Oggi, sul comunismo, prima un intervento di Francesco Cocco, ora uno di Lucio Garofalo.
Un dato ricorrente nelle crisi che investono periodicamente il capitalismo sono le oscillazioni della pubblica opinione alla ricerca di una soluzione.
In simili temperie gli agitatori reazionari hanno sempre avuto buon gioco nell’indicare un capro espiatorio, un colpevole contro il quale dirigere la rabbia di massa, siano ebrei, comunisti o altro, ma alla fine la violenza per soddisfare il disagio delle masse si ritorce sempre contro loro stesse.
Accadde alla piccola borghesia italiana del secolo scorso, mobilitata dal fascismo contro il movimento operaio e poi strangolata nelle tenaglie dello stato militarizzato. Non accadde nella Germania nazista solo perché, grazie agli espropri degli ebrei e nei paesi occupati, Hitler promosse una politica di “socialismo nazionale” di impronta autoritaria e paternalista che assegnò una quota di benessere, benché insanguinato, alle classi sociali subalterne.
Sono scenari che non trovano riscontro nell’attualità per il semplice fatto che non è più disponibile uno strato sociale a sostegno di regimi autoritari e ciò rende effimera ed insostenibile l’eventualità di un fascismo organico.
Tuttavia, ciò non esclude la possibilità di regimi imposti con metodi fascisti, ma si è dimostrato che essi non reggono per più di qualche anno al potere.
Nella crisi presente, che è strutturale e globale, che pone in discussione i meccanismi stessi di accumulazione capitalista, il futuro del mondo, crisi non risolvibile se non con il superamento del capitalismo stesso, a parte alcuni fenomeni marginali come gli stati residui del cosiddetto “capitalismo di stato” (Cina, Corea, ecc.), il segno non è una ricomposizione del mondo sotto il capitale, da imporre manu militari, bensì lo sgretolamento dei paraventi “democratici” con cui le borghesie nazionali si sono legittimate.
La legittimità del potere statuale borghese viene meno non solo per il fatto che la borghesia non è più riconosciuta come “classe nazionale” alla guida di un determinato paese, come motore della produzione dei beni e del funzionamento dello stato, non è più riconosciuta come forza sociale che è depositaria di una cultura nazionale e di un comune sentire di un popolo.
La legittimità scompare principalmente in forza della sua incapacità di produrre un nuovo progresso e perché il suo dominio, attuato tramite meccanismi finanziari ormai globalizzati, è recepito come causa della crisi.
Per tali ragioni, le principali rivolte popolari (rivolte, non rivoluzioni) degli ultimi anni presentano un segno unidirezionale, cioè un indirizzo populista, nel senso che tentano di dislocare quote di potere, sovranità e diritti nella nozione stessa di “popolo”. La democrazia, in sostanza, è uscita dal formalismo istituzionale e rappresentativo e viene ormai interpretata come “diritto a decidere” tutti gli aspetti della vita associata e come tentativo di smontare pezzi del potere statuale considerati nefasti ed oppressivi.
L’attuale crisi economica si traduce in crisi politica e la politica non riesce più a mascherare la natura reale del potere, non presunto o fittizio, il potere dell’alta finanza internazionale che decide, di fatto, il contenuto e la qualità dell’esistenza dei popoli e il destino di intere nazioni ed interi continenti.
Ed è a questo punto che il conflitto che oppone, non più solo capitale e lavoro salariato, bensì capitale ed umanità, assume connotazioni di classe, dove la classe in questione è una massa proletarizzata nella quale sono state assorbite tutte le entità sociali che un tempo erano interposte tra il proletariato e la borghesia. La gravità della crisi odierna sembra riportare la lotta politica a lotta per l’esistenza, ossia a mera lotta per la sopravvivenza.
Spinto verso una miseria insopportabile, il proletariato cerca vie d’uscita affidandosi ad illusioni elettoralistiche, talvolta a suggestioni giustizialiste, talvolta a proteste parziali su specifici problemi, senza dare vita e corpo ad una protesta che apra sbocchi nuovi. Gli mancano ancora tre elementi:
1) la chiara consapevolezza del suo essere classe (la coscienza di classe);
2) la coordinazione unitaria degli sforzi (l’unità di tutto il proletariato);
3) la convinzione di poter fare a meno e meglio dello stato esistente.
Mancano poiché le attuali condizioni di esistenza del proletariato sono frantumate e la sua unificazione può avvenire solo tramite un processo politico ragionato. Inoltre, le passate esperienze di “socialismo reale” gli descrivono un mondo peggiore dell’esistente. La borghesia che ha fallito non morirà per esaurimento proprio: questo è il punto focale della storia presente, per cui occorre spingere la borghesia capitalista fuori dalla scena del mondo per aprire finalmente nuove prospettive di progresso umano.
Ed è a questo punto che diviene indispensabile un’ipotesi di comunismo.
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