Gianfranco Sabattini
Pubblichiamo ora la seconda parte dell’articolo di ieri.
Sistema Capitalista
Il neoliberalismo è un’ideologia elaborata nel 1938, in occasione di una conferenza internazionale svoltasi a Parigi, intitolata “Colloque Walter Lippman”, allo scopo di formulare una nuova traduzione normativa in campo economico del liberalismo, come reazione al liberismo “laissezfairista” e al diffondersi delle idee del collettivismo socialista. In quell’occasione, il termine neoliberismo è stato introdotto da Alexander Rüstow, in contrapposizione al liberismo classico. Alla conferenza ha partecipato, oltre a Lippmann, anche il fior fiore degli “ordoliberalisti” tedeschi, tra i quali Wilhelm Röpke e Alexander Rüstow, i teorici della scuola austriaca Friedrich Hayek e Ludwig von Mises ed altri studiosi, come Raimond Aron e Jacques Rueff. Alla fine della conferenza, i partecipanti avevano deciso di promuovere la diffusione dell’ideologia neoliberalista, ma a causa della guerra, l’impegno non ha avuto seguito; dopo il 1945, per iniziativa di Friedrich Hayek e di Milton Friedman, le idee nate dalla conferenza parigina sono state ereditate dalla Mont Pelerin Society, per la prosecuzione dell’impegno che si erano dati i partecipanti al “Colloque”, ma con un’interpretazione delle finalità del neoliberismo alquanto diversa da quelle che erano state affermate nella conferenza di Parigi.
Resta, perciò, la questione di stabilire se il neoliberismo, così come è stato interpretato dalla Mont Pelerin Society, abbia qualcosa a che fare con il neoliberismo della conferenza di Parigi. Tra l’originaria formulazione dell’ideologia neoliberista e la sua lettura post-bellica non esiste alcuna relazione. Infatti, se da un lato il neoliberismo del “Colloque” parigino era fondato sulla necessità di un pieno ricupero della dimensione della concorrenzialità del mercato affrancato da ogni vincolo statuale; dall’altro lato, esso era consapevole del fatto che il mercato, se lasciato libero di agire, tendesse a dissolvere, piuttosto che ad unire, disgregando così la coesione sociale, per cui, a fronte di tale pericolo, il neoliberismo del “Colloque” prevedeva la costruzione di un apparato pubblico regolatore sul piano distributivo che impedisse la disgregazione della comunità.
In altre parole, il neoliberismo della conferenza di Parigi, per quanto conservatore, non lasciava libero sfogo agli “animal spirit” del libero mercato, ma suggeriva di compensare il loro carattere selvaggio con la costruzione di dispositivi che garantissero la tenuta della coesione sociale della comunità. La necessità di questi dispositivi, secondo i formulatori del neoliberismo del “Colloque”, corrispondeva all’esigenza strutturale di una disciplina del funzionamento del sistema economico, in presenza della generalizzata concorrenzialità del mercato.
Nella versione originaria del neoliberismo, perciò, il capitalismo doveva tradursi in un sistema economico-istituzionale, in cui i dispositivi istituzionali dovevano governare e regolare la produzione e la sua distribuzione tra tutti i partecipanti al processo produttivo; senza i dispositivi regolatori, l’intero sistema sociale non avrebbe potuto continuare ad operare nella stabilità e nell’ordine. Tutto ciò è stato largamente comprovato dall’esperienza dei primi trent’anni successivi alla seconda guerra mondiale: a metà degli anni Settanta, il sopraggiungere di una crisi economica, dovuta al caro-energia, al disordine monetario e alla saturazione dei mercati, è stato imputato dagli economisti della Mont Pelerin Society agli eccessi nell’espansione del settore pubblico e nella regolamentazione dei mercati, cui hanno fatto seguito le “cure” radicali suggerite da Friedrich Hayek e da Milton Friedman.
Pur avendo partecipato ai lavori del “Colloque”, nell’immediato dopoguerra, parigino, Hayek e Friedman non sono stati gli attuatori del programma che si erano dati Walter Lippmann e compagni, come sembra sostenere Mingardi; è vero che questi ultimi avevano elaborato le loro idee anche al fine di opporre un valido baluardo all’espansione del collettivismo e a difesa della libera iniziativa, ma questo obiettivo, come si è detto, non è stato l’unico, dato che si sono preoccupati anche di porre rimedio agli esiti del non più giustificabile “laissezfairismo” del liberismo originario; il neoliberismo di Hayek e compagni, invece, è stato tradotto in “puro armamentario” rivolto al contenimento dei programmi post-bellici volti a dotare i sistemi economici, fondati sulla libertà d’iniziativa e di mercato, di un efficace dispositivo welfarista, che lo stesso Hayek non ha mai esitato di considerare una “forma soft” di collettivismo, restando fermo in questo suo convincimento per tutto il resto della sua lunga vita.
Pertanto, il reaganismo e il thatcherismo della metà degli anni Settanta del secolo scorso segna il definitivo ingresso dell’ideologia del neoliberismo proprio della Mont Pelerin Society nell’agenda politica dei governi delle economie capitaliste e l’avvio dello smantellamento di tutto ciò che i governi socialdemocratici avevano realizzato nei primi trent’anni successivi al secondo conflitto mondiale.
La “leggenda nera” – afferma ancora Mingardi - sarebbe servita a nascondere la preoccupazione che l’”agnello capitalista” decidesse di non “farsi tosare più” e che, con la globalizzazione delle economie nazionali, “se ne andasse altrove, seguendo il gioco delle convenienze”, con il conseguente approfondimento delle disuguaglianze distributive. Riguardo a questo punto, ai “farisei” della socialdemocrazia sarebbe mancato il coraggio di dire la verità, ovvero che il reddito dei lavoratori dei Paesi socialdemocratici doveva essere tutelato a scapito dei lavoratori di altri Paesi; l’ammissione, secondo Mingardi, avrebbe dimostrato che le “famigerate politiche neo-liberiste”, pur efficaci per attrarre capitali e promuovere la crescita, sarebbero state considerate nefaste sul piano politico, in quanto avrebbero comportato delle conseguenze che la socialdemocrazia non poteva accettare (come, ad esempio, “limitare le proprie pretese sui redditi dei cittadini” e consentire che costoro impiegassero nel modo che avessero ritenuto “più opportuno le proprie risorse”).
E’ certamente vero che per contenere gli esiti negativi dell’originario “laissezfairismo”, la realizzazione nei Paesi socialdemocratici dell’equilibrata combinazione di regolamentazione economica e di ordine sociale è stata spesso perseguita attuata attraverso un interventismo che è andato ben al di là di ogni limite plausibile e siano state spesso adottate politiche monetarie sbagliate per sostenere i livelli occupazionali; è anche certamente vero che importanti contributi nel campo della teoria economica hanno avuto origine dalle molte critiche formulate dagli affiliati alla Mont Pelerin Society al costruttivismo, con cui la socialdemocrazia ha cercato in molte occasioni di contenere i guasti delle eccessive procedure burocratiche introdotte per la regolamentazione del mercato. Tutto ciò non toglie, però, che i critici della socialdemocrazia à la Mingardi, pur di conservare i privilegi dell’essere cortigiani al servizio degli oligarchi di turno, non esitino ad interpretare arbitrariamente l’evoluzione delle idee, purché la loro interpretazione sia, essa sì, un “bello stratagemma narrativo”, utile solo alla soddisfazione del loro interesse personale.
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