8 Marzo: la donna nella Costituzione

8 Marzo 2016
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Red 

Il Comitato per il NO al referendum costituzionale  festeggia l’8 Marzo a Cagliari con un dibattito (alle 17 Ostello Marina - Scalette di S. Sepolcro - vedi locandina), introdotto da una autorevole costituzionalista, Silvia Niccolai, della Facoltà di Scienze Politiche di Cagliari. E’ un modo per difendere la Costituzione, che è insieme un punto d’arrivo e la base del tortuoso percorso verso la parità di genere.
Nella nostra Isola c’è una ragione in più per questa lotta. 

In Sardegna l’insulto alle donne è conclamato e permanente: solo quattro donne in Consiglio regionale!

Oggi 8 Marzo non possiamo dimenticare la permanente disparità, perpetrata da una legge palesemente incostituzionale, la legge elettorale sarda, che ha dato il risultato di vedere solo quattro donne in Consiglio regionale su sessanta seggi. Roba da califfato più che da Assemblea elettiva di una Regione dell’Italia repubblicana! Una legge elettorale truffa, nata dall’accordo fra PD e Forza Italia (al tempo PDL), le stesse forze che oggi, anche con l’Italicum, vogliono scassare la nostra Carta costituzionale nata dalla Resistenza. Abbiamo il dovere di battere queste leggi retrograde per riprendere il percorso di libertà e di uguaglianza nel solco  della Costituzione. 
Infatti, come ci ricorda Cecilia D’Elia in uno scritto apparso qualche anno fa nella Enc. Treccani,  ”in occasione delle elezioni per l’Assemblea costituente, per la prima volta le donne italiane esercitarono il diritto di voto e il diritto di essere elette in una assemblea rappresentativa. Entravano a far parte della comunità politica nazionale. Gli anni che ci separano da quella data sono stati densi di trasformazioni. Non a caso in riferimento ai profondi cambiamenti culturali e di stile di vita che hanno attraversato la società e la famiglia nella seconda metà del secolo scorso si è parlato di rivoluzione femminile. Una rivoluzione che ha interessato tutto il mondo occidentale.
Se si dovesse ricercare una prima radice di questa storia della libertà femminile nell’Italia repubblicana, senza nascondere i salti e le discontinuità di cui ogni storia è fatta, sicuramente dovremmo rivolgerci alle ragazze che nel 1943, pur avendo ereditato un ruolo codificato da secoli ed essendo cresciute in un regime che aveva escluso le donne dalla sfera pubblica, scelsero l’impegno e la Resistenza. È un passaggio cruciale della costruzione della soggettività femminile nel nostro paese, senza il quale anche il riconoscimento del diritto di voto alle donne sarebbe stato più difficile. Il decreto legge che estendeva il voto alle donne (1° febbraio 1945) significativamente dimenticò l’elettorato passivo, che fu concesso in un secondo decreto del marzo 1946, a ridosso delle amministrative. Ventuno donne furono elette nella Costituente, duemila nei consigli comunali.

Un’emancipazione nel solco della Costituzione
Inizia così un percorso di autonomia delle donne che negli anni ha prodotto anche significative modifiche della legislazione. Questo cammino di emancipazione ha potuto compiersi nel solco dei principi della Costituzione italiana. Basti pensare all’importanza dell’art. 3, che stabilisce l’uguaglianza morale e giuridica tra uomo e donna. Un’apertura solo in parte contraddetta dalle formulazioni relative alla funzione della donna nella famiglia, dove riemerge il ruolo prioritario di madre e di moglie. Ma nella Costituzione c’è la parità nel lavoro (art. 37) e l’accesso agli uffici pubblici e alla cariche elettive (art. 51), anche se per poter entrare nella magistratura e nella carriera diplomatica bisognerà aspettare il 1963.

La parità sul lavoro
Gli articoli della Costituzione sulla parità nel lavoro furono possibili anche grazie alla mobilitazione contro la richiesta dei reduci di licenziare le donne impiegate. Per molto ancora, però, la parità rimarrà solo formale. Del resto nella cultura diffusa, e anche in quella del movimento sindacale del dopoguerra, le lavoratrici erano viste come donne che occupavano posti di lavoro che servivano agli uomini. La loro collocazione naturale era in famiglia, dove la parità non esisteva. Erano ancora in vigore le norme del Codice penale sulla punibilità dell’adulterio e sul delitto d’onore e il codice civile dava all’uomo il titolo di capofamiglia, l’esercizio della patria potestà e l’amministrazione dei beni.
Nella società italiana del dopoguerra anche le donne si erano divise, riproducendo la spaccatura che vi era stata tra i partiti antifascisti. L’Udi, Unione donne italiane, organizzazione nata dalla lotta antifascista con l’ambizione di raccogliere tutte le donne dei partiti del Comitato di liberazione nazionale, divenne l’organizzazione delle donne di sinistra e nel 1947 nacque il Cif (Centro d’iniziativa femminile) l’organizzazione delle donne cattoliche. Queste associazioni furono determinanti nell’organizzare la partecipazione politica delle donne italiane.
Nel 1950, grazie all’impegno della Cgil, dell’Udi e delle deputate del fronte popolare si approvò la legge sulla “tutela fisica ed economica della lavoratrici madri”. L’anno successivo viene nominata la prima donna al governo: la democristiana Angela Cingolani diventa sottosegretaria all’Industria e al Commercio. Finalmente, con un accordo interconfederale nel 1960 furono eliminate le tabelle renumerative differenti per uomini e donne, sancendo la parità formale e sostanziale delle donne e degli uomini nel mondo del lavoro.

Gli anni Settanta e nuovi diritti per le donne
All’apice di questa parabola, quando l’emancipazione e la scolarizzazione delle donne iniziano a essere un dato diffuso della realtà, una nuova ondata di protagonismo politico della donne, il neo femminismo degli anni Settanta del secolo scorso, scuote dalle fondamenta la società. La richiesta non riguarda più semplicemente l’accesso delle donne nella sfera pubblica, ma mette in discussione la divisione tra la sfera pubblica e la sfera privata dell’esistenza, denunciando che nella famiglia le donne continuano a non essere libere. Famiglia e sessualità diventano terreni di analisi politica. L’interesse si sposta sulla riappropriazione del proprio corpo, a partire dalla riflessione sulla sessualità e sulla maternità come destino imposto alle donne. Sintomo di questa soggezione la realtà dell’aborto. Ipocritamente vietato, ma vissuto da migliaia di donne in solitudine e a rischio della propria vita. Prima ancora della richiesta di una legge per la sua legalizzazione, l’aborto nel movimento delle donne fu materia viva su cui riflettere, per riappropriarsi del proprio destino e affermare che su questi temi le donne sono sovrane. Nel 1978 verrà approvata la legge 194 sull’interruzione di gravidanza (che resisterà a un referendum abrogativo nel 1981).
Esplode dunque negli anni Settanta, non solo fra le donne, una richiesta di maggior potere sulla propria vita. In quel decennio vengono approvate una serie di leggi che ampliano gli spazi di autonomia degli individui. È del 1970 la legge sul divorzio, confermata dal referendum del 1974. Nel 1975 viene riformato il diritto di famiglia, garantendo parità tra i coniugi e la comunione dei beni. Nel 1977 viene approvata la legge di parità, integrata poi nel 1991 dalla legge 125 sulle pari opportunità. Nel frattempo erano stati abrogati il delitto d’onore e le norme penali sull’adulterio femminile. La critica all’emancipazionismo fatta dal neofemminismo ha messo in discussione un’idea di uguaglianza tra uomo e donna realizzata come omologazione delle donne agli uomini. Da allora si riflette sulla differenza sessuale, sull’autonoma soggettività femminile. Le donne iniziano a cercare una propria strada e una propria idea di libertà.

La debole presenza delle donne nelle istituzioni
Negli ultimi decenni l’attenzione si è spostata sulla forbice venutasi a creare tra una realtà sociale in cui le donne sono ormai presenti e le istituzioni, dove la presenza femminile è molto limitata. In Italia la prima donna ministro è stata Tina Anselmi nel 1976. Dagli anni Novanta, con alterne fortune, si è discusso della necessità di prevedere quote obbligate di candidature maschili e femminili. La legge costituzionale n.1 del 2003 ha stabilito che le leggi regionali promuovono la parità di accesso tra uomini e donne alle cariche elettive. L’art. 51 della Costituzione è stato riformato introducendo le pari opportunità in modo da dare copertura costituzionale ai provvedimenti che vogliono attuare tale principio in una legge elettorale.
La debole presenza nelle istituzioni non può essere il metro con cui si misura la libertà delle donne. Dice piuttosto quanto la politica istituzionale possa essere impermeabile alla società, correndo il rischio di essere scarsamente rappresentativa. Prima che delle donne è un problema della politica e della nostra democrazia, ci segnala che molta strada è ancora da fare, nel solco di quella rivoluzione iniziata con la Resistenza e la Costituzione”.

Fin qui la D’Elia, ma in Sardegna, come abbiamo ricordato, c’è una ragione in più per la lotta in favore della parità: fare una nuova legge elettorale che consenta una consistente presenza delle donne nell’Assemblea regionale. 

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