Gianfranco Sabattini
Con l’avvento del neoliberismo si è avuto anche un revival delle critiche alle Carte costituzionali nate dopo il secondo conflitto mondiale; esse - questa è l’accusa - con la trasformazione dello Stato di diritto del costituzionalismo classico in Stato di diritto democratico, avrebbero introdotto tali vincoli alla libertà individuale ed a quella d’intrapresa che, alla lunga, si sarebbero trasformati in un ostacolo alla crescita ed allo sviluppo dei Paesi che le hanno adottate.
I critici, perciò, sanno solo auspicare un ritorno al costituzionalismo classico, come propongono, ad esempio, Pietro Di Muccio de Quattro (“Una costituzione liberale per l’Italia”, in “Nuova Storia Contemporanea”, n. 4/2014) e Antonio Martino (“La spesa pubblica in Italia. Una lezione del passato”, in “Nuova Storia Contemporanea”, n. 1/2014). Secondo Di Muccio de Quattro, occorrerebbe liberare l’Italia dalle pastoie del “compromesso deteriore”, del quale è stata responsabile l’Assemblea Costituente, i cui componenti sono stati espressione di partiti che erano “lontani o addirittura antitetici al genuino liberalismo, quello classico, e al costituzionalismo, quello vero”; mentre, secondo Antonio Martino, per salvare l’Italia si dovrebbe “meticolosamente disfare tutto ciò che è stato perpetrato” con la Costituzione della Repubblica: “regioni, servizio sanitario nazionale, moltiplicazione di enti locali, autorità indipendenti e consimili bellurie”. Se si volesse, dunque, che l’Italia abbia un futuro si dovrebbe tornare alla saggezza del passato.
Nessuno dei moderni critici della Carta costituzionale repubblicana, che “danno fiato alle trombe riformatrici” dell’attuale governo, sembrano consapevoli del fatto che, dopo il secondo conflitto mondiale, il costituzionalismo d’antan è servito a giustificare un’organizzazione dello Stato che, pur senza rifiutarne i principi, ne ha incorporato un’interpretazione più esaustiva, per porre rimedio alle larghe insufficienze sul piano della giustizia distributiva che l’organizzazione originaria dello Stato liberale non era riuscita ad assicurane la rimozione.
Lo Stato di diritto del costituzionalismo classico era il tipico Stato europeo ottocentesco, basato sull’ideologia liberale e liberista, col quale era stato superato lo Stato assoluto; si trattava di un’organizzazione statuale, a suffragio censitario, che considerava intangibile la proprietà privata e metteva al centro dell’economia l’impresa privata, il mercato e il non intervento pubblico, anche quando l’intervento dello Stato nella regolazione del mercato fosse risultato necessario per rimediare alle disuguaglianze distributive nascenti dall’evoluzione del sistema sociale. Dunque, si trattava di uno stato elitario.
Diverse costituzioni, quali quella francese del 1946, quella italiana del 1948 e quella tedesca del 1949, facendo tesoro del pensiero critico maturato, sul piano politico, giuridico ed economico, soprattutto nella prima metà del secolo scorso, hanno delineato uno Stato che, in quanto democratico, oltre ad essere di diritto, ha le radici della sua legittimità nell’intera platea dei cittadini, caratterizzandosi per il riconoscimento, la protezione e l’ampliamento continuo dei diritti del cittadino, partecipe, sia pure indirettamente, della conduzione della vita pubblica.
Nel 1947, con l’obiettivo di ricuperare e diffondere le idee originarie del liberalismo e del liberismo e di opporsi all’intervento pubblico con finalità ridistributive, Friedrich Hayek ha fondato la Mont Pelerin Society e, nel 1974, è stato insignito del premio Nobel per l’economia; grazie anche a tale evento, le idee neoliberiste propagandate da Hayek e compagni sono divenute la base d’ispirazione delle politiche conservatrici e, a volte, reazionarie, del reaganismo e del thatcherismo, affermatisi a partire dagli anni Ottanta; con tali politiche ha avuto inizio il ridimensionamento di quanto era stato realizzato sulla scorta delle teorie ridistributive d’origine keynesiana.
In alternativa a Hayek, John Rawls, nel 1975, in un saggio ormai divenuto un’opera classica della letteratura politica, giuridica ed economica (“Giustizia come equità”), ha contribuito a consolidare i fondamenti della natura democratica dello Stato di diritto, formulando una prospettiva di scelta del regime politico ritenuto idoneo ad attuare una giustizia sociale che risultasse la più accettabile da parte dei cittadini, in quanto soggetti liberi, uguali, razionali e membri cooperanti di un’organizzazione sociale. A tal fine, Rawls, com’è noto, assumendo la prospettiva di analisi propria del contrattualismo repubblicano, ha ipotizzato che i cittadini, in questo contesto possano scegliere il regime politico più conveniente in corrispondenza ai due principi di giustizia: a) ogni cittadino ha diritto a un sistema di uguali libertà di base, compatibile con un identico sistema di libertà per tutti gli altri; b) le disuguaglianze sociali ed economiche devono soddisfare due condizioni: devono essere associate a posizioni aperte a tutti in condizioni di equa uguaglianza delle opportunità e devono garantire il massimo beneficio ai membri meno avvantaggiati della società. Vanno dunque scartati: il capitalismo liberale perché garantisce solo l’uguaglianza formale e rifiutato, sia l’equo valore delle uguali libertà politiche, sia l’equa eguaglianza delle opportunità; il capitalismo assistenziale perché non istituzionalizza il principio di reciprocità necessario a rimuovere le disuguaglianze economiche e sociali.
Quanto sin qui detto mostra quanto siano lontane dalla reale costruzione di una società democratica, retta da un regime politico informato allo Stato di diritto, le osservazioni critiche di chi, col ritorno al “liberalismo, quello classico, e al costituzionalismo, quello vero”, intende ricuperare il “regno della libertà” che la costruzione dello Stato di diritto democratico avrebbe concorso, con le sue molte sovrastrutture garantiste, a compromettere. Certo, la Carta Costituzionale della Repubblica Italiana, se considerata dal punto di vista rawlsiano, non è “al di sopra di ogni sospetto”; essa potrebbe perciò essere considerata meritoria di riforme, ma non per le finalità che surrettiziamente si propone di perseguire l’attuale governo in carica (tra l’altro portatore di una proposta di riforma varata da un Parlamento illegittimo), ma per una più rigorosa formulazione, al passo coi tempi, dei 12 “Principi fondamentali”, che la stessa Carta richiama in apertura; questi principi, infatti, anziché formulare le linee guida per la piena istituzionalizzazione di quelli affermati con la Rivoluzione Francese dell’89, sanciscono un’organizzazione del regime politico italiano per il perseguimento di obiettivi oggi non più giustificabili sulla base delle condizioni materiali esistenti.
Se si considera, ad esempio, l’incipit della Certa, dalla sua lettura risulta che l’Italia “è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” e che, al fine di una sua piena realizzazione, impegna la stessa Repubblica a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”
Si tratta di un obiettivo che, risultando di quasi impossibile realizzazione, concorre ad abbassare la qualità e la “credibilità” della Carta. Molto meglio sarebbe porre a fondamento della Repubblica, anziché il lavoro, l’accesso al reddito per tutti, attraverso una parificazione delle opportunità, da realizzare con l’indicazione puntuale e cogente delle linee guida delle quali parla Rawls. Ciò farebbe dell’Italia un autentico Stato di diritto democratico, affrancato dai “mercanteggiamenti” caritatevoli e residuali di un welfare State che, anziché rimuovere le disuguaglianze ed i privilegi, è valso sinora solo a conservarli, se non ad approfondirli.
2 commenti
1 admin
15 Aprile 2016 - 05:44
Andrea Pubusa
Caro Gianfranco,
grazie per questo tuo intervento che chiarisce donde vengono le idee del trombone toscano e dei suoi soci. Svela anche la inspiegabile affermazione di costoro, secondo cui queste modifiche costituzionali sono attese da 70 anni: da quando Hayek e i suoi amici della Mont Pelerin Society le hanno formullate nel 1947
Non concordo invece sulla tua lettura dell’art. 3 della nostra Carta. Il principio di eguaglianza sostanziale imprime all’ordinamento un movimento, una tensione perenne verso l’uguaglianza, nella consapevolezza che ad essa ci si può approssimare senza raggiungerla mai pienamente. In questo senso questo principio rimane credibile e aupicabile, anzi è il fine per il quale la parte migliore dell’umanità ha sempre combattuto. Ecco perché credo che questa spinta egalitaria debba rimanere, anzi essere rivivicata, posto che oggi prevale la tendenza opposta, verso l’accentuazione della diseguaglianza.
D’accordo sull’accesso al reddito. Ma come si raggounge questo obiettivo? Per quanto mi sforzi di pensare (reddito di cittadinanza etc.), mi sembra che il lavoro sia pur sempre il miglior veicolo di dignità delle persone. Certo, dev’essere un lavoro che si svolge in un ambiente pienamente democratizzato, e non mi sfugge che, in regime capitalistico, pur con tutte le garanzie, il lavoro dipendente implica sempre una subalternità al proprietario dei mezzi di produzione e alla gerarchia aziendale. Ma questo pone altri problemi, apre alla prospettiva socialista oggi del tutto abbandonata, ma che mi ostino a ritenere la più giusta e democratica. Certo, giustizia e libertà sono due obiettivi difficili da inverare “in contemporanea”, come ci insegna la tragica storia del Novecento. E tuttavia la riflessione del nostro Gramsci ci offre molti spunti in questa direzione, dando un contributo creativo in chiave democratica alla grande intuizione egualitaria di Marx.
2 Gianfranco Sabattini
15 Aprile 2016 - 14:44
Caro Andrea,
ti ringrazio del risalto e del commento che hai riservato al mio articolo pubblicato oggi sul “Blog”; consentimi, tuttavia, di precisare meglio alcuni passaggi del mio pensiero, oggetto della tua benevola critica.
Sull’obiettivo reddito di cittadinanza, numerosi sono i miei articoli da te gentilmente pubblicati, nei quali sono stati illustrati le modalità di una sua attuazione; non nascondo, tuttavia, le difficoltà cui andrebbe incontro una sua completa e corretta introduzione, causate anche dal fatto che, in Italia, la classe politica sull’argomento è del tutto disinformata.
Ciò che, a fronte della tua critica, mi preme chiarire è soprattutto la tua affermazione riguardo al principio di uguaglianza sostanziale, che, secondo le tue osservazioni critiche, dovrebbe essere soddisfatto attraverso la “tensione perenne”, che immagino tu supponga debba essere resa possibile, sul piano politico, da un costante stato di confronto tra le classi sociali (conflitto), perché l’uguaglianza sia raggiunta in termini approssimati, senza mai raggiungerla pienamente.
Su questo punto consentimi di condividere la critica di Rawls, ribadendo che la piena realizzazione dello Stato di diritto democratico, presuppone che al principio di comunità/fraternità/solidarietà sia assicurata la stessa garanzia istituzionale pre-politica sinora riservata ai soli principi di liberà e di uguaglianza; ciò, perché senza l’istituzionalizzazione pre-politica del principio di comunità/fraternità/solidarietà la base democratica dello Stato di diritto continuerà a conservarsi, come dice Rawls, “zoppa”, cioè incompleta, da richiedere, per compensarne le conseguenze negative, il costante ricorso al conflitto sociale per realizzare politiche caritatevoli e ridistributive; pratiche, queste, che sviliscono la democrazia, anziché nobilitarla.
Se anche il principio di comunità/fraternità/solidarietà fosse garantito in terni pre-politici, giustizia e libertà sarebbero inverati “in contemporanea” e, forse, il nostro modo di pensare la società socialista tenderebbe sicuramente a convergere. La garanzia pre-politica del principio di comunità/fraternità/solidarietà implica ex ante, sia la rimozione delle ineguaglianze sociali, sia la partecipazione, nella libertà e nell’uguaglianza sostanziale, al processo decisionale collettivo. In tal modo, la realizzazione del socialismo sarebbe inquadrata nella prospettiva del contrattualismo repubblicano, fondato sulla conservazione e regolazione della cosiddetta “proprietà repubblicana”.
La conservazione della proprietà privata varrebbe a restringe il significato astratto dell’istanza ugualitaria implicita nel principio di comunità/fraternità/solidarietà; questo principio, in sé e per sé considerato, assume il significato di uguaglianza radicale sul piano distributivo, mentre quando è coniugato con la conservazione della proprietà privata esso implica il permanere di possibili disuguaglianze distributive “residue”, sempre tenute però al di sotto della possibilità che sia alterata l’uguaglianza politica dei componenti la società. Ciò, in conseguenza del fatto che la proprietà repubblicana non implica una radicale uguaglianza distributiva, ma un’uguaglianza assoggettata a due restrizioni: una relativa al contenimento delle disuguaglianze tra tutti i componenti della società; un’altra relativa alla garanzia, per ogni membro della società, in quanto non condizionato dall’esistenza di disuguaglianze economiche tali da compromettere un’uguale partecipazione al processo decisionale collettivo.
Il contenimento delle disuguaglianze distributive e la partecipazione paritaria alle decisioni collettive sarebbero la logica conseguenza dell’istituzionalizzazione pre-politica, oltre che del principio di libertà e di quello di uguaglianza formale, del principio di comunità/fraternità/solidarietà, garantito sul piano sostanziale dalle due restrizioni connesse alla istituzionalizzazione della proprietà repubblicana.
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