Le adozioni di lor signori, meglio “su fill’e anima”

7 Marzo 2016
1 Commento


Andrea Pubusa

Sbaglierò, ma non pongo la questione della maternità surrogata sul piano dei sentimenti.  E’ scontato,  perfino banale, credere che chi riceve in casa un bimbo sia felice. Bene avrebbe fatto, dunque, la sorella di Vendola a scansare i media e a non esternare una gioia ovvia. Sarò vetero, per me, nei giudizi su fatti di rilievo sociale, è sempre centrale individuare se la libertà per la parte debole del rapporto si allarga anche di un soffio o se si restringe. Ora, la si può girare come si vuole, ma nessuno riuscirà a convincermi che nel c.d. utero in affitto manchi una parte più forte e che questa, col potere economico, non prevalga sulla parte debole. Certo, ci sono situazioni in cui questa relazione di subalternità non c’è, come nel caso di quella madre che fece un figlio per la figlia, ma sono vicende eccezionali.
Dice Vendola che nel caso del suo Tobia si è mille anni luce lontani da forme anche marginali di sfruttamento, ma mi ricorda quei compagni - ne ho conosciuto tanti in vita mia e forse, ahime!, anch’io son fra quelli - che giudicano severamente certe cose fatte dagli altri, da avversari della destra, e in modo diverso e positivo se son frutto delle proprie azioni.
Chiedo: quale organizzazione c’è dietro la maternità surrogata alla Vendola? Ci sarà una vasta rete per reclutare le donne, per accertarne lo stato di salute, per seguire la gravidanza. E il tutto per riferire al facoltoso ed esigente committente. Si può dire o pensare che dietro tutto questo c’è un business? Si può credere che il committente, al di là dei buoni sentimenti (che non sono in discussione), sia un facoltoso signore che, per la sua capacità economica, dispone del corpo di una donna?
Si dirà, ma questo signore ha desiderio di paternità, vuole far del bene. Anche qui ammetto di essere irrimediabilmente datato, ma un tempo in Sardegna  era conosciuto “su fillu a sa filla de anima” (figlio/a d’anima). Era un bambino o anche un ragazzo che veniva affidato a coppie senza figli, anche di donne (spesso sorelle), meno soli uomini, che li mantenevano, li facevano studiare o apprendere un mestiere e li sistemavano.  Si legge spesso di personaggi, più o meno noti, allevati e tenuti agli studi dallo zio prete o cresciuti nella bottega di un artigiano (quasi) padre o nel negozio di coniugi o fratelli generosi, che poi lasciavano a loro l’esercizio. Non era amore questo? In questi rapporti non s’intravede neppure in lontananza una qualsiasi forma di sfruttamento. E il nome indica bene questo rapporto d’amore: figlio/a d’anima (fillu/a de anima). C’è stato addirittura un fenomeno di massa in Italia negli anni ‘50: “i treni della felicità” organizzati dalla sinistra, che hanno portato tanti bambini del Sud nelle famiglie del Nord, molti mai rientrati nei luoghi d’origine.
Oggi, in Puglia e in tutto il Meridione d’Italia quanti figli/e d’anima si possono trovare, anche fra le donne incinte che vengono d’oltremare? Nichi, fra quelli, poteva appagare il suo desidero di paternità, poteva trovare il suo fill’anima . C’è tanta gente che già lo fa, in vari modi, senza riflettori, in silenzio. Per fortuna!

1 commento

  • 1 francesco Cocco
    7 Marzo 2016 - 10:45

    Andrea hai ragione: quanti bambini si potrebbero adottare tra i profughi che fuggono dalla guerra e dalla miseria. Ma Tobia è un’ operazione politica, non so se nelle intenzioni ma oggettivamente. Ormai l’ avanguardia ed i maestri del movimento operaio non sono nè Lenin, nè Gramsci ma Luxuria e Nicky……..a che punto siamo arrivati!? Dove stiamo andando !!??

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