordinarie e aggiuntive, tendevano a supplire alla carenza di risorse ordinarie per investimenti, la Regione contraeva mutui (in periodi di tassi d’interesse a due cifre).
Con la fine della Prima Repubblica il controllo dei conti pubblici cominciò a diventare questione politica e istituzionale nazionale incalzante. In Sardegna intanto le risorse dei Piani di Rinascita andavano a esaurirsi senza che intervenisse alcun rifinanziamento. Risorse aggiuntive sarebbero arrivate dai Fondi strutturali comunitari derivanti dall’inserimento della Sardegna nell’obiettivo 1, a partire dal 1996, ma la situazione del bilancio regionale andava in continuo peggioramento. La Regione arrivò persino ad emettere dei bond sul mercato finanziario (i B.O.R., buoni ordinari regionali), incrementando l’indebitamento mentre paradossalmente si accumulava un’enorme volume di residui passivi, ossia di risorse regionali la cui spesa era prevista da leggi di settore, senza che si verificasse un effettivo impiego delle stesse.
Nel 1998, infine, durante l’ultima fase delle Giunte di centro sinistra presiedute da Federico Palomba, il problema emerse esplicitamente in sede politica. Esplose anzitutto la questione del debito. Nel centrosinistra, a fronte di chi la sollevava per sollecitare una politica economica e finanziaria regionale più responsabile e più rigorosa e a fronte della valutazione durissima degli autonomisti storici e dei neocentralisti (”incapaci e dilapidatori di risorse”, dissero dell’intera classe di governo sarda), si contrappose un atteggiamento teso a minimizzare in modo quasi quasi irridente da parte dei “pragmatici” (i quali apostrofarono –più o meno come fece l’opposizione- i rigoristi come “gli emuli subalterni di Ciampi”).
Intanto gli uffici dell’Assessorato regionale del bilancio segnalavano per la prima volta il comportamento corrosivo, di trattenimento occulto delle entrate regionali sarde, in sede di accertamento e di corresponsione delle quote di cespiti erariali, da parte dello Stato, in corso da diversi anni.
La Giunta Palomba intraprese quindi una nuova “vertenza entrate”, dopo aver respinto alcune proposte iniziali del Governo (e della sua componente sarda in particolare), giungendo a ottenere un apposito accordo-quadro sulla ricostituzione delle entrate della Regione all’interno dell’Intesa Istituzionale di Programma del 1999 col Governo D’Alema. (http://www.regione.sardegna.it/…/rapporti_stato…/intesa.html).
Le maggioranze di centrodestra della XII legislatura regionale ignorarono l’attuazione dell’Intesa (l’era berlusconiana sarda non tollerava di rifarsi a un accordo col Governo D’Alema) e anzi trascurarono ampiamente il problema, tant’è che si giunse alla fine della legislatura con un costo dell’indebitamento stellare, per di più in condizioni ormai di phasing out anche dalle risorse dell’Obiettivo 1.
La consapevolezza del tema il centrosinistra riuscì a inserirla in buona evidenza nel programma della coalizione elettorale che nel 2004 sostenne la candidatura di Renato Soru per la XIII legislatura regionale: tuttavia ci volle ben un anno perché il Presidente eletto e l’Assessore del bilancio capissero da dove partire, ossia dalla base politica e legale costituita dall’Intesa del 1999.
Nel 2006, con l’approvazione della legge n. 296 di riforma del Titolo III dello Statuto, fu stabilito l’incremento di alcune quote dei principali cespiti erariali di spettanza regionale, tra cui quello più rilevante riguardò l’IVA, che divenne compartecipata in quota fissa nella misura dei nove decimi; fu inoltre concesso un contributo statale triennale a copertura del maggior costo della sanità rispetto alle nuove entrate ordinarie; fu tuttavia condonata senza corresponsione di arretrati l’illegittima pregressa erosione da parte dello Stato delle spettanze regionali (da taluno contabilizzate in 10 miliardi di euro complessivi).
Subito dopo la legge di riforma del Titolo III, pressioni ministeriali dilatorie e inadeguatezza delle strutture tecniche regionali fecero emergere la tesi della necessità di norme specificative e interpretative del nuovo articolo 8 dello Statuto, supportando le posizioni degli oppositori, interni ed esterni, della maggioranza di centrosinistra, volte a sostenere che la riforma era incompleta e di impossibile attuazione.
Si giunse in tal modo, nella successiva XIV legislatura, con una maggioranza di segno opposto a quella precedente, ad adottare l’inedito espediente della procedura delle norme di attuazione, che consiste in una trattativa tecnico-politica nell’apposita Commissione paritetica Stato-Regione ai fini di un’intesa per l’adozione di un decreto legislativo da parte del Governo.
La soluzione era inedita perché mai prima si era ritenuto che occorressero norme di rango legislativo per l’attuazione della parte decostituzionalizzata dello Statuto, che, come è noto, è approvata con una legge ordinaria.
Motivazioni d’ordine prevalentemente politico indussero a percorrere questa strada nonostante l’esperienza storica consolidata in più di sessant’anni avrebbe dovuto ricordare che con quel procedimento le alte burocrazie statali avevano sempre ostacolato le riforme in cui la Regione sarda veniva coinvolta, riuscendo inoltre costantemente a strappare alla Regione stessa rilevanti concessioni.
Il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi in questi giorni: dieci anni per puntualizzare, come risulta enfatizzato, quale risultato più importante, dal comunicato ufficiale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, il cespite della Regione Autonoma della Sardegna derivante dall’esercizio delle attività di giochi in danaro, comprese lotterie e giochi d’azzardo legalizzati.
A proposito di azzardi, nei giorni scorsi l’Assessore Paci, in una dichiarazione pubblica, ha chiarito che il Consiglio regionale approverà presto il testo unificato dei diversi progetti di legge regionale presentati nella legislatura corrente per la ricostituzione dell’Agenzia sarda delle entrate.
Si tratterà di nuovo ente regionale, la cui funzione principale sarà quella di collaborare con l’Agenzia statale delle entrate negli accertamenti (non però nella riscossione) del gettito dei tributi erariali e nella ripartizione delle rispettive quote tra Stato e Regione.
Non che si debba essere per principio contrari a queste forme di collaborazione: le leggi tributarie già le prevedono, tra Stato, Regioni e Comuni, specialmente in materia di anagrafe tributaria e di lotta all’evasione fiscale.
Tuttavia la nuova struttura dell’apparato centrale della Regione non potrà fare nè più nè meno (anzi, in pratica molto meno, quanto ad ambito materiale di competenze autonome, considerata l’abrogazione dei nuovi tributi propri a suo tempo un pò avventurosamente istituiti a suo tempo dalla Regione in materia di turismo e di imbarcazioni e considerato che quel poco esistente di tributi regionali propri già oggi si paga con normali conti correnti postali oppure online), di quello che avrebbe dovuto fare l’agenzia regionale sarda istituita dalla maggioranza di centrosinistra nel 2006 e soppressa, con l’argomentazione non del tutto peregrina che era inutile e costosa, dalla maggioranza di centrodestra nella successiva legislatura, senza peraltro particolari sofferenze dell’opposizione.
Insomma, sempre di un vicegabelliere aggiunto si tratterà. C’è da immaginare quanto i contribuenti sardi, considerate le esperienze effettuate quotidianamente con le burocrazie regionali, possano nutrire buone speranze sulle prospettive di una semplificazione dei loro già pesanti gravami in ottemperanza agli obblighi fiscali.
Per completare il quadro di contesto, infine, una notazione sulla possibile incidenza delle riforme costituzionali. Nella legge di riforma sulla quale voteremo al referendum del prossimo autunno, la competenza in materia di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, che rientra nell’attuale articolo 117 della Costituzione fra le competenze legislative concorrenti (ossia esercitate dalle Regioni in armonia con i principi generali stabiliti con legge dello Stato), viene interamente ritrasferita allo Stato, in via esclusiva, dal nuovo articolo 119, il quale stabilisce che “I Comuni, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri e dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio, in armonia con la Costituzione e secondo quanto disposto dalla legge dello Stato ai fini del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.”.
Difficile comprendere perciò le ragioni di tanta enfasi, in una legislatura regionale che non si pone più il tema della specialità istituzionale e statutaria e quello delle condizioni del suo rilancio come questioni centrali e che pare totalmente impegnata da un lato nella gestione dell’ordinario, dall’altro nella riconduzione centralistica in capo alla Regione, ai suoi apparati, enti e agenzie di ogni funzione amministrativa.
Senza in nulla voler sminuire lavoro svolto e utilità relativamente modesta dei risultati, quindi, qualora non cambino atteggiamenti, cognizione di causa e scelte della politica regionale, quella che si profila, più che una storica chiusura vittoriosa della “vertenza entrate”, rischia di diventare piuttosto la pietra tombale dell’autonomia finanziaria della nostra Regione speciale.
1 commento
1 La “vertenza entrate” oltre la propaganda | Aladin Pensiero
23 Maggio 2016 - 07:37
[…] di Tonino Dessì, su Democraziaoggi […]
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