Tonino Dessì
Caro Andrea, qui di innocente non c’è nessuno (giuramenti, mal di pancia, ipocrisie di palazzo e più vaste coscienze deboli, quando non anche sporche).
La discussa vicenda del giuramento di un consigliere regionale si è conclusa come diversamente non avrebbe potuto. Era evidente (o almeno avrebbe dovuto esserlo) che la presunzione costituzionale d’innocenza e la legislazione ordinaria vigente, compresa la pur restrittiva Legge Severino, non lasciano spazio ad altro che a una soluzione temporaneamente favorevole all’indagato.
La legge penale non prevede un’anticipazione della pena e delle connesse misure accessorie nei confronti degli indagati. Prevede semmai, per loro, in casi determinati, misure restrittive e sospensive, da applicarsi previa valutazione del giudice. Di fatto, tra l’altro, nelle more di tale giudizio, la pubblica accusa può mettere in essere, direttamente, provvedimenti limitativi anche della libertà personale, che tuttavia debbono essere convalidate dal giudice in tempi brevi, proprio al fine di evitare anticipazioni ingiustificate di pena.
La legge infine prevede pene e misure accessorie per i condannati, a seguito di regolare giudizio di merito.
Vorrei ricordare a titolo meramente esemplificativo che in un altro palazzo nella Via Roma, per quasi due anni, abbiamo avuto una situazione analoga e che ne abbiamo un’altra pendente su un europarlamentare. In nessuno dei tre casi in questione versiamo attualmente nelle fattispecie di sospensione e non siamo alla sentenza definitiva di condanna.
Troverei pericoloso ipotizzare di travolgere, sull’onda di quello che con qualche eufemismo si può definire un imbarazzo istituzionale (ma in realtà è la situazione complessiva delle correnti legislature nazionale e regionale ad essere grottesca, anche in virtù di leggi elettorali affette da gravi patologie), o di una ricorrente, ma impropriamente diretta pulsione giustizialista esterna, le regole e le garanzie dello Stato di diritto.
Un’assemblea parlamentare non può non osservare, come istituzione, le garanzie costituzionali e le leggi. Sono ormai, queste assemblee, praticamente espropriate di ogni funzione decisionale: se pretendiamo di levar loro anche il ruolo di garanti politici del corretto esercizio dei poteri e dei diritti in un assetto democratico, tanto vale convenire che è il caso di abolirle del tutto. Non saprei proprio, però, a questo punto, cosa andremmo a difendere nel referendum costituzionale.
Dovremmo anzi considerare un pericolo grave il fatto che il moralismo e il giustizialismo vengano impugnati o ripudiati occasionalmente da una parte o dall’altra dalla rappresentanza (non tutta composta, peraltro, da persone estranee a procedimenti penali a proprio carico) a seconda che l’uno o l’altro indagato facciano o meno parte della propria area politica o del proprio partito.
Il punto è che i partiti non dovrebbero scaricare sul funzionamento delle istituzioni problemi da affrontare radicalmente in sedi e con modi più appropriati e responsabili.
Spetta infatti ai partiti come collettività politiche organizzate con modalità di vita interna trasparenti, vigilare, all’atto della selezione per le proprie liste, al fine di impedire che vengano proposte agli elettori persone anche potenzialmente al di sotto di qualsivoglia sospetto.
Spetta ai partiti come soggetti associativi dotati di forma e di responsabilità giuridica, stabilire regole interne di comportamento che impongano l’obbligo, per i propri eletti, di rinunciare ai propri incarichi qualora vengano indagati per fatti gravi.
Spetta ai partiti e ai gruppi parlamentari che ne sono espressione istituzionale, valutare se fare pressione, fino alla minaccia e alla messa in atto di provvedimenti di non ammissione o di espulsione, nei confronti di loro appartenenti che non avvertano l’esigenza di non compromettere le istituzioni con la loro scelta di assumere o di continuare a ricoprire incarichi pubblici mentre sono indagati.
Altrimenti diciamo che è il caso di abolire anche i partiti, se consideriamo ormai impossibile che essi svolgano un ruolo democratico e ancor più se considerassimo ineluttabile e definitiva la loro trasformazione in strumenti attraverso i quali il malaffare e la criminalità vanno facendosi rappresentanza. Per li rami, però, lascio poi immaginare tutta la catena di altre possibili conseguenze.
Ma se ancora crediamo che sia salvabile una democrazia fondata anche sulla partecipazione attraverso i partiti, un discorso nudo e crudo dobbiamo farlo nei confronti dei militanti e dei simpatizzanti dei partiti. Posto che l’elettorato sta da tempo esercitando in massa l’obiezione di coscienza astenendosi dal voto, è nei confronti di chi milita in questi partiti e di coloro che ancora li votano, che dobbiamo rivolgere l’appello all’obiezione di coscienza. Un’obiezione di coscienza non nei confronti dei dirigenti o dei rappresentanti di partiti diversi dal proprio, ma esplicitamente nei confronti di quelli del proprio partito, significando loro di esigerne la destituzione o il ripudio, in quanto incapaci di svolgere con correttezza e con efficacia le funzioni che sono state loro attribuite o che spesso si sono assunti oligarchicamente in proprio.
Perché se non accade questo è evidente che entriamo in un altro campo: quello della connivenza o anche della semplice tolleranza di parte “della gente” (compresi molti odierni indignati dei social) verso il processo di trasformazione dei propri partiti in quello a cui ho accennato (strumenti attraverso i quali il malaffare e la criminalità vanno facendosi rappresentanza). E sono ormai tolleranze e connivenze che rischiano di qualificarsi come complicità attive.
Non c’è scampo, ormai: bisogna chiamare le cose col proprio nome (e se occorre cognome) e prendere per le corna una bestia che non risiede esclusivamente nei Palazzi, ma è ben più diffusamente allocata.
1 commento
1 Massimo
5 Maggio 2016 - 05:58
Vivaddio c‘è qualcuno che pensa, e scrive, cose sensate. Non le mischiate di sessantottini in s.p.e. o degli ormai, ahinoi, famelici leoni della tastiera.
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