Anche contro la criminalità urge una politica coerente

7 Aprile 2016
3 Commenti


Tonino Dessì

Un’altra enorme bufera si abbatte sull’Isola: ieri è stato scoperchiato un imponente e organizzato traffico di stupefacenti con ramificazioni profonde in Sardegna.
 Prescindiamo dal fatto che anche questa indagine coinvolga tra gli altri un politico e ovviamente diamo per scontata, come in tutti i casi analoghi, ogni presunzione di rito in materia.
In questi giorni ci stiamo interrogando sulle matrici possibili degli attentati agli amministratori locali, ambientali ed esterne. Nelle settimane scorse ci siamo interrogati sulla matrice di rapine organizzate con metodi e strumenti di tipo militare. In precedenza abbiamo dovuto in varie occasioni interrogarci su metodi e moventi di molti omicidi rimasti irrisolti. Ricorrentemente ci domandiamo se nella nostra società complessiva, non solo delle aree interne, siano diffusi o connaturati comportamenti omertosi o di autentico collateralismo con la criminalità. In generale siamo sempre più frequentemente a interrogarci se in Sardegna vi sia o meno la presenza delle grandi organizzazioni criminali tipiche di altre aree della penisola italiana.
Sono domande complesse.
Un fatto, però, comincia ad assumere evidenza macroscopica. Per la penetrazione e per la diffusione di una particolare tipologia di delitti non basta l’esistenza di un contesto caratterizzato da tradizioni storiche criminogene o da un’attualità di disagio economico, sociale, culturale. Occorre un mercato, oppure la funzionalità di un territorio ad altri mercati, anche esterni ad esso. Questo soltanto giustifica la presenza e dà conto della dimensione degli investimenti dell’impresa criminale. Quantità enormi di stupefacenti, di armi, di danaro non si reperiscono e non circolano in ambienti chiusi. Insomma dev’esserci un circuito molto consistente di profitti attesi in misura più che proporzionale ai rischi, che non solo consentano di estendere il reclutamento in loco di basisti o di esecutori materiali, ma favoriscano anche l’affacciarsi, sempre in loco, di quadri e di dirigenti dotati di autonoma iniziativa e di capacità relazionali ambientali ed esterne. E allora si possono spiegare anche l’articolazione e la varietà, l’entità, la spavalderia, l’aggressiva efferatezza, l’impunità relativa di queste presenze e la paura che intendono imporre e che incutono nei nostri territori.
Non necessariamente è mafia o camorra: da un lato certi traffici sono tipici di realtà non meridionali, dall’altro e ormai da tempo anche mafia e camorra possono essere pienamente definite realtà metropolitane. Per loro natura le periferie metropolitane, come è divenuta la Sardegna per intero, sono particolarmente idonee alla logistica e in parte anche al diretto esercizio dei grandi traffici criminali.
Penso che occorra riflettere in forme non schematiche, su questi argomenti. Essi investono nel suo complesso tutta la realtà italiana, nella quale vaste aree del terriorio peninsulare sono tuttora interamente occupate dalla criminalità. Una criminalità che non esita a infiltrarsi e a condizionare l’economia, la politica e l’amministrazione.
Credo che la richiesta di più Stato in Sardegna non sia priva di fondamento, anche per quanto riguarda il rafforzamento di un campo, quello della sicurezza pubblica, che pare come altri piuttosto in condizioni di ritirata generale. Più Stato nelle sue funzioni esclusive, intendiamoci, non intendendo questo come riaccentramento di funzioni improprie nè come pretesa o richiesta di nuove emergenzialità istituzionali o giuridiche.E più Stato nella concezione democratica del termine, cioè ancor più Repubblica, intendendo con ciò anche e soprattutto Regione e autonomie locali non come terminali di operazioni di finanza pubblica o di attività burocratiche, bensì come strumenti di presidio politico, di mobilitazione civica e -soprattutto- di severa vigilanza interna, da parte dei soggtti politici e dei movimenti organizzati e d’opinione, sulle forme di selezione delle rappresentanze e sulle modalità di conquista e di mantenimento del consenso qui, nell’Isola, nellle sue città e nei suoi paesi, nei suoi strati sociali di riferimento.
Non per “buttare tutto in politica”: sono contrario. Ma la politica non può rifuggire dall’interrogarsi sul fatto che la sua debolezza, quando non la sua inanità, invano -mi credano i politici istituzionali autonomisti, indipendentisti e sovranisti a parole- giustificate con velleitarismi retorici e più ancora il suo autentico e perdurante discredito concorrono a determinare quel vuoto in cui altri soggetti possono introdursi e nel quale i cittadini restano sempre più attoniti e soli.